L'amor costante/Atto IV
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ATTO IV
SCENA I
Sguazza parasito solo.
Ah! ah! ah! ah! Chi fu al mondo mai più felice di me? chi ebbe mai più bel tempo dello Sguazza? Che papa? che imperadore? che stati? che amori? che robba? O beata gola, o dignissimo palato, o santissimo appetito, quanto obligo vi tengo! che non mi mancate mai nei bisogni. Vi vo’ contar, gentiluomini, in tre parole, com’è andata la cosa. Io me n’andai, poco fa, com’io vi dissi, a casa d’un procurator buon compagno; buon compagno, vi dico: e trovai a punto che s’era posto a tavola e aveva dinanzi una lepretta, stagionata, fratellino, come Dio sa fare. Mi dimandò se io aveva desinato; e io, che avevo dato l’occhietto alla robba che v’era, rispondo subito che no. Ah! ah! ah! Che bisogna ch’io vi dica tante cose? Io mi posi alla santa tavola e, perché lui si sentiva lo stomacuccio, la lepretta toccò tutta a me; e me la mangiai, fratello, con un piacere, con un diletto che mi ci struggevo su. Arei voluto mangiare ancora un pollastro che v’era; ma questo corpicciuolo non poteva più. Venga ’1 cancaro alla Natura che ha ordinato agli uomini si picciol corparello! Basta che ci ha fatto divizia di gambe e di braccia. Che diavolo abbiamo noi a fare di si longhi stincacci e di queste pertiche spalancate? Quanto era meglio farcene assai manco e ridurre il resto a corpo, che importa un poco più! Ma, in fine, gli è fatto cosi e non sarebbe mai altrimenti. Pazienzia! Vaglia per parecchi altri parasiti, che sono in questa terra, che van sempre col corpo vizzo e leggero e non trovan cane né gatta che li musi. E di questo n’è cagione che i giovani del di d’oggi non si dilettano piú né di parasito né d’altra virtú nessuna. Piú presto si pigliano piacere di gittar sassi, dar qualche bastonata e ferita, bisognando. Tal sia di loro. Io, per me, non mi lamento. Cosí stesse sempre! Ma mi ricordo che ho d’andare a trovar Lorenzino per menarlo a messer Giannino. Ma ecco messer Giannino con Vergilio e con Marchetto. Mi par molto turbato. Vo’ sentir un poco, qui da canto, di quel che ragionano.
SCENA II
Messer Giannino, Marchetto, Sguazza, Vergilio.
Messer Giannino. Ed hallo visto Guglielmo co’ suoi occhi?
Marchetto. Coi suoi, credo; co’ miei non l’ha visto giá.
Messer Giannino. Ah traditor Lorenzino! A questo modo?
Marchetto. Lamentatevi di lei, che lui ha fatto il debito suo. Tanto arei fatt’io.
Sguazza. Che cosa può esser questa? Non l’intendo.
Messer Giannino. S’io non me ne vendico, s’io non me ne vendico, che io non possa mai riveder mio padre né mia sorella. Ahi Lucrezia crudele! Dove l’hai tu fondata a cambiarmi per questo furfante? Eh! Vergilio, fratello, mi ti raccomando, ch’io mi sento morire.
Vergilio. Padrone, fate buon animo. Se questa poltrona ha fatto questa vigliaccaria, voletela voi ancora amare? voletevi piú strugger per lei? non volete voi convertire in sdegno tutto quello amore che gli avete portato?
Messer Giannino. A dirti il vero, Vergilio, s’io credesse che questo fusse certo, mi accenderei di tanto sdegno che io non capitarci mai piú dove ella fusse. Ma so certo che gli è impossibile che Lucrezia abbia fatto questo errore.
Marchetto. Come non l’ha fatto? Io so che l’ha fatto e che Guglielmo gli ha legati e rinchiusi in cantina l’uno e l’altro.
Messer Giannino. Tanto manco lo credo.
Sguazza. Io non mi posso imaginare che cosa questa sia. Voglio udir piú oltre.
Vergilio. A che effetto, dunque, volete che Guglielmo avesse fatte queste demostrazioni?
Messer Giannino. Perch’io dubito che questo vecchiaccio non abbi sempre avuto in animo di godersi Lucrezia lui e piú volte si sia messo a pregamela e non gli sia riuscito e che, all’ultimo, sdegnato, gli abbia trovato questa trappola addosso per sfogare la sua rabbia.
