L'amore paterno/Atto I
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ATTO PRIMO.
SCENA PRIMA.
Arlecchino in abito da campagna, e Scapino.
Scapino. Oh oh, signor Arlecchino, ben tornato dalla campagna.
Arlecchino. Com’èla, Scapin? Cossa vol dir? Mi te credeva ancora in Italia. Per che rason et tornà a Parigi?
Scapino. Oh bella! il signor Stefanello non mi ha mandato a Venezia per accompagnare a Parigi il signor Pantalone di lui fratello?
Arlecchino. E ben? Stefanello è morto. Pantalon non ha più da vegnir a Parigi, e ti ti averessi fatto mejo a restar in Italia. (Costù no lo posso soffrir; so che una volta l’aveva delle pretension sora Camilla).
Scapino. Anzi sono venuto a Parigi col signor Pantalone, e con due sue figliuole.
Arlecchino. Pantalon è vegnù qua con do fiole? So fradelo è morto, e el vien qua con do fiole?
Scapino. A Lione solamente abbiamo saputo la morte del signor Stefanello. Il signor Pantalone ha pensato bene di proseguire il viaggio e di venire a Parigi, sperando di ereditare i beni di suo fratello; ma il povero galantuomo ha qui scoperto che per le leggi del Regno non può ereditar cosa alcuna, e si trova nelle maggiori angustie del mondo. In Venezia non è mai stato ricco; viveva, si può dire, dei soccorsi di suo fratello, e tutto spendeva per educare le sue figliuole, le quali, per dire la verità, sono riuscite due maraviglie, una bravissima nelle scienze, e l’altra eccellente nella musica. Credeva di far un gran regalo a suo fratello, conducendogli quelle due gioje, ma il fratello è morto, ed il pover’uomo non sa a qual partito appigliarsi.
Arlecchino. Niente. Cossa gh’alo paura? Non alo con lu do zoggie? A Parigi no manca i dilettanti de sta sorte de zoggie, el farà un bon negozio, el troverà da metterle in qualche bon gabinetto.
Scapino. Capisco quel che volete dire, ma il signor Pantalone è delicatissimo in materia d’onore; e le sue figliuole sono l’esempio della saviezza e della modestia.
Arlecchino. Ho inteso. Zoggie morte, diamanti senza spirito; co no i è brillanti, no i gh’ha credito, no i fa fortuna. Mi conseggierave el sior Pantalon a tornar a portar la so marcanzia in Italia. La virtù è bella e bona, ma la virtù in miseria l’è giusto come un diamante nel fango.
Scapino. Io credo che a quest’ora il signor Pantalone sarebbe partito, se Camilla a forza di buone grazie non lo trattenesse qui in casa sua.
Arlecchino. Come! sior Pantalon xe in sta casa?
Scapino. Sì certo. Oggi è un mese che siamo qui. Stupisco che non lo sappiate.
Arlecchino. No so gnente. Son sta quaranta zorni in campagna a far el vin, a far taggiar delle legne. Sangue de mi! e Camilla no me l’ha scritto?
Scapino. Che obbligo ha ella di farvi sapere tutti i fatti suoi?
Arlecchino. Sior sì, la gh’ha obbligo de farmelo saver, perchè l’ha da esser mia mujer, e tutto quel che la gh’ha a sto mondo l’ha da esser mio, e no vojo che la se fazza magnar el soo, e che la fazza magnar el mio; e sior Pantalon ha da andar via subito de sta casa colle so zoggie, che delle zoggie che magna no ghe ne so cossa far, e comando mi, e in sta casa son patron mi, e se Camilla no lo manderà via, lo manderò via mi.
Scapino. (Diavolo, mi dispiace bene sentire che Camilla sia impegnata con costui). Piano, piano, signor Arlecchino, non tanto strepito, non tanta superbia. Ricordatevi che Camilla, voi ed io siamo stati tutti tre servitori del signore Stefanello.
Arlecchino. Da mi a ti ghe xe sempre sta della differenza. Mi ho servio da mastro de casa, e ti da staffier.
Scapino. Sì, ecco la differenza. Voi siete ricco ed io sono povero, perchè voi avete rubato assai più di me.
Arlecchino. No xe vero niente, ti xe una mala lengua. Tutto quello che gh’ho, me l’ha dà el patron colle so proprie man.
