L'amore paterno/Atto II
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ATTO SECONDO.
SCENA PRIMA.
Camilla e Scapino.
Camilla. Venite qui, Scapino, qui metteremo il tavolino colla spinetta, e qui all’intorno le sedie che possono abbisognare. Scusatemi, se vi do quest’incomodo.
Scapino. Mi maraviglio, signora Camilla. Voi mi potete comandare, e non desidero niente più che servirvi.
Camilla. Siete troppo obbligante.
Scapino. Faccio il mio debito, e niente più. Dove volete che si metta il tavolino?
Camilla. Mettetelo lì, se vi piace.
Scapino. Vi servo subito. (Ella non sa con quanto piacere lo faccia; ella non sa quanto bene le voglio), (va per il tavolino)
Camilla. Queste buone figliuole del signor Pantalone avrebbero bisogno che il cielo le provedesse per essere maritate. Hanno del merito, ed ho piacere che sieno conosciute e sentite. Chi sa che qualcheduno, innamorato della loro virtù, non si riduca a sposarle? lo non lascierò di contribuire alla loro fortuna.
Scapino. (Col tavolino) Eccolo qui. Va bene in questo sito?
Camilla. Va benissimo. Favorite di portar la spinetta.
Scapino. Ben volentieri. (Chi sa che non mi riesca di guadagnarla? Bisogna ch’io procuri di mettermi in grazia), (va per la spinetta)
Camilla. Arlecchino sbuffa, grida, e minaccia, ma non so che fare; ho pietà di questa famiglia, ho data la mia parola, e non posso fare altrimenti. Finalmente Arlecchino mi vuol bene, e quando un uomo vuol bene, non si disgusta per così poco.
Scapino. (Colla spinetta) Ecco la spinetta.
Camilla. Bravissimo, mettetela sul tavolino.
Scapino. Così?
Camilla. Così. Voi fate tutte le cose bene.
Scapino. Vorrei avere abilità sufficiente per dar nel genio alla signora Camilla.
Camilla. Vi sono molto obbligata per il buon cuore che avete per me.
Scapino. Ma io non sono degno della sua grazia.
Camilla. Anzi ho di voi tutta la stima possibile.
Scapino. Eh! io non ho il merito d’Arlecchino.
Camilla. Arlecchino ha il suo merito, e voi non mancate d’averne.
Scapino. Ma egli ha la fortuna di possedere il cuore della signora Camilla.
Camilla. Siete pure grazioso. Vorrei un altro piacere da voi. La stanza è un poco oscura. Se la signora Angelica ha da cantare, non ci vedrà. Fatemi il piacere di andar a prendere quei due candelieri che sono in sala.
Scapino. Volentierissima.
Camilla. Abbiate pazienza.
Scapino. Lasciamo le cerimonie. Comandatemi liberamente. Se sapeste tutto... non ho coraggio a parlare... Basta, col tempo mi spiegherò. (va per i candelieri)
Camilla. Già me ne sono accorta, che è innamorato di me, ma è impossibile ch’io faccia un torto ad Arlecchino. L’amo teneramente. Ho promesso sposarlo, e non mancherei per tutto l’oro del mondo.
Scapino. Siete servita dei candelieri. Li ho da mettere sulla spinetta?
Camilla. Sì, sulla spinetta.
Scapino. Oh, quanto pagherei di saper cantare! (mette i candelieri)
Camilla. Mi vorreste voi cantar qualche arietta?
Scapino. Vorrei dirvi in musica quello che non ho coraggio di dirvi parlando. La poesia e la musica inspirano una certa libertà, che comoda infinitamente.
Camilla. Volete che mettiamo le sedie?
Scapino. Le metterò io. (Come cambia presto il discorso!)
Camilla. Le porteremo in due, metà per uno.
Scapino. Oh Camilla mia, se voleste, voi mi potreste rendere l’uomo più felice del mondo. (portando una sedia)
Camilla. In verità, voi mi fate ridere. (portando una sedia)
Scapino. Ma il fortunato è Arlecchino. (come sopra)
Camilla. Ma via, caro Scapino. Lasciatelo stare il povero Arlecchino; voi sempre lo perseguitate. (come sopra)
Scapino. Il povero Arlecchino! (mette la sedia con dispetto)
Camilla. Non fate così, abbiate carità di quelle povere sedie.
Scapino. Sì, la carità per le sedie, e per me non vi ha da essere carità. (porta un’altra sedia)
Camilla. Io non so di che vi possiate dolere.
Scapino. Corpo di bacco! perchè tutto l’amore per Arlecchino, e niente per me?
Camilla. In quanto a questo poi, scusatemi, vi dirò ch’io sono padrona d’amar chi voglio.