Vergilio. Oh! Che magnanima vendetta sarebbe questa, ch? A ponto! Non lo crederei mai.
Messer Giannino. I vecchi, Vergilio, non sanno far le cose piú generosamente perché gli atti magnanimi son nimici di quella etá.
Marchetto. Io dico che gli è cosí come v’ho detto e che, stanotte, li fará amazzare.
Messer Giannino. Amazzare, ch? Questo non fará lui. Ahi vecchio gaglioffo, rimbambito! Or son chiaro che la cosa non può star altrimenti che com’io dico. Su, Vergilio! Vattene in casa e mette in ordine le nostre armi: ch’io insegnerò bene a questo moccicone ciò che gli è dar calunnia a torto alle povere giovani.
Sguazza. Vo’ saper che cosa è questa. Che ci è, messer Giannino? Voi séte molto turbato.
Vergilio. Messer Giannino, non fate. Mettereste a romor questa terra. Vedete di saper prima la cosa meglio.
Messer Giannino. Io so che non può star altrimenti: che, se fusse vero che Lucrezia avesse errato, la mandarebbe via e non cercarebbe d’amazzarla; che non è però sua figlia. Amazzarla, ch? Per Dio, non fará.
Sguazza. Dch! Ditemi, di grazia, che cosa gli è, che mi vo’ trovare ancor io a quel che s’ha da fare.
Messer Giannino. Questo gottoso, questo vecchio mal vissuto di Guglielmo pensa di voler far morire Lucrezia innocentemente, con una gaglioffaria ch’egli ha trovata che la conoscerebbeno i ciechi.
Sguazza. Ahi furfante! Mi vo’ trovar ancor io alla guerra con esso voi; che i buoni amici, come io, hanno da essere amici d’ogni tempo.
Vergilio. Parrebbevi, padrone, che si dovesse far intender questa cosa, in Sapienzia, a messer Iannes todesco e a messer Luigi spagnuolo? E non ve ne domando perch’io non conosca che noi siamo per bastar di soverchio; ma, considerando io la strettissima amicizia che tenete insieme con essi, e quante volte v’avete promesso, occorrendo, far saper l’uno all’altro i casi vostri, dubito che, quando sapranno questa vostra quistione, si sdegnaranno di non essere stati chiamati e pigliarannolo per segno che aviate poca confidenzia nella amicizia loro.
Messer Giannino. Non parli male. Però sará buono che tu vada lá con prestezza a farglielo intendere. E metterá’li in casa da la porta di drieto.
Marchetto. Guardati, padrone!
Vergilio. Che arme dico che portino?
Messer Giannino. Non piglino arme in asta, che sarebbe male che fusser visti per la terra con esse; ma venghino con le loro spade ordinarie e coi brocchieri sotto le cappe, che non li sien visti.
Vergilio. Adesso adesso saremo in casa.
Messer Giannino. Marchetto, vatti con Dio. E di quest’animo, che tu vedi che noi aviamo, o dirglielo o non dirglielo, a quella bestia di tuo padrone, mi curo poco io.
Marchetto. Io non gli dirò altro. A me basta che, se voi ramazzate, me ne verrò poi a star con esso voi.
Messer Giannino. È stato buonissimo che Marchetto sappi el tutto perché arei caro che lo referisse a Guglielmo; che sarebbe agevol cosa che, per paura, liberasse Lucrezia senza cavar arme. Entriamo.
Sguazza. Entriamo.
SCENA III
Marchetto solo.
Or che farai, Marchetto? Questo è un ponto da pensarlo molto bene. S’io racconto a Guglielmo l’insidie che se gli preparano adosso, si vorrá metter in ponto per combattere, tutto fidatosi sopra di me. Usciremo in campo. Egli è vecchio e, per conseguenzia, vile. Piantarammi ed io rimarrò solo nella pesta. Sarocci ammazzato e sarammi poi detto: — Ben ti sta; — e sapramene male. Dall’altra parte, s’io mi sto queto, messer Giannino con la masnada se ne verrá in casa e, senza fatica alcuna, ammazzare Guglielmo come una pera cotta; liberará coloro; e cosí io non averò questo contento di veder morir questo ghiotton di Lorenzino. In fine, io mi risolvo che gli è meglio dirgli el tutto, acciò che, con piú prestezza, levi la vita a quei prigioni. Di poi pigliarò un canto in pagamento: e vada in chiasso tutta la casa, ch’io ci penso poco. Che ne dite voi? Mi par veder che voi ve ne starete a detta. Or ecco Guglielmo. Dir gliel voglio; ma vo’ prima sentir un po’ quel che dice.