Scapino. E verissimo. Il padrone vi ha sempre dato da spendere, ma voi non avete speso tutto quello che il padrone vi ha dato.
Arlecchino. Ho i mi conti approvadi, ho el mio libro saldà.
Scapino. Se quel libro potesse parlare, ogni pagina domanderebbe vendetta.
Arlecchino. Tasi là, che te rompo el muso.
Scapino. Provati, se hai coraggio.
SCENA II.
Camilla e detti.
Camilla. Che cos’è questo rumore? Oh Arlecchino, ben tornato dalla campagna.
Arlecchino. Giusto vu ve voleva.
Camilla. Ma che cosa avete, figliuoli, fra di voi, che vi ho sentito gridare?
Arlecchino. Colù l’è torna a Parigi per farme precipitar.
Scapino. Colui! Cos’è questo colui? Se non fosse qui questa giovane...
Arlecchino. Falo andar via de qua. Falo andar via, se no ti vol veder un precipizio.
Camilla. Caro Scapino, fatemi il piacere...
Arlecchino. (Caro Scapino? Ho paura... Ma no vôi dar da conosser la mia zelosia).
Camilla. Andate, vi dico, andate, non mi obbligate a dirvelo un’altra volta. (a Scapino)
Scapino. Ma sentite la mia ragione.
Camilla. Non voglio sentire altre ragioni, andate.
Arlecchino. Va via de qua, che sarà megio per ti.
Scapino. In quanto a voi, me ne rido. Partirò per il rispetto che ho per Camilla. Ella è la padrona di questa casa, e la civiltà vuole ch’io l’obbedisca. (Egli è ch’io ne sono innamorato, e mi lusingo ancora di guadagnarla).
Camilla. Via dunque, andate, che mi farete piacere.
Scapino. Signora sì, vado, non v’inquietate. (Chi mai avrebbe creduto, che una giovane come questa s’invaghisse a tal segno di un uomo Così villano, come è Arlecchino?) (parte)
SCENA III.
Camilla ed Arlecchino.
Camilla. E bene, il mio caro Arlecchino, si può sapere per qual ragione siete in collera con Scapino?
Arlecchino. Mi no son in collera con Scapin; ma son in collera con ti.
Camilla. Con me? Per qual ragione? Cosa vi ho fatto?
Arlecchino. Perchè ricever in casa tanta canaia, e darghe da magnar e da bever, e consumar el nostro miseramente?
Camilla. Io l’ho fatto per compassione. Il povero signor Pantalone si trova qui senza amici, senza danari; aveva io da lasciar perire lui e la sua famiglia?
Arlecchino. La compassion l’è bella e bona, ma per aiutar i altri non avemo da pregiudicar i nostri interessi.
Camilla. No, caro Arlecchino, per grazia del cielo abbiamo tanto di bene, da poter far del bene anche agli altri.
Arlecchino. Se avemo del ben, non è mai troppo, e no se sa quel che possa nasser; e bisogna far conto dei zorni grassi per paura dei zorni magri.
Camilla. Ma il bene che si fa, è sempre bene; e non bisogna mai diffidar della provvidenza, anzi dobbiamo esser certi che il cielo ricompensa le opere buone, e che sempre più saranno migliorati i nostri interessi.
Arlecchino. Orsù, mi no voggio sentir altre prediche. Quel che xe sta, xe sta. Intendo, voggio e comando che ti licenzi subito sior Pantalon.
Camilla. Ma dove andrà questo povero galantuomo?
Arlecchino. Che el vaga dove che el vol.
Camilla. E le sue povere figlie?
Arlecchino. No le xe nè nostre fìe, nè nostre sorele, e nu no gh’avemo obligo de pensarghe.
Camilla. Caro Arlecchino, se mi volete bene, ascoltatemi. Soffrite ch’io vi dica il mio sentimento, e poi farò tutto quello che voi volete. E vero che non sono del nostro sangue, ma sono però il nostro prossimo; hanno bisogno di noi, e se noi fossimo nel loro caso, avressimo piacere di trovar della carità, e bisogna fare ad altri quello che vorremmo che fosse fatto per noi. Oltre a ciò, considerate bene che tutto quello che abbiamo al mondo lo abbiamo avuto dal signor Stefanello, che era fratello del signor Pantalone e zio di queste povere figlie, e che trovandosi essi in miseria, siamo obbligati a soccorrerli per gratitudine, per onestà e per giustizia.