Scapino. Sì, amatelo quel bel soggetto. Veramente lo merita. (mette l’ultima sedia rabbiosamente)
Camilla. Ma che maniera è questa? Se non volete incomodarvi, lasciate stare, ma non istrapazzate così la mia roba.
Scapino. Non mi so dar pace a vedere che una giovine come voi, preferisca uno scimiotto come colui.
Camilla. Non lo sapete? Non è bel quel che è bello, ma quel che piace.
Scapino. Ma cosa vi piace in colui?
Camilla. Tutto.
Scapino. E in me non vi piace niente?
Camilla. Niente.
Scapino. Mi appiccherei dalla rabbia.
SCENA II.
Arlecchino e detti
Arlecchino. (Eccola qua, sempre la trovo in compagnia de Scapin). Oh oh, coss’è sto bel apparato?
Camilla. Niente, caro Arlecchino, egli è per sentire un’arietta della signora Angelica.
Arlecchino. E per chi ha da servir tutte ste careghe?
Camilla. Per alcuni amici del signor Pantalone.
Arlecchino. Ela questa la casa del sior Pantalon? Estu ti la cameriera de sior Pantalon?
Scapino. (Che superbia! quando un uomo ha un poco di bene, si scorda subito quel che era una volta),
Camilla. Si tratta di usare una compiacenza...
Arlecchino. Mi no voggio che ti usi ste compiacenze. Anemo, via ste careghe, porta via sta spinetta.
Scappino. (Il villano!)
Camilla. Ma io non voglio fare una trista figura. Si aspettano dei galantuomini, ho promesso al signor Pantalone.
Arlecchino. E ti ha avudo l’ardir de prometter senza dirmelo a mi?
Scapino. (È molto gentile lo sposo che avete scelto!) (piano a Camilla.
Arlecchino. Coss’è? Cossa te diselo? Coss’è sto parlar a pian?
Camilla. Ma voi siete sospettoso, inquieto, rabbioso.
Arlecchino. Son quel che son, e la intendo a mio modo, e chi no me vol, bon viazo.
Scapino. (Mi pare impossibile che Camilla lo possa soffrire).
Camilla. (Briccone! sa quanto l’amo, e per questo mi parla con arroganza).
Arlecchino. In sta casa non voggio conversazion.
Camilla. Via, per oggi solamente, e non più.
Arlecchino. No, gnanca per un momento.
Camilla. Ma come ho da fare, se ho data la mia parola?
Arlecchino. T’insegnerò mi quello che ti ha da far. Licenziar el sior Pantalon, serrar la porta, lassar che i batta, e non avrir a nissun.
Scapino. (Un ripiego nobile da facchino),
Camilla. No, non sono capace di usar una mala azione, e questo non lo farò mai.
Arlecchino. Ti non lo farà mai?
Camilla. Non lo farò mai.
Arlecchino. Pettegola, ustinada, insolente.
Scapino. (Oh buono!)
Camilla. Tu sei più ostinato e impertinente di me.
Scapino. (Oh meglio!)
Arlecchino. Indegna dell’amor d’Arlecchin.
Camilla. Se tu mi volessi bene, non mi tratteresti così.
Scapino. (Ha ragione).
Arlecchino. Se ho da esser to marido, voi poder comandar.
Camilla. Ti obbedirò nelle cose lecite e oneste.
Arlecchino. Siora Camilla, la reverisso.
Camilla. Serva sua, signor Arlecchino.
Arlecchino. La compatissa.
Camilla. Perdoni.
Scapino. (Questi complimenti mi piacciono infinitamente).
Arlecchino. Vago via. (scostandosi)
Scapino. (Oh che piacere!)
Arlecchino. M’ala chiamà?
Scapino. Signor no, non vi chiama.
Arlecchino. Ho capido, no la me chiama. Scapin sa che no la me chiama. Ho inteso tutto. La vol far a so modo. Gente in casa, conversazion e Scapin al fianco. Servitor umilissimo, (partendo)
Camilla. No, fermati.
Arlecchino. Via de qua, indegna sfazzada. (parte)
SCENA III.
Camilla e Scapino.
Camilla. (Pazienza. Mi porta via il cuore, ma son sicura che tornerà).
Scapino. Povera signora Camilla, mi dispiace infinitamente.
Camilla. E di che vi dispiace?
Scapino. Che abbiate perduto un amante così gentile, uno sposo così compiacente.
Camilla. Perduto? E come l’ho io perduto? Per un poco di sdegno credete voi ch’egli mi abbandoni? Anzi quando si ama davvero, è necessario qualche volta di corrucciarsi un poco. Non si conosce il piacere perfettamente, senza il confronto del dispiacere. La collera forma il chiaroscuro all’amore, e dopo la guerra, è più dolce e più soave la pace.
Scapino. Siete dunque disposta a volerlo amare?
Camilla. Costantemente.
Scapino. Con tutte le malegrazie ch’egli vi usa?