SCENA IV
Guglielmo, Marchetto.
Guglielmo. Oggi saranno esempio questi ribaldi a tutt’i servidori che non son fedeli ai padroni e a le giovine donne che con si poca saviezza governano i casi loro. E, per miglior mia ventura, trovai nella speziaria maestro Guicciardo. Conta’gli il caso e, benché se ne facesse un po’ pregare, pur alla fine m’ha servito benissimo e hammi ordinato in modo che, in poche ore, so che tiraran le calze.
Marchetto. Dio vi salvi, Guglielmo. Mi dolgo de’ casi vostri, che ho inteso il tutto da Lucia.
Guglielmo. Dove sei stato, oggi, che tanto sei tardato a tornare?
Marchetto. Son tardato perché importava a voi ch ’io tardasse.
Guglielmo. Oh! Come?
Marchetto. Vi dirò. Quando Lucia mi parlò e che mi scoperse il caso successo in casa vostra, volse la disgrazia che messer Giannino fusse poco discosto e che sentisse ogni cosa. Come Lucia fu partita, egli mi si fé’innanzi e cominciò a ragionar meco di questa cosa. E io, che viddi ch’egli aveva sentito il tutto, feci della necessitá cortesia e confessa’ glielo.
Guglielmo. Oh Dio! quanto mi duole che si sia scoperta la cosa! E intese egli che io avesse animo d’ammazzare e’ prigioni?
Marchetto. Messer si. E subito cominciò, con tante bravane, con tanti squartamenti, a minacciare che voleva venire a liberare e’ prigioni, ammazzar voi e metter sottosopra tutta la casa.
Guglielmo. Eimè! Che mi dici? Me pensa di voler ammazzare, ch? Ghiotto, tristo, ribaldo! Dond’ha tanto ardire, el traditore? Non è stato doi giorni in questa terra, e ha tanto fumo e tanta superbia? E tu che gli rispondesti?
Marchetto. Pensai ch’el risponderli a coppe sarebbe giovato poco ma che molto piú util fusse vedere, con destrezza, di scalzarlo dell’ordine con che ei volesse venire a far questo effetto. E cosi, bellamente, seppi el tutto.
Guglielmo. E come t’ha detto di voler fare?
Marchetto. Vuoivi venir a trovar armato di tutto ponto; e ara con esso sé un suo servidore e due scolari e lo Sguazza: benché de lo Sguazza se ne può far poco conto, che gli daremo un migliaccio nella bocca e faremlo star queto.
Guglielmo. Eh Dio! Marchetto, che ti par dunque da fare?
Marchetto. Mi par che, la prima cosa, si debbi dare spaccio a quei prigioni. Volete voi ch’io faccia io quest’officio adesso adesso?
Guglielmo. Si. Ma pensiam prima un poco come ci aviam da governare de la guerra.
Marchetto. Di questo non vi so dire. Mi penso bene che, quando messer Giannino saprá che Lucrezia sia morta e non ci sia piú riparo, che non pigliará piú fatica di venire a riscattarla; perché vo pensando che, morta, non n’è per far niente.
Guglielmo. È buona ragione. Ma se pur lo sdegno cel conducesse?
Marchetto. Per Dio, ch’io non so che mi vi dire. Non mi ci son mai trovato a queste cose. P acchiudetevi in camera.
Che vorrá far poi?
Guglielmo. Questa sarebbe troppa vigliaccaria. Vo piú presto, morir mille volte; che, in ogni modo, che ci ho piú da fare in questo mondo?
Marchetto. Eccoci acciviti, per Dio! che viene in qua Lattanzio Corbini vostro compare che tanto mostra di amarvi e tante proferte vi fa ogni giorno da poi che voi gli campaste la vita appresso del commissario passato. A questa volta, ve ne potreste servire; che sapete ch’egli ha parecchi fratelli uomini fatti e valenti.
Guglielmo. Dici el vero, a fé. Vo’ che noi glie ne parliamo un poco.
SCENA V
Lattanzio, Guglielmo, Marchetto.