Arlecchino. Basta. Per la bona memoria del sior Stefanello, no digo niente, te perdono; quel che xe sta, xe sta. Ti li ha tenudi in casa un mese senza dirmelo, senza scriverme niente, pazenzia. Ma quanto tempo ha da durar sta faccenda? Quando favorisseli d’andar via?
Camilla. Spererei che presto dovessero gli affari del signor Pantalone cangiar aspetto. Ci sono qui a Parigi degli italiani impegnatissimi per far del bene al signor Pantalone. Vengono qui sovente a far un poco di conversazione. Sono incantati della virtù e del merito delle figliuole.
Arlecchino. E perchè no ghe troveli casa? Perchè no ghe dai da magnar? No xeli anca lori el so prossimo? Perchè mo avemio nu da esser più prossimi dei altri prossimi?
Camilla. Questi italiani che vengono qui, sono giovani, non hanno donne. Il signor Pantalone è un uomo onorato, le sue figliuole sono bene accostumate, e finchè sono nella mia casa, fanno una buona figura, e nessuno può mormorare.
Arlecchino. Alle curte, quanto tempo resterali ancora in sta casa?
Camilla. Non saprei. Dite voi, caro Arlecchino, quanto vi contentate che restino?
Arlecchino. Oggio mi da stabilir el tempo?
Camilla. Sì, stabilitelo voi.
Arlecchino. Vintiquattr’ore, e gnanca un minuto de più.
Camilla. Così poco?
Arlecchino. Tant’è. Vintiquattr’ore.
Camilla. Ma non è possibile...
Arlecchino. Pussibile o no pussibile, cussì l’intendo, e cussì ha da esser. Tutto xe preparà per le nostre nozze. Avanti che se sposemo, voi la casa libera e desbarazzada. Pénseghe ti, altrimenti te digo e te protesto, che no vôi altro da ti, che strazzerò el contratto, che venderò tutto el mio, che andarò a Bergamo a maridarme, e che te lasserò qua col to prossimo, e colla to compassion.
Camilla. No, ascolta, caro Arlecchino...
Arlecchino. No gh’è altro da dir, non ascolto altre rason. Vintiquattro ore de tempo. O Pantalon, o Arlecchin, o el prossimo, o el marido, o la compassion, o l’amor. Addio, a revéderse, ti m’ha capido. (parte)
SCENA IV.
Camilla, poi Pantalone.
Camilla. Povera me! io mi trovo in un imbarazzo grandissimo. Amo Arlecchino, e non lo vorrei disgustare. Se perdo Arlecchino, perdo quanto ho di più caro, quanto ho di più piacevole al mondo. Orsù, il signor Pantalone è assai ragionevole. Ho fatto per lui finora quanto ho potuto. Compatirà ancor egli le mie circostanze... ma eccolo per l’appunto.
Pantalone. Camilla. (dalla porta)
Camilla. Signore.
Pantalone. Seu sola?
Camilla. Sì, signore, son sola.
Pantalone, Fia mia, vegnì qua. Lassè che ve parla col cuor averto, con schiettezza e sincerità. Vu fin adesso m’ave fatto del ben. Xe un mese che son in casa vostra, e nelle mie disgrazie e nelle mie miserie vu se stada la mia benefattrice, el mio conforto, la mia unica consolazion. No xe giusto però, che per causa mia abbiè da soffrir dei discapiti e dei dispiaceri. Scapin m'ha dito tanto che basta. Arlecchin ve rimprovera per causa mia, ghe volè ben, l’ha da esser vostro mario, e mi, che son un omo d’onor, non ho da romper la vostra pase e la vostra union. El cielo ve renda merito del ben che m’ave fatto. Ve ringrazio de cuor, e avanti sera ve leverò l’incomodo, e mi e le mie povere fie ve lasseremo in te la vostra tranquillità.
Camilla. (Fortuna, ti ringrazio: è disposto da sè, senza ch’io abbia la pena di persuaderlo). Avete dunque risoluto di voler partire?
Pantalone. Sì, fia mia, ho risolto. Son persuaso, so el mio dover, e non occorre pensarghe suso.
Camilla. Mi dispiace infinitamente di privarmi della vostra compagnia, e di quella delle vostre care figliuole. Ma vedete bene, signore...
Pantalone. No parlemo altro. So tutto, ve compatisso, e me tocca a mi a remediarghe.