Camilla. Sì, perchè ha poi delle buone grazie, che mi piacciono infinitamente.
Scapino. Siete ben ostinata.
Camilla. La mia non è ostinazione, è costanza.
Scapino. Ma! così va il mondo, è tanto difficile trovarè una donna costante, e ha da toccar la fortuna ad un villano che non la merita. (parte)
SCENA IV.
Camilla sola.
Tutti mi dicono che Arlecchino non merita, ed a me pare che nessuno meriti più di lui: ciò sarà perchè egli è il mio primo amore, perchè sono degli anni che sono avvezza ad amarlo, perchè non ho mai diviso il mio cuore con altri, e quando ho preso un impegno, non so mancare. Ecco perchè sostengo di voler assistere la famiglia del signor Pantalone; perchè ho data la mia parola. Arlecchino si è disgustato, ma la collera gli passerà. Mi fido dell’amor suo, mi fido in un certo potere che hanno le donne ordinariamente sopra degli uomini. Non son bella, ma pure mi par di avere qualche cosa che non dispiace. Un poco di spirito non mi manca, i miei occhi non mi servono male, e in un’occasione, se mi mancano le parole, m’ingegno di supplire colle occhiate, coi gesti e colle lacrime; sì, colle lacrime ancora, che sono le armi più possenti del nostro sesso.
SCENA V.
Celio e detta
Celio. O di casa, c’è nessuno? (di dentro)
Camilla. Venga, venga, signor Celio. Ci sono io; questo sarebbe un buon partito per una delle figlie del signor Pantalone. Vo’ veder se mi riesce...
Celio. Buon giorno, signora Camilla.
Camilla. Serva sua, signor Celio.
Celio. State bene?
Camilla. Per obbedirla.
Celio. Me ne consolo: come sta la signora Clarice?
Camilla. Benissimo.
Celio. Si può riverire?
Camilla. Or ora la vedrete. Terminata che avrà una certa composizione che sta facendo, verrà qui colla signorina Angelica sua sorella.
Celio. Le riverirò tutte e due volentieri. Ma quella che più mi preme, è la signora Clarice, perchè ha dello spirito e del sapere. La signora Angelica ha del merito anch’essa, ma io di musica non m’intendo, e poi non si fa torto agli amici. Io so ch’ella ha formato la passione de! signor Silvio, e gliela lascio tutta per lui.
Camilla. Io non sapeva che il signor Silvio avesse tale premura per la signora Angelica. E un uomo che parla poco, e non si dà a conoscere sì facilmente.
Celio. È stato degli anni in Inghilterra, ed ha appreso il costume inglese. Io all’incontro, sortito d’Italia, sono venuto in Francia, e vi sono, come sapete, da molto tempo, ed ho appreso il costume di questa nazione, vale a dire la sincerità e la franchezza: amo la signora Clarice, e lo dico liberamente, e non m’importa che tutto il mondo lo sappia.
Camilla. Amate voi la signora Clarice?
Celio. Sì certo, teneramente.
Camilla. L’amate? Ho piacere che l’amiate: ella è una brava giovane, voi siete un uomo onesto e civile, io mi lusingo ancora di veder questo matrimonio.
Celio. E che? non si può amare senza intenzione di maritarsi?
Camilla. Amando una figlia onesta, non si può pensare diversamente.
Celio. Eh via, Camilla. So che siete una fanciulla di spirito, lasciamo andare queste malinconie.
Camilla. Sapete voi, signore, che siete in una casa onorata?
Celio. Lo so benissimo.
Camilla. E ch’io non permetterò mai... Scusatemi, è stato battuto. Vado a vedere chi è, e poi vi dirò meglio i miei sentimenti. (parte)
SCENA VI.
Celio, poi Camilla e Silvio.
Celio. Io non avrei difficoltà di sposare Clarice, poiché il suo talento lo merita, e la sua condizione non mi disconviene, ma non sono sì pazzo di volermi mettere una catena al piede.
Camilla. Si accomodi qui, signor Silvio, che or ora verrà la signora Angelica.
Silvio. A suo comodo. Non si disturbi per me.
Celio. Amico, vi son servitore.
Silvio. (Lo saluta senza parlare.)
Celio. Come state? Come va la vostra salute?
Silvio. Sto bene. (con dispetto)
Celio. V'inquietate, perchè vi domando se state bene di salute?
Silvio. Tutto il mondo mi fa la stessa domanda. A me non pare di avere una ciera da ammalato.
Celio. E un complimento che si suol fare.
Silvio. E un complimento eterno, che mi secca infinitamente.
Celio. Siete bene particolare.
Camilla. Per una parte il signor Silvio non ha gran torto. Ci sono nella vita civile alcune cerimonie usuali, che sono inutili affatto; ma ecco qui la signora Clarice.