Lattanzio. Io vi so dir che queste donne hanno el diavol fra le gambe. Viddi oggi uscir di casa una donna, come l’ebbe desinato, per andar a far non so che merenda a un orto. Ma non sapevo a quale. Anda’gli drieto, uno pezzo, alle seconde. Com’io son nella via di San Martino, subito mi spari dinanzi. — Dove diavol è volata costei? — dico da me. Pensai che fussi uscita alla porta a San Piero. Andai fuor piú d’un miglio. Ah! A punto! Non trovai mai uomo che me ne sapesse dar nuove: tanto ch’io mi son restato zugo zugo; e la merenda all’orto si fará senza me.
Guglielmo. Bene stia el mio compare.
Lattanzio. Oh compare! Perdonatemi; non vi vedevo. Che ci è di nuovo?
Guglielmo. In gran travagli mi trovo al presente.
Lattanzio. Ditemegli, di grazia. E, se sará cosa che io possa giovarvi a niente, voi vedrete se le proferte che sempre +v’ho fatte saran di cuore o si o no e s’io mostrarò di riconoscer l’obligo ch’io ho di spender questa vita ch’io ho da voi.
Marchetto. Giovar li potrete assaissimo a mio padrone, messer Lattanzio.
Lattanzio. Voi avete da saper, compare, che io e i miei fratelli non abbiamo altro padre che voi e ci terremo sempre per grazia aver occasione di mostrarvelo con effetti. Però ditemi, vi prego: che cosa è questa che vi dá travaglio?
Guglielmo. Ve lo dirò in due parole. Messer Giannino con parecchi compagni voglion venire ad amazzarmi in casa mia senza cagion nissuna.
Lattanzio. Oimè! Che mi dite? Che lo muove a far questo?
Guglielmo. Mi vo’ confidar con voi del tutto. S’è scoperto oggi, in casa mia, come quest’empia di Lucrezia e Lorenzino s’erano accordati insieme d’amazzarmi stanotte e andarsi con Dio. E holli racchiusi e legati con ferma deliberazione, a dirvi el vero, di farli morire come scelerati che sono. Or questo sapendo, per mala sorte, messer Giannino vuol venire a riscatar la giovane per forza e metter sottosopra tutta questa casa.
Lattanzio. Gran cosa mi dite! Mai non arei imaginato questo, di Lucrezia. Che ardire è questo di costoro? saremmo noi a Baccano? Or pensatevi, compare, che questa impresa de la difensione la voglio sopra di me perché séte vecchio e potreste far poco. Io ho tre fratelli, come sapete, che vi son figli nell’affezione, coi quali sarò in casa vostra. E vo’ che lassiate poi il pensiero a noi d’ogni cosa.
Guglielmo. Da un canto, compar mio, mi stregne la necessitá; e, dall’altro, non vorrei mettervi in questo pericolo, che mi par gravarvi troppo, pure.
Lattanzio. Voi ci fate ingiuria: perché, se voi sapesse con che animo lo faremo, non direste cosi.
Marchetto. Dice el vero messer Lattanzio. E poi, padrone, séte vecchio. Io arò, in questo mezzo, dell’altre faccende, come accade, e non potrei attendere. E cosí la casa andarebbe a sacco senza una fatica al mondo.
Guglielmo. Non so che mi fare.
Lattanzio. Compare, vi domando, di grazia, che voi mi mettiate, in questa cosa, in luogo vostro e lassiate tutto questo carico sopra di me. Non mei negate.
Guglielmo. In fine, io accetto l’offerte; e pregovi che quel che se ha da fare si facci con prestezza, che mi par tutta volta veder venir la turba.
Lattanzio. Io non ci metterò tempo in mezzo. Voglio andare a far pigliar l’armi a’ miei fratelli e subito, in un salto, da la banda di drieto saremo in casa vostra. State di buon animo.
Guglielmo. Or andate.
Lattanzio. Una cosa vorrei ben sapere. Areste, per sorte, presentito con che arme voglion venire?
Marchetto. Ve lo so dir io: con la spada solamente e con brocchiero sotto le cappe.
Lattanzio. Basta: tanto faremo ancor noi. Voltarò di qua.
Guglielmo. Mi vi raccomando.
SCENA VI
Marchetto, Guglielmo.
Marchetto. Gran ventura è stata la vostra a trovar questo messer Lattanzio.