Camilla. Se è lecito, signore, dove pensate voi di voler andare?
Pantalone. No so gnanca mi.
Camilla. Come! non lo sapete? Dite di voler partire, e non sapete ancor dove andare?
Pantalone. No so gnente, anderò dove che la sorte me porterà.
Camilla. E le vostre figlie?
Pantalone. Le sarà a parte del mio destin. Miserabili, ma onorate.
Camilla. Se andate in un albergo, vi costerà molto.
Pantalone. Nè mi sarave in caso de mantegnirme.
Camilla. Volete andare in casa di qualche amico?
Pantalone. Un omo d’onor no conduse in casa de nissun le so fiole.
Camilla. Ma cosa dunque destinate di fare?
Pantalone. Andar via de Parigi.
Camilla. Dove?
Pantalone. No so gnanca mi.
Camilla. Avete voi danari per far il viaggio?
Pantalone. No, fia mia. Ho scritto a Venezia, perchè i venda quel poco che me xe resta. Ma ghe vorrà dei mesi, e adesso savè in che stato che son.
Camilla. Oh cieli! E come dite voi di voler partire?
Pantalone. La providenza no abbandona nissun. Venderò quei pochi mobili che me resta, venderò i abiti delle mie povere fie, venderò i libri della mia cara Clarice. Venderò la musica della mia cara Angelica. Oh dio! che pena che le proverà, poverette, a privarse delle cosse più care che le gh’ha a sto mondo. Ma non importa, che se venda tutto, che se sacrifica tutto, ma che se salva el decoro, l’onestà, la reputazion.
Camilla. (Mi move sempre più a compassione. Non ho cuore d’abbandonarlo).
Pantalone. Camilla, a revéderse, el cielo ve benedissa.
Camilla. No, signor Pantalone, fermatevi. Non voglio assolutamente che voi partiate da questa casa.
Pantalone. No, fia mia, ve ringrazio. Xe giusto che vada, e bisogna andar.
Camilla. No certo, voi non partirete di casa mia, ad ogni costo.
Pantalone. Nè mi soffrirò mai che Arlecchin se desgusta, e che el ve abbandona per causa mia.
Camilla. Lasciate il pensiero a me. Arlecchino veramente ha qualche premura di sposarmi, e non vorrebbe in casa nessuno, ma io gli farò meglio comprendere il vostro stato, il pericolo vostro e delle vostre figliuole, e spero che ancor egli si persuaderà. State qui, state allegro, non vi prendete pena. Vado a consolare le vostre care figliuole, a porre in calma il loro spirito, il loro cuore. Povero signor Pantalone! povera sventurata famiglia! Non temete di nulla. Il cielo vi provvederà. (parte)
SCENA V.
Pantalone, por Clarice.
Pantalone. Poverazza! La xe de bon cuor, no gh’ho gnanca podesto responder gnente. Le lagreme m’ha impedio de parlar, ma cossa oggio da far? Oggio da restar? Oggio da andar? Se vago via, cossa sarà de mi? Se resto qua, cossa sarà de Camilla? In tutte le maniere son confuso, son afflitto, son desperà.
Clarice. Oh via, signor padre, Camilla ci ha consolato. Rasserenatevi, consolatevi ancora voi.
Pantalone. Cara fia, cara la mia Clarice, come mai voleu che me consola, se me vedo proprio perseguità dal destin?
Clarice. Caro signor padre, il destino non vi farà mai tanto male, quanto voi ve ne fate da voi medesimo. Il maggior bene di questa vita è la quiete dell’animo, la rassegnazione, l’indifferenza. Ridetevi della fortuna. Ella ci può toglier tutto fuori della virtù, e non perdiamo niente, se ci resta il lume della ragione.
Pantalone. Oh cara! oh benedetta! oh che bocca d’oro! Ogni parola xe una perla, ogni sillaba un diamante, ogni discorso una manna, un zucchero che consola el cuor. Me conseggieu de restar?
Clarice. Sì signore, senza veruna difficoltà. La ragione c’insegna a soffrire il male, ma non mai a ricusare il bene. Si devono tollerar le disgrazie, ma non abbiamo da procurarcele da noi stessi. La pietà che ha di noi Camilla, è una provvidenza; e noi saremmo ingrati alla provvidenza, abusandoci de’ suoi benefici.
Pantalone. E se Camilla per causa nostra perdesse la sua fortuna?