Celio. (Sono ben contento di rivederla).
Silvio. (E Angelica ancor non viene).
SCENA VII.
Clarice e detti.
Clarice. Serva di lor signori. (Silvio la saluta senza parlare)
Celio. Servo umilissimo, signora Clarice. Come sta di salute?
Silvio. (Mostra il dispetto per un tale complimento.)
Clarice. Benissimo ai suoi comandi.
Celio. Me ne consolo infinitamente.
Clarice. Favoriscano d’accomodarsi. (siede nella sedia di mezzo)
Celio. Per obbedirla. (siede alla dritta di Clarice)
Camilla. Ed ella, signor Silvio, non vuol sedere?
Silvio. Sì, eccomi. (siede lontano dagli altri, presso la spinetta)
Clarice. Così lontano, signore?
Silvio. Scusatemi. Amo la spinetta infinitamente, (apre la spinetta, vi trova dentro delle carte di musica, si trattiene osservandole.)
Clarice. Si accomodi.
Celio. Lasciamo il signor Silvio nella sua libertà, e permettetemi ch’io mi prevalga di questi felici momenti, per dirvi ch’io vi amo teneramente, ch’io sono incantato del vostro merito e della vostra bellezza.
Clarice. Camilla.
Camilla. Signora.
Clarice. Il signor Celio questa mattina è di buon umore. E venuto qui con animo di scherzare.
Camilla. Temto meglio per voi, signora. Nelle angustie nelle quali vi ritrovate, non avete bisogno che di rallegrare lo spirito. (in maniera che Silvio la possa intendere)
Silvio. Camilla.
Camilla. Signore.
Silvio. Una parola...
Camilla. Eccomi. (si accosta)
Silvio. Sono in angustie queste due signore? (piano a Camilla)
Camilla. Sì certo, in angustie grandissime.
Silvio. Manderò io tutto il loro bisogno.
Camilla. No signore, non v’incomodate. Fino che sono in casa mia, non hanno bisogno di nulla.
Silvio. Bene. Scusatemi. (seguita a guardar la musica)
Camilla. Non hanno bisogno di nulla, ma vedere bene, sono in età, hanno del merito, se capitasse loro una buona occasione...
Silvio. Ho capito.
Camilla. E se voi aveste vera stima per la signora Angelica...
Silvio. Non occorr’altro.
Camilla. (Chi mai può arrivare a capirlo?)
Clarice. Basta così, signore. Voi vi avanzate un poco troppo, ed io non sono accostumata a simili complimenti. (a Celio)
Celio. Ma se vi adoro, se da voi sola dipende la mia pace, il mio riposo, la mia vita medesima.
Clarice. Camilla.
Camilla. Mi comandi.
Clarice. Dov’è mio padre?
Camilla. Non so, signora; ecco qui la signora Angelica.
SCENA VIII.
Angelica e detti.
Angelica. Serva umilissima di lor signori.
Silvio. S’alza e la saluta senza parlare.
Celio. Riverisco la signora Angelica. Come sta di salute?
Angelica. Bene per obbedirla.
Silvio. Anche a lei domandate come sta di salute? (a Celio)
Celio. E perchè non glielo dovrei domandare?
Silvio. Il suo volto può dispensarvi da una sì stucchevole interrogazione.
Celio. (Ecco un uomo noioso, che pretende di voler riformare il costume).
Angelica. S’accomodino, non istiano in piedi per me.
Celio. Sedete, se volete che noi sediamo.
Angelica. Ben volentieri. (vuol sedere nel mezzo)
Silvio. Signora, scusatemi. Questo è il vostro luogo, (le accenna) la sedia presso la spinella
Angelica. Quando dovrò cantare.
Camilla. Andate, andate, signora. L’ora è tarda, e se volete favorire questi signori, non vi è tempo da perdere, (ad Angelica)
Angelica. Non c'è mio padre? (piano a Camilla)
Camilla. Non si è ancora veduto.
Angelica. Fate il piacere di ricercarlo, e ditegli che venga qui. (va a sedere alla spinetta, alla dritta di Silvio)
Camilla. Ben volentieri. Sono due giovani bene educate, non può loro mancare fortuna. Io però mi fido più del signor Silvio che del signor Celio. Mi pare che il signor Celio abbia un poco troppo del petit-maître. (parte)
SCENA IX.
Celio, Clarice, Angelica e Silvio.
Silvio. Questa musica è vostra? (con passione ad Angelica)
Angelica. Sì signore, è una piccola cosa che non ha alcun merito.
Silvio. È ammirabile.
Angelica. Siete assai gentile per compatirla.
Silvio. Favorite sentire s’io la capisco.
Angelica. Voi la capirete senza veruna difficoltà, (restano tutti due impiegati ad osservarè la musica).