Guglielmo. Insomma, gli amici son sempre da tener molto cari.
Marchetto. Andiamo in casa, padrone, e spidiamo; che si dia spaccio a coloro piú presto che si può. Cosa fatta capo ha.
Guglielmo. Ben dici. Andiamo.
SCENA VII
Messer Ligdonio, Panzana.
Messer Ligdonio. Tu pieste, Panzana. Non vai niente destro.
Panzana. O come volete ch’io vada?
Messer Ligdonio. Ca tu vaga agile e leggero e ca tu faccia siempre che nce siano due passi fra te e me.
Panzana. Come diavol la potrò cor cosí a ponto?
Messer Ligdonio. Oh! No empuorta cosí alla menuta; basta na certa descrezione.
Panzana. Ecco: a questo modo?
Messer Ligdonio. Quisso, per ora, non fa caso; mate dico quanno nce sta quarcheduno.
Panzana. Lassate poi far a me. C impazzerebbeno i granchi con questo bue.
Messer Ligdonio. Sai, Panzana, quillo che aggio penzato?
Panzana. Non, io; ma me lo indovino.
Messer Ligdonio. Che cosa t’indovini?
Panzana. Che voi vorreste esser a’ ferri, stanotte, con Margarita.
Messer Ligdonio. Ah! A ponto! Tutto lo contrario. Aggio fatto penzamiento lassarla annare e appiccarmi a na certa ladrina ca ier a mane me fece no gran favore. E boglio che l’annamo a vedere mò mò.
Panzana. Mi maravigliavo che durasse troppo. Fidatevi, donne, di questi cervelli! Che favor vi fece, se gli è licito?
Messer Ligdonio. Stava a veder messa appresso quilla; e, corno sbadegliai, sbadegliò essa ancora. E te saccio dicere che lo sbadegliò s’appiccia fra quille perzone che se vogliono bene. * Panzana. Oh che favori mirabili! Che beccarsi di cervello!
Messer Ligdonio. Che è quillo che dice?
Panzana. Dico che fu quanto può esser bello. Ma come è bella quest’altra dama?
Messer Ligdonio. Bella quanto la stella Lucifer.
Panzana. Lucifero, cioè ’l diavolo.
Messer Ligdonio. Appartate mò li doi passi che t’aggio detto; che gente veggo venir de qua.
SCENA VIII
Roberto gentiluomo del principe di Salerno,
Messer Ligdonio, Panzana.
Roberto. Questa terra è molto secca di gentildonne. Gira di lá, volta di qua, e’ non se ne vede una. In fine, questo messer Consalvo ara pazienzia; che non sarebbe possibile ch’io ci fornisse questi due giorni, se mi ci legasse. Ma qual sarebbe la via di ritornare all’ostaria? chi potrei trovar che m’insegnasse l’ostaria del «Cavallo»?
Messer Ligdonio. Quisso, per quanto se vede, dev’esser forastiere.
Roberto. Oh! Ecco qua chi forse saprá insegnarmela. Mantengavi Dio, signori gentiluomini. Saprestimi insegnar la via d’andare all’ostaria del «Cavallo»?
Messer Ligdonio. Segnor si. Vostra Signoria pigli da loco; e voltate a man diritta e po’ a mano manca, primo da ca e po’ da lá; e iate deritto, ca trovarite forse chi la saperá.
Roberto. Séte pisano voi, se vi piace, la Signoria Vostra?
Messer Ligdonio. Al comando de la Signoria Vostra.
Roberto. Questa vostra cittá è molto povera di gentildonne.
Messer Ligdonio. Non lo sapite bene, perdonatime. Ce ne songo assai e bellissime.
Roberto. O dove sono, che non se ne vede? Io m’ero partito da l’ostaria per veder di procacciarmene almanco una per stasera; e lu i ne veggio pure, non ch’io li possa parlare.
Panzana. Doh potta di santo Austino! Costui non è stato qua un giorno intero e pensa di por mano alle gentildonne. Ti menarai la rilla, si, a fé.
Messer Ligdonio. Serra defficile cussi oie; ma, se ve ce fermate quarche iorno, n’averite chiú ca non vorrite.
Panzana. Odi quest’altro!
Roberto. E stasera come potrò fare? ch’io non so’ avezzo con scarparie; e dormir solo non voglio, due sere a la fila.