Clarice. Ella non può mai perdere la sua fortuna per far del bene. Se Arlecchino è nemico delle opere buone, non le può essere che un cattivo marito; e la perdita di un cattivo marito è il maggior guadagno che possa fare una donna.
Pantalone. Mo che massime! mo che pensar! che talento! che talento da Seneca, da Demostene, da Ciceroni Ma a proposito de mario, dime la verità, Clarice, se el cielo te mandasse una bona fortuna, averessistu piaser de maridarte?
Clarice. Signore, tornerò a dirvi quel ch’ho detto poc’anzi. Le fortune non si ricusano.
Pantalone. Possibile che qualche signor de merito no s’innamora della to virtù?
Clarice. Caro signor padre, voi credete ch’io sia virtuosa, ed ho timore che v’inganniate. L’amore ch’io ho per le lettere, non è virtù che basti per dar credito ad una donna. Sono necessarie le virtù dell’animo: di queste sono meschinamente fornita, e non mi lusingo di meritare fortuna.
Pantalone. Cossa distu? Ti gh’ha tutto, ti meriti tutto, e la to modestia xe la corona dei to meriti e delle to virtù.
Clarice. In verità voi mi fate arrossire.
Pantalone. Quei pochi italiani che qualche volta ne favorisse, i xe incantai, no i se sazia mai de lodarte.
Clarice. Sono pieni di bontà e di politezza.
Pantalone. Cossa distu de lori? Cossa te par? Sali gnente? Gh’ali del merito? Ti ti li cognosserà più de mi.
Clarice. In un mese che ho l’onor di trattarli, poco si può rilevare; pure, se ho da dirvi il mio sentimento, vi dirò come penso di loro, li signor Celio è manieroso, è gentile, ma mi pare un poco troppo vivace. Il signor Silvio ha uno spirito più regolato, ma è troppo serioso. Il signor Florindo sa qualche cosa, ma ha troppa presunzione di se stesso, ed il signor Petronio non sa niente, e si vergogna di non sapere, e loda e biasima quel che sente a biasimare e a lodare.
Pantalone. Bravissima. No se pol depenzer meggio i caratteri de ste quattro persone. Va là, che ti gh’ha una gran testa; el cielo in te le mie disgrazie m’ha dà la contentezza de do fie che xe do oracoli, do maraveggie. Ti bravissima in te le scienze, e Angelica eccellente in tel canto.
Clarice. Non tanto, signor padre, non tanto. Non fate che l’amor vi trasporti. Non giudicate di noi per passione.
Pantalone. So quel che digo. Vedo, capisso, intendo, e no son de quei pari, che se lassa orbar dall’amor. Di’, Clarice, dime, fia mia, giersera, stamattina, astu fatto gnente, astu composto gnente?
Clarice. Niente, signore, posso dir quasi niente.
Pantalone. Co son vegnù in te la to camera, ho visto che ti scrivevi.
Clarice. Per dir la verità, faceva un piccolo sonettino.
Pantalone. Un sonetto? Brava. Via, famelo sentir sto sonetto.
Clarice. Ma non è ancora finito. Mi mancano le due terzine.
Pantalone. N’importa, fame sentir qualcossa.
Clarice. Lo farò per obbedirvi. (tira fuori la carta)
Pantalone. Mo che allegrezza! mo che consolazion, aver una fia de sta sorte! Co te sento a parlar, me desmentego tutte le mie disgrazie. Co sento qualcuna delle to composizion, me par de esser un omo ricco, un omo felice, no me scambierave con un re de corona.
SCENA VI.
Arlecchino e detti.
Arlecchino. Sior Pantalon, la reverisso.
Pantalone. (Oimei! Costù me vien a amareggiar la consolazion). Ve reverisso, sior Arlecchin.
Arlecchino. Alo fatto bon viazo?
Pantalone. Cussì e cussì. (Aspettè, no andè via). (a Clarice)
Arlecchino. Èla presto de partenza?
Pantalone. No so gnanca mi. Spero quanto prima.
Arlecchino. La vada a bon viazo. La staga ben, la se conserva, e la me scriva, che averò gusto de saver che la staga ben.
Pantalone. Sì che donca co ste cerimonie me disè che vaga via.1
Arlecchino. No disel che el partirà quanto prima? Mi veramente aveva dito a Camilla, che aveva piaser che sior Pantalon favorisse de restar qua altre vintiquattr’ore, ma col va via quanto prima, el ne vol privar più presto delle so grazie.
