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rezza di Biancofiore era tale che non prendeva macchia, nè si appannava, ma nondimeno ella usciva da quella prova inutile con qualche illusione di meno, e una certa amarezza in fondo all'anima. Ed Elmìr non perdonava questo a sè stesso, poichè ben sapeva che distruggere un'illusione è distruggere un po' di gioventù.
— Senti — diss'egli ancora -: facciamo un'altra prova. Fra i principi che vennero a cercarti alla reggia, mi pare che tre ti interessassero di più: il re Alfeo, il principe Oláf, e l'assiro dai lunghi capelli. Vuoi che andiamo a trovarli nei loro paesi dove potrai studiarli da vicino senza che sospettino di essere osservati? Cala la visiera, confonditi agli uomini di scorta, nessuno ti riconoscerà, e tu forse potrai legger più chiaro nella vita e nel cuore di quei tre che più degli altri ti parvero degni d'attenzione.
E così fecero. E cavalca via e cavalca per monti e per valli, per prati e per sentieri, arrivarono alla reggia d'Oláf.
Era calata la notte, e il principe, tornato dalla caccia, con tutti i suoi fidi sedeva a banchetto. Elmìr fu accolto con onore dal gran scudiero ed invitato ad entrare colla scorta nei suoi appartamenti; il principe l'avrebbe ricevuto il giorno seguente.
Una femminea curiosità spinse Biancofiore sulla veranda a scrutar colla lente verso il padiglione dove il banchetto avveniva.
La mensa principesca, i lumi, i fiori si avvicinarono