Panzana. Al corpo d’Ognisanti, che costui è pazzo quanto el mio padrone. Parvi che vi si sieno accozzati? State a udire: ch’io credo che noi aremo un bel piacere.
Messer Ligdonio. Besognará ca, per na notte, facciate lo meglio che se pò da voi a voi. Roberto. Io so’ stato in molte cittá, a’ miei giorni, e non m’è mai accaduto questo. Anzi, non so’ prima scavalcato ch’io ho visto qualche bella donna e, con qualche imbasciata e presente, n’ho spiccati di buon favori e, molte volte, n’ho avuto l’intento mio.
Panzana. Oh povare donne!
Messer Ligdonio. Lo credo. M’è intravenuto ancora a me lo simile. Ma la Signoria Vostra, se le piace, da dove è?
Roberto. So’ perugino e, al presente, son gentilomo del principe di Salerno e, da due anni in qua, mi so’ stato quando a Salerno e quando a Napoli.
Panzana. Al sangue di Dio, ch’io me l’indivinavo. Parvi che, in si poco tempo, gli abbino insegnato benissimo quei signori napolitani? Gli ha imparato prima e’ costumi che la lengua.
Messer Ligdonio. Oh quanto è bella stanza chillo Napoli! che songo de Napoli io ancora.
Roberto. Bellissima! divinissima! Lá vi sta Amore continuamente con l’arco in ponto.
Messer Ligdonio. Cussi è veramente; e io ne saccio rennere rascione chiú che omo.
Roberto. Non mettiam bocca a Napoli che è ’l fior del mondo. Ma io so’ stato in assaissime altre cittá; e per tutto trovo le donne con molta larghezza, salvo che qui in Pisa.
Messer Ligdonio. Non ne site molto informato; ca ancora qui hanno la medesima natura e ènee da darse no bellissimo tiempo. Saccio ben io quillo che me dico.
Panzana. Sa ben lui. State pur a udire.
Messer Ligdonio. E massimamente voi ce aresse vo lo luoco vostro perché mostrate a la cera che site molto pratico a far l’amore.
Roberto. Non dirò questo per vantarmi, ma io n’ho all’anima assaissime. E, s’io vi contasse i bei casi che mi son venuti a le mani, vi farei maravigliare.
Messer Ligdonio. Quanto aggio a caro esserme abbatuto oie con voi! perché m’entienno ancora io de quest’arte multo bene e averia da contarvi medesimamente mille belle cose che me sonno accadute. E aggio speranza ancora che me aggiano d’accadere ogni iorno perché, fin ca non me comienza a venire quarche pilo canuto, pare che non sia in tutto sconvenevole far l’amore.
Panzana. E’ non si vuol cavarseli e dipegnarseli, quando che e’ vengono.
Roberto. Se non vi dispiace, vi vo’ dir uno de’ miei casi.
Messer Ligdonio. De grazia. E dopo ve ne dirò n’autro io ca ve deietterá.
Panzana. Io non darei oggi questo piacere per buona cosa.
Roberto. Trovandomi, l’anno passato, in Genova per certi negozi del principe, nel tempo che papa Paulo andò a Civitavecchia a benedire l’armata, cominciai a far l’amore con una fra l’altre di quelle gentildonne e non mancai mai, in tutto quel tempo che ne stei male, di far ogni officio di buon servitor suo. Io li facevo sberettate per fino in terra, inchini bellissimi, corteggiamenti del continuo. Se l’andava alla messa, io drietoli; se si partiva di chiesa, e io me ne partivo; e rigiognevola, e ritornavo indrieto, voltavo da tutte le strade dove voltava lei e sempre con sospiri e con la beretta in mano/Mascare e correrie di cavalli non mancavan mai. Mai si faceva alla finestra che io non fusse su qualche murello; mai si veniva in su la porta ch’io non fussi li appresso. Manda vali spesso presenti, perch’io son molto liberal nell’amore. Non mi vantavo mai se non con gente che non le potesse venire all’orecchie. E cosí durai piú d’un mese fuor del costume mio, perché ero avezzo che, in dieci o quindici giorni al piú, avevo sempre avuto l’intento de’ miei amori; né mai, in questo tempo, mi fece un minimo favoruzzo. Or recandomi io nell’animo la sua scortesia, tutto sdegnato, mi deliberai di far quel conto di lei ch’ella faceva di me. Come costei vidde questo, subito mi mandò la fante a chiedermi perdono e a raccomandarmisi; ma io, che m’era montata la mosca, non l’arei piú stimata, s’ella m’avesse coperto d’oro. E cosi, spedito ch’io fui delle mie faccende, me ritornai a Salerno. Date qua la mano. Volete voi altro? che la poveretta stava tanto mal di me che si vesti da uomo e vennemi a trovare insino a Salerno, che ci sono le centinaia di miglia. La quale com’io vidi, non potei fare ch’io non ne avessi compassione.