Pantalone. No, caro amigo, no v’indubitè gnente, no son ingrato alle vostre finezze. Resterò qua vintiquattr’ore, vintiquattro mesi, fin che volè.
Arlecchino. Troppe grazie, sior Pantalon, troppe grazie. Mi la conseggio de partir subito, avanti che vegna la cattiva stagion.
Pantalone. (Debotto me vien voggia de chiapparlo per el collo, e de strangolarlo). (a Clarice)
Clarice. (No, signor padre, non v’inquietate. Egli finalmente non è il padrone di questa casa).
Pantalone. (Tanto più el me fa rabbia. Se el fusse el patron, no gh’averave ardir de parlar).
Arlecchino. Èla questa una delle so fiole? (a Pantalone)
Pantalone. Sior sì, la xe mia fia.
Arlecchino. La virtuosa de musica?
Pantalone. Sior no, la virtuosa de lettere.
Arlecchino. Me consolo infinitamente della so bella virtù. La diga, signora, intendela ben el francese, sala parlar francese.
Clarice. No, per mia sfortuna l’intendo poco, e lo parlo meno.
Arlecchino. Cossa fala qua donca? Mi la conseggio de andar via, de tornar in Italia. La poi esser brava quanto che la vol, se no la se sa far intender, no la farà gnente.
Pantalone. Ghe xe dei italiani, e ghe xe dei signori francesi, che intende benissimo l’italian.
Arlecchino. No la farà gnente, no serve gnente: el gusto della nazion xe una cossa particolar, no la farà gnente.
Clarice. Voi dite benissimo. Ogni nazione ha il suo gusto particolare, e quello de’ francesi è il più difficile, è il più delicato di tutti. Io non sono qui per farmi merito, nè per far fortuna; mi basta di essere compatita.
Arlecchino. No i la compatirà.
Clarice. Non mi compatiranno? E perchè?
Arlecchino. Perchè i dirà: qua semo in Franza, e se no savè el gusto de Franza, dovevi restar in Italia.
Clarice. Voi non mi metterete per questo in disperazione. Non sono qui venuta di mia volontà. Mi ha condotto mio padre, ma ci son venuta col maggior piacere del mondo, per vedere e godere la più bella metropoli dell’universo; è poco ch’io sono qui, ma ho ricevuto finora tante finezze, che sono contentissima d’esser venuta. La cortesia de’ signori francesi è nota e commendata per tutto. Trovo io medesima più di quello ancora, che mi è stato promesso. E se il mio scarso talento non mi può mettere in istato di acquistar lode, la buona volontà non può mai essere biasimata, e son certa, certissima, di essere almen compatita. (parte)
SCENA VII.
Pantalone e Arlecchino.
Pantalone. Tolè, sior, respondèghe se gh’avè coraggio.
Arlecchino. E cussì, tornando sul nostro proposito, quando èla de partenza, sior Pantalon?
Pantalone. Ma vu sè qua sul medesimo ton.
Arlecchino. L’è che vorria saverlo, per esser pronto a servirlo, se el gh’ha bisogno de qualche cossa.
Pantalone. Ve ringrazio, caro; co averò bisogno, ve pregherò.
Arlecchino. A proposito, ogni do zorni parte la diligenza; vorla che vada a veder se ghe xe tre boni loghi per ela?
Pantalone. (Mo el xe un gran tormento costù!)
Arlecchino. Se no la vol andar colla diligenza, l'anderà col cocchio.
Pantalone. (Col diavolo che te porta).
Arlecchino. Sì, sì, col cocchio se va più comodi, e se spende manco. Vado subito a servirla. Vado a fermar i posti nel cocchio.
Pantalone. Mo no ve digo, no v’incomodè.
Arlecchino. Sì assolutamente. Voggio aver l’onor de servirla. Vado e torno subito per servirirla. (parte)
SCENA VIII.
Pantalone, poi Angelica.
Pantalone. No gh’è remedio. Sta bestia no me vol, e se Camilla ghe vol ben, ho paura che la sarà obligada de licenziarne. Ma se anca dovesse restar, come mai xe possibile de poder soffrir l’impertinenza de sto omo indiscreto, de sto villan? Vardè, sul momento che giera per consolarme con un sonetto della mia cara fia, el vien a tormentarme, e el me priva dell’unico mio piacer. No gh’è remedio, no se pol resister, bisogna andar. Pazenzia, son nato desfortunà. Ho da penar sempre, ho sempre da sospirar.