Celio. Credo che il signor Silvio sia più fortunato di me. (a Clarice)
Clarice. Scusatemi, credo che il signor Silvio sia più discreto di voi.
Celio. E perchè ciò, signora?
Clarice. Egli non ardirà di spiegarsi con mia sorella, come voi vi siete spiegato con me.
Celio. Perchè egli non amerà, come io vi amo.
Clarice. Se il vostro amore è perfetto, perchè non lo partecipate a chi si conviene?
Celio. E a chi dovrei io farne parte?
Clarice. A mio padre.
Celio. A vostro padre? Ho inteso. Per ora non potreste voi dispensarmi?
Clarice. No, il vostro amore è dubbioso, ed io non lo deggio assolutamente soffrire.
Celio. (Gran disgrazia è la nostra. Le donne o sono troppo facili, o troppo severe. Nelle facili non vi è costanza, e nelle severe manca la compiacenza). (resta sospeso)
SCENA X.
Pantalone e detti, poi Scapino.
Pantalone. Patroni reveriti.
Silvio. Riverisco il signor Pantalone.
Celio. Servitor umilissimo. (sostenuto)
Silvio. Signor Celio.
Celio. Che comandate?
Silvio. Perchè non gli domandate, come sta di salute?
Celio. Ora sto male io, e non mi curo della salute degli altri.
Pantalone. Mi, per grazia del cielo, stago ben, e ela, sior Celio, cossa se sentela?
Celio. Un poco di melanconia, un poco di oppressione di spirito.
Pantalone. Gnente, el xe in bone man. El xe in te la più bella occasion del mondo de recrearse. Fie mie, feghe sentir qualcossa de bello. L’averà motivo de devertirse.
Celio. Sì, è necessario ch’io mi diverta. (Non vo’ far conoscere la mia debolezza).
Scapino. Signor padrone.
Pantalone. Cossa gh’è?
Scapino. Il signor Florindo e il signor Petronio vorrebbero riverirla.
Pantalone. Sì ben, i vien a tempo anca lori, che i resta servidi. I sentirà le mie putte.
Scapino. (Gran passione ha il signor Pantalone per queste sue figlie. Fa anch’egli come fanno le madri delle virtuose: sentirete mia figlia, sentirete mia figlia). (parte)
Pantalone. Se dilettela de poesia, sior Celio?
Celio. Tutte le cose belle mi piacciono. (guardando Clarice)
Pantalone. La sentirà un pezzo da sessanta. La sentirà un capo d’opera.
SCENA XL
Florindo, Petronio e detti.
Pantalone. Oh veli qua! Patroni, che i resta servidi, che i vegna avanti.
Florindo. Servitor umilissimo di lor signori.
Petronio. Servo riverente di lor signori. (tutti li salutano)
Pantalone. Le se comoda.
Petronio. (Siede vicino a Celio.)
Florindo. (Siede vicino a Petronio, sopra l’ultima sedia.)
Pantalone. (Siede fra Clarice ed Angelica) Le soffrirà le debolezze delle mie putte. Un pochetto de musica, un pochetto de poesia. Strazzarie, bagatelle.
Florindo. Anzi, so che hanno del talento. Mi preparo di godere infinitamente. (Ci siamo, convien soffrire la seccatura), (a Petronio)
Petronio. (Soffriamola), (a Florindo) (Io non capisco niente nè di musica, nè di poesia).
Pantalone. Le sentirà, le compatirà, piccole cosse, cosse da donne. (ridendo)
Florindo. Si sa che le donne non sono obbligate di saper quanto gli uomini. È egli vero, signor Petronio?
Petronio. Le donne poi saranno sempre donne.
Pantalone. Eh, le xe donne. Mie fie xe donne, ma le xe de quelle donne, sala, che non le gh’ha invidia de qualche omo.
Celio. Sono poco obbliganti questi signori. (piano a Clarice)
Clarice. Li conosco, ma li soffro per compiacere mio padre, (a Celio)
Pantalone. Via, Clarice, faghe sentir quel sonetto che ti ha butta zo sta mattina. Le sentirà un sonetto fatto in diese minuti. Le sentirà se el xe un componimento da donna.
Clarice. Ma voi sapete, signore, che il sonetto non è che abbozzato.
Pantalone. N’importa. Dilo come che el xe. Le sentirà che abozzo.
Clarice. Per obbedirvi, lo dirò com’è. (lira fuori la carta)
Florindo. (Ha più premura ella di dirlo, che noi di sentirlo). (a Petronio)
Petronio. (Sì, la solita vanità de’ poeti). (a Florindo)
Pantalone. Dighe prima l’argomento, se ti vuol che i lo goda. (a Clcrice)
Clarice. Il sonetto riflette sul passaggio che hanno fatto di loco in loco le scienze e le belle arti.