Panzana. Oh! ohu! ohu! ohu! Lassate passar, brigata. Aprite, donne, le finestre.
Messer Ligdonio. Bellissimo caso è stato chisto.
Roberto. Parvi ch’io gli facessi el dovere? che stava mal di me e faceva tanto della schifa! E generoso atto e da gentiluomo fu tenuto ch’io la ricevesse.
Messer Ligdonio. Voglio dicervi lo mio, se volite.
Roberto. Dite.
Messer Ligdonio. Voi dovete esser informato della natura delle donne, che, quando una de loro pò sapere che alcuno sia mal voluto dall’autre donne, subito le mette odio essa ancora; e cussi, per lo contrario, quando sanno che sea amato, pare ca buoglino fare a chi nante se lo piglia: perché sonno invidiose, e enterviene d’esse corno delle cerase, che, corno tu cominze a pigliar grazia con una, tutte te vengono a priesso.
Roberto. È verissimo.
Messer Ligdonio. Cussi intervenne a me, non ha molto tiempo: che era na vicina mea la quale sapea troppo bene ca io era in grazia de molte femene e averia voluto essa ancora pigliare la pratica mea. E, per comenzare l’amicizia, mannò, un giorno, a pregareme ch’io le mannasse quarcuna delle composizione meie; perché me deletto molto de componere e faccio assai bene. Io le mannai na mia no veletta, che avea fatta de frisco, la quale era piena de multi casi affettuosi de amore; li quali leggendoli, quilla s’ennamorò cussi bestialmente de me che me mannò subito a pregare, per l’amore de Dio, ca io li iesse a parlare. Quanno io fui con essa, non appe tanto retenimento en sé, la poverella, che non me se iettasse con le braccia allo collo recomannannose.
Panzana. Oh che caso freddo!
Messer Ligdonio. E ve iuro, per questa brachetta, che nei è moneta, che, in un’ora che stiete con essa, me strense tanto, me zucao tanto, me basao tanto e mozzicao cussi stermenatamente che me stieti doi miesi a lo lietto.
Panzana. Ah! ah! ah! ah! ah!
Roberto. Cotesta fu gran cosa.
Messer Ligdonio. Fo certo come ve dico. E de tutto ne fo la prima causa lo saper io bene componere. E le rime dotte hanno gran forza nell’amore, e lo maior pensiere che hanno quisse donne de nui uomini è lo parlare; che quel fatto, en fine, è cosa da asini. E ve pozzo iurare che, quanno me parti ve da Napoli, giá parecchi anni songo, chiú de dociento gentildonne piansero a selluzzo dello partir mio.
Panzana. Ah! ah! ah! ah! Vo’ ridere, dica ciò che vuole.
Roberto. Domane, s’io non mi parto, vi vo’ contare un caso che m’intervenne a Siena: benché non ebbe effetto; che quelle donne di Siena non sono se non parole che non empior., el corpo e scorgerebbeno el paradiso.
Messer Ligdonio. Intenno che a Siena ce songo escellentissime donne e multo belle.
Roberto. Assai piú che voi non dite; e tutte son dottorate. So che a parlar con esse bisogna andare avertito, se altri non vuol rimanere uno uccello. Carezze, in vero, fanno assaissime; ma, quando che altri crede averle in gabbia, son piú discosto che mai.
Panzana. Un crocione, che gli ha pur detto ben di qualcuno.
Roberto. Io ci stei, un tratto, quattro mesi. Ed èvvi una bellissima stanza, molti gentili spiriti, dottissime accademie e, fra l’altre, l’accademia dell’Intronati ripiena di bellissimi ingegni.
E, sopra tutto, vi sono divinissime donne che, se non avessero el difetto ch’io v’ho detto, beato a chi vi stesse!
Messer Ligdonio. Non l’antienneno bene quisse femene.