Angelica. Signor padre.
Pantalone. Fia mia.
Angelica. Vengo a dirvi una cosa che vi farà piacere.
Pantalone. Sì, consoleme, che ghe n’ho bisogno.
Angelica. Ho terminato in questo punto di porre in musica la cantata.
Pantalone. La cantata che ha composto Clarice?
Angelica. Sì signore, ho messo in musica le parole di mia sorella.
Pantalone. Oh brava! quando la sentiremo?
Angelica. Quando volete.
Pantalone. Aspettemo che ghe sia della zente. Verso mezzozorno vegnirà i nostri amici. Ti canterà, ti te farà onor. Me imbalsemerò mi. Ti imbalsemerà tutti quanti.
Angelica. Ma io, signore, l’ho fatta per mio studio, per mio divertimento, e non ho merito, nè abilità per piacere.
Pantalone. Come! Cossa distu? Ti xe un flauto, ti xe un canarin. Ti gh’ha un’abilità spaventosa.
Angelica. Troppo, troppo, signor padre. Pensate che l’amor proprio spesse volte fa travedere.
Pantalone. So quel che digo; me n’intendo al par de chi se sia. No so gnente de musica, ma gh’ho una recchia felice, che non falla mai. Co ho sentio un’aria una volta, son capace mi de dar el ton meggio de una spinetta, e se i falla una nota2, me n’incorzo de longo. Digo, e sostegno, che ti xe una cantante che no gh’ha l’ugual.
Angelica. Io non so di esser brava cantante, come voi dite, ma quando anche lo fossi, per piacere non basta. Bisogna aver la fortuna d’incontrar il genio delle persone che ascoltano.
Pantalone. In Franza i conosse el merito; no ti poi fallar.
Angelica. Lasciamo il merito da una parte, qui il gusto della musica è differente.
Pantalone. Cossa te par della musica de sto paese?
Angelica. In tutti i paesi del mondo, perchè piaccia una cosa, bisogna aver le orecchie accostumate a sentirla. Il bello ed il buono non si conosce che per rapporto ai confronti; se si confronta senza passione, si trova il buono per tutto: se l’animo è prevenuto in contrario, vi è da annoiarsi per ogni parte.
Pantalone. Ti parli da quella gran virtuosa che ti xe. Xela longa la cantata che ti ha composto?
Angelica. E brevissima. In questo ho seguitato il gusto francese. Qui amano le cose brevi, ed hanno molta ragione. Da noi le nostre musiche sono eterne, e le tante repliche fanno dispiacere le più belle arie del mondo.
Pantalone. Ma ti, fia mia, se ti replichi un’aria diese volte, ti piasi sempre, no ti stufi mai. Ti gh’ha un portamento de ose che tocca el cuor; ti gh’ha certe volatine, certi trilletti, che incanta. Cossa ti me piasi con quei to passetti! Aaa, aaa, aaa. Cara la mia zoggia, canteme qualcossetta, consoleme un pochettin. Gh’ho dei travaggi, gh’ho delle afflizion, ma co te sento a cantar me passa tutto, me bagola el cuor in sen.
Angelica. E che cosa vorreste voi ch’io cantassi?
Pantalone. Canteme l’aria del russignol.
Angelica. Senza la spinetta non si può cantare.
Pantalone. Te compagnerò mi.
Angelica. E come?
Pantalone. Te farò el basso, te batterò la battua.
Angelica. Non mi ricordo nemmeno il tuono.
Pantalone. Oh, el ton te lo darò mi. La la ra la la.
Angelica. Aspettate, aspettate, il tuono l’ho ritrovato.
Pantalone. Via, da brava. Cantela pulito.
SCENA IX.
Arlecchino e dettì.
Arlecchino. Oh, el cocchio partirà domattina...
Pantalone. El diavolo che te porta. (No lo posso soffrir), (parte)
Arlecchino. La favorissa, signora, aia fatto i bauli? Ala messo via le so bagatelle?
Angelica. Non vi abbado, non vi rispondo. Camilla è la padrona di questa casa, e voi non vi riconosco per niente, (parte)
SCENA X.
Arlecchino solo.
Fine dell’Atto Primo.