Pantalone. Séntele? Le scienze e le belle arti; e adesso dove xele le scienze e le belle arti? (a Clarice)
Clarice. Lo sentiranno dal sonetto.
Pantalone. Le sentirà, a Parigi. Le scienze e le belle arti a Parigi. Le sentirà el sonetto.
Clarice. Del Nilo un tempo, e dell’Eufrate in riva. Sparse Minerva di scienza1 i frutti. (I)
Pantalone. I frutti. (ascoltandola con grande attenzione)
Clarice. Indi del vasto mar solcando i flutti,
Piantò l’arbor feconda in terra argiva.
Pantalone. Che vol dir in Grecia. Ah? cossa diseli? Se pol dir de meggio?
Florindo. (Che cattivo principio!) (a Petronio)
Petronio. (Cattivissimo). (a Florindo)
Celio. Che dite? Non è una quartina stupenda? (a Petronio)
Petronio. Stupenda. (a Celio)
Pantalone. Da capo, da capo, e le staga zitte, le goda, e no le interrompa più fina in ultima.
Clarice. Del Nilo un tempo, e dell’Eufrate in riva,
Sparse Minerva di scienza i frutti.
Indi del vasto mar solcando i flutti,
Piantò l’arbor feconda in terra argiva.
Roma, l’invida Roma, in cui fioriva
La gloria sol de’ popoli distrutti,
Coi talenti di Grecia in lei tradutti
Dissipò l’ignoranza in cui languiva.
Sotto lungo dappoi barbaro sdegno
Giacque incolta l’Europa, e i bei vestigi
Rinnovò di virtù l’italo ingegno.
Ora la saggia Dea de’ suoi prodigi
Prodiga è resa delle Gallie al regno.
Menfi, Roma ed Atene oggi è in Parigi.
Pantalone. Oh brava! Oh pulito! (battendo le mani) Menfi, Roma ed Atene oggi è in Parigi. Ah! xele cosse da donna? o xele composizion da Petrarca, da Ariosto, da Metastasio?
Celio. E viva la signora Clarice.
Florindo. Bravissima. (Non si può far peggio). (a Petronio)
Petronio. (Puh che roba!) (a Florindo)
Celio. Non si può negare che il sonetto non sia un capo d’opera. (a Petronio)
Petronio. Pare anche a me, che sia un capo d’opera, (a Celio) (Io non ho inteso una parola).
Celio. (Ah, sempre più m’innamora. Non vorrei esser costretto a sagrificare la mia libertà).
Pantalone. E èla, sior Silvio, no la dise gnente? Non la se degna gnanca de dirghe brava a mia fia?
Silvio. Io l’ammiro infinitamente, ma la mia passione è la musica.
Pantalone. Grazie al cielo, gh’avemo da sodisfarla. Vorla musica? la sentirà della musica. A ti, Angelica, canteghe quella cantata che ti ha composto ti colle parole de to sorela. Musica de una sorela, parole dell’altra sorela, tutte do mie fie. Ah! songio un pare felice? Animo, da brava. Le sentirà, le sentirà no digo gnente, le sentirà.
Angelica. Avranno la bontà di perdonare.
Pantalone. Sì sì, perdonare. La sastu a memoria la cantata?
Angelica. Sì signore: siccome io ho composto la musica, la so a memoria.
Pantalone. Co l’è cussì donca, da brava, lèvete suso, dila a memoria, e gestissi un poco. Le vederà che grazia che la gh’ha in tel gestir.
Angelica. Come volete: ma ci vorrebbe qualcheduno che mi accompagnasse.
Silvio. Se comandate, vi accompagnerò io. (ad Angelica)
Pantalone. Sì ben, el te compagnerà elo. La prego de far pulito, (a Silvio) Ma aspetta, disemoghe l’argomento della cantada.
Angelica. Lo dirà mia sorella, che è la compositrice delle parole.
Pantalone. Dilo ti, fia mia. (a Clarice)
Clarice. L’argomento della cantata è la supplica, o sia il memoriale d’un poeta italiano, che domanda in grazia ad Apollo di non essere disprezzato a Parigi.
Pantalone. Mo che bel argomento! Xelo a proposito? Xelo inzegnoso?
Florindo. (Ci si vede la presunzione). (a Petronio)
Petronio. (Chiarissima). (a Florindo)
Celio. (Il suo desiderio è lodevole). (a Petronio)
Petronio. (Lodevolissimo). (a Celio)
Pantalone. Animo, da brava, canta, e fate onor, fia mia. (ad Angelica)
Angelica. Veramente non sono in voce.
Pantalone. N’importa.
Angelica. E se mi manca il fiato?
Pantalone. T’agiuterò mi.
Angelica. (Canta, accompagnata dall’orchestra.)
Sacro nume di Pindo,
Tu che l’anime accendi
Di canora armonia, tu che rischiari
De’ mortali la mente.
Gran lume onnipossente,
Degli uomini conforto, e degli Dei,
Presta orecchio pietoso ai voti miei.
Della Senna in su le sponde, |
Rammenta, o biondo Dio,
Quanti del sudor mio divoti pegni
Ottenesti finor. Vegliai le notti
Per offrirti gl’incensi. A te in tributo
I più bei dì della mia vita io diedi,
E qual ebbi da te grazie, o mercedi?
Questo dono or ti chiedo.
Sia grazia, o sia mercè. Fa che un tuo raggio
Rischiari il mio talento,
Fa ch’io piaccia a Parigi, e son contento.
Ah, che dal ciel discende |
Pantalone. Oh cara! Oh benedetta! Oh che musica! Oh che parole! Ah, cossa diseli? Cossa ghe par?
Celio. Per verità, non si può sentire di meglio.
Pantalone. Cossa disela, sior Silvio?
Silvio. È adorabile, sono incantato.
Florindo. (Parole indegne, musica scellerata). (a Petronio)
Petronio. (Tutto cattivo dunque). (a Florindo)
Florindo. (Tutto pessimo).
Petronio. (Sarà tutto pessimo).
Celio. Che dite? avete mai sentito di meglio? (a Petronio)
Petronio. Mai. (a Celio)
Pantalone. E èla no dise gnente, sior Florindo? Par che no l'abbia godesto.
Florindo. Sì, ho goduto. (ironicamente)
Pantalone. Mi ho paura che nol se n’intenda.
Florindo. Perdonatemi. La musica e la poesia le conosco perfettamente.
Pantalone. E ela, sior Petronio?
Petronio. Io? Ho un gusto delicatissimo.
Pantalone. Cossa disela de mie fie, donca?
Petronio. Oh!
Pantalone. La diga el so sentimento.
Petronio. Io mi riporto al giudizio di questi signori.
Pantalone. (Povero martuffo! Nol sa gnente).
Florindo. Io stimo infinitamente il talento delle signore vostre figliuole, specialmente la buona disposizione della signora Clarice. Per donna è qualche cosa.
Pantalone. Per donna!
Florindo. Ma se volete sentire un pezzo di poesia, mi darò l'onore io di recitarvi un piccolo madrigale da me composto, che non vi spiacerà.
Pantalone. Eh credo benissimo, senza che la se incomoda.
Florindo. No no, ho piacere che sia giudicato dalla signora Clarice.
Clarice. Lo sentirò volentieri.
Pantalone. (Me par mo anca, che la sia una mala creanza).
Florindo. Sentite l’argomento. In lode della cera di Spagna.
Pantalone. Puh, che diavolo d’argomento!
Florindo. L’idea è bellissima. Si loda la cera di Spagna che sigilla, e assicura dall’altrui curiosità i viglietti amorosi. Ah! vi piace, signor Petronio?
Petronio. Stupenda.
Celio. (Fa cenno a Petronio, che non va bene.)
Petronio. (Con cenni disapprova.)
Florindo.Del pesato sottil talento ispano
Rubiconda, stupenda maraviglia,
In candida conchiglia
Delle perle d’amor chiude l’arcano.
Pantalone. Oh che roba! burlandosi)
Florindo. Come?
Clarice. Bellissima. (ridendo)
Celio. Maravigliosa.
Angelica. Stupenda.
Florindo. Signor Silvio.
Silvio. Benissimo.
Florindo. Signor Petronio.
Petronio. Vi faccio il mio umilissimo complimento.
Florindo. Grazie, obbligato. Eh, picciole cose! vi è un poco di spirito, di novità.
SCENA XII.
Arlecchino, poi Camilla, e detti.
Arlecchino. Con licenza de lor signori.
Camilla. Fermatevi, non fate scene.
Arlecchino. Sento che i se diverte con delle belle poesie. Son qua anca mi, se i se contenta, a recitarghe una composizion.
Pantalone. (Oimei, ogni volta che vedu costù, me vien el spasemo).
Camilla. Arlecchino, abbiate giudizio per carità.
Arlecchino. Tasi, e ascolta anca ti sta bella composizion.
Florindo. Sentiamo lo spirito d’Arlecchino.
Petronio. Sentiamo.
Arlecchino. Le senta l’armento2 della canzon. Una donna ha promesso a un galantomo de torlo per marito3, sto galantomo vuol che la sposa fazza a so modo, e la sposa no lo vol far. Nol vuol che la tegna zente in casa, e ela ghe ne vol tegnir. Nol vol conversazion, e ela vol far conversazion. Mi son el galantomo, Camilla xe la sposa, lor signori xe quelli che mi no voleva, e che ela vol. Questa xe la canzon. (tira fuori una carta) El contratto di nozze. Questa xe la musica: el contratto strazzà, el matrimonio desfatto, e bona notte padroni, (in atto di partire.)
Camilla. No, Arlecchino, fermati...
Arlecchino. No gh’è altro Arlecchin. La canzon xe là, la musica xe fenia. Vado a Bergamo, e no se vederemo mai più. (parte)
Camilla. Oh povera me! sono disperata. Per causa vostra ho perduto il mio caro Arlecchino. (a tutti)
Celio. Se per causa nostra vi è avvenuto questo male, è giusto che noi ci rimediamo. Andiamo, signor Silvio, a procurar di trattenere Arlecchino.
Silvio. E giusto. All’onore di riverirvi. (ad Angelica, e parte)
Celio. Signora Clarice, scusatemi... sarò da voi. (Sono sempre più) incantato del di lei merito). (parte)
Florindo. C’entriamo noi in quest’imbroglio? (a Camilla)
Camilla. Tutti mi avete rovinata. Tutti d’accordo mi avete precipitata.
Florindo. Andiamo, amico; questo è un nuovo soggetto per un madrigale. (a Petronio, e parte salutando tutti)
Petronio. Non vorrei che toccasse a me l’incomodo di sentirlo. (saluta, e parte)
Clarice. Possibile, Camilla, che per causa nostra...
Camilla. Lasciatemi stare per carità.
Clarice. (La sorte non vuol cessar di perseguitarmi). (parte)
Angelica. Camilla, vi compatisco, e mi dispiace che per nostra cagione...
Camilla. Ma non mi tormentate d’avantaggio.
Angelica. Pazienza. Sarà di noi quel che il cielo destinerà, (parte)
SCENA XIII.
Pantalone e Camilla.
Camilla. Ah! per il troppo buon cuore mi sono precipitata
Pantalone. Camilla. (piano, con mestizia)
Camilla. Cosa volete, signore? (con isdegno)
Pantalone. Seu in collera?
Camilla. Sono disperata.
Pantalone. Quieteve, fia mia, quieteve. Voleu che vaga?
Camilla. Volesse il cielo, che foste andato.
Pantalone Pazenzia, anderò. (incamminandosi)
Camilla (Da una parte la pietà mi stimola, dall’altra l’amore mi sforza).
Pantalone. (Pussibile che no la conossa che Arlecchin xe un strambazzo, che noi merita de esser amà, e che no la perde gnente a lassarlo? Cussì la doverave dir, cussì la doverare pensar. Mi son un omo d’onor. No ho da far cattivi offizi contra nissun).
Camilla. (Se Arlecchino non torna, cosa sarà di me?)
Pantalone. (Eh, za la vedo, bisognerà pò andar).
Camilla. (Non sarà possibile certamente ch’io viva)
Pantalone. Camilla. (come sopra)
Camilla. Camilla è stanca, Camilla è fuori di sè, non cercate più di Camilla.
Pantalone. Donca?
Camilla. Donca, donca, non m’inquietate.
Pantalone. Anderò via.
Camilla. Che tormento!
Pantalone. Le mie povere putte...
Camilla. (E una cosa insoffribile).
Pantalone. Le anderà per el mondo...
Camilla. (Povere sfortunate).
Pantalone. A domandar la limosina.
Camilla. (Mi sento morire).
Pantalone. Vago via.
Camilla. Fermatevi. (Ma perchè mai ho io un cuore sì tenero e sì sensitivo?)
Pantalone. (Me par che la se vada un pochetto calmando).
Camilla. Fatemi un piacere, signor Pantalone. Lasciatemi un poco sola.
Pantalone. Volentiera. (si ritira per un poco)
Camilla. (Vo’ consigliarmi con me medesima).
Pantalone. Camilla. (come sopra)
Camilla. Ma questo poi, compatitemi...
Pantalone. Gnente, fia mia; una parola sola. No pregiudichè i vostri interessi, no tradì el vostro cuor, ma se podè, abbiè carità de mi. (parte pian piano, e quando è alla porta si volta) Sì che ti xe de bon cuor, sì che ti gh’averà compassion. (parte)
SCENA XIV.
Camilla sola.
Ho d’aver compassione per altri, e non l’ho d’aver per me stessa? Per far del bene ho da perdere l’amor mio, la mia pace, ho da perder tutto? Arlecchino mio caro, dove sei il mio caro Arlecchino? Vieni dalla tua povera Camilla, vieni da colei che ti ama, che ti adora, che non può vivere senza di te. Ah me infelice! non mi ascolta, sarà forse partito. Son fuor di me. Sono disperata; odio chi è causa della mia rovina. Odio Pantalone, odio le sue figliuole... Ma che colpa ne hanno quelle povere sfortunate? Oh dio! mi si spezza il cuore, ho il cuore lacerato da due passioni. Cielo, aiutami, aiutami, cielo, per carità. (parte)
Fine dell’Atto Secondo.