E, s’io credesse ca me sentiessero da qua da Pisa, farria quisso bono officio de dirle che s’aviluppano e che besogna, avendo le bellezze, adoperarle. Ma non boglio stare a gridare invano e affocarme.
Roberto. Lassarò la Signoria Vostra. Vo’ veder s’io posso aver ventura nessuna inanzi che sia stasera.
Messer Ligdonio. Como è lo vostro nome?
Roberto. Roberto.
Messer Ligdonio. Segnor Roberto, la Signoria Vostra se recorda de comannarme.
Roberto. Bacio le mani della Signoria Vostra.
Messer Ligdonio. Ve songo servitore.
SCENA IX
Messer Ligdonio, Panzana.
Messer Ligdonio. Sai molto bene, Panzana, quante volte t’ho detto ca non rida quanno io so’ en compagnia de nesciuno.
Panzana. Non risi, io.
Messer Ligdonio. E io so ca ridiste.
Panzana. Ed io so che no. Domandatene. Risi? risi? risi? Se voi trovate nessuno che vi dica niente voglio avere el torto.
Messer Ligdonio. Pò essere; no saccio. A me parve cussi.
Panzana. Non dubitate: ho giá imparato a viver benissimo.
Messer Ligdonio. Galante gentiluomo è chisto messer Roberto. Panzana, m’ha ennamorato.
Panzana. Non ho inteso di quel che aviate parlato.
Messer Ligdonio. E che hai fatto?
Panzana. Guardavo che i due passi tra voi e me fosser giusti.
Messer Ligdonio. Ah! ah! ah! Sei fatto molto diligente, da poco in qua. Ma sera forse passata l’ora del veder quella donna ca te disse.
Panzana. Ora sará a ponto il tempo.
Messer Ligdonio. Annamo. No tardamo chiú.
SCENA X
Messer Giannino, Vergilio, Spagnuolo,
Todesco, Sguazza.
Messer Giannino. Con li amici piú che fratelli come siam noi, messer Luigi e messer Iannes, non bisogna far tante parole. Voi conoscerete, occorrendo mai, quanto prontamente ve ne renderò il cambio.
Spagnuolo. Non azemos estas palabras en nos mismos.
Vamos mas priesto á dar gastigo a el vieio locco della vellacaria que haveis narrado.
Messer Giannino. Voi sapete quanto m’importa la vita di Lucrezia da la qual depende l’esser mio totalmente.
Todesco. Torto fare, messer Iannin. Stare noi amici.
Messer Giannino. Or non indugiam piú, dunque. Su, Sguazza! Che fai che tu non vieni?
Sguazza. Non trovo arme da me, che non ci è qua altro che certe picche. Ma non mi piaccion picche, perché vorrei arma longa per combatter discosto.
Vergilio. Costui ci fará piú danno che utile, padrone.
Sguazza. Ecco ch’io l’ho trovata, per Dio! Questo è ’l mio bisogno. Oh che balestra de Dio! Parvi ch’io la ’ntenda? Starò discosto e farò piú fatti de nessun di voi. Ma vogliamo chiamare el Cornacchia, che saremo tanti piú?
Vergilio. Siamo d’avanzo noi.
Sguazza. Du’ volete ch’io li coglia a Guglielmo, messer Giannino? o in una orecchia o nella brachetta?
Spagnuolo. Vamos, vamos.
Sguazza. Cancar a mona Piera! Vedo aperta la porta. È segno che non han paura. Volete ch’io vi dia un buon consiglio?
Messer Giannino. Che cosa?
Sguazza. Riserbiamoci a domane, che ci sentirem meglio e sarem piú freschi.
Spagnuolo. Que queremos de hazer de esto, messer Giannino? Desciais lo volver alla posada.
Todesco. Stare pazzo el.
Sguazza. Al corpo di san Bendone, ch’io ho visto balenar non so che dentro alla porta. Lassami ritirare al sicuro. Chi vuol morir muoia.
SCENA XI
Lattanzio, messer Giannino, Vergilio,
Spagnuolo, Todesco.
Lattanzio. Ecco i nemici che vengon di qua. State a ordine drento alla porta e non uscite, s’io non vi chiamo; perch’io vo’ parlar due parole a messer Giannino per veder s’io lo potesse distór da questa impresa acciò che, se fusse possibile, non s’avesse a metter a romor la terra.
Vergilio. Diam dentro, padrone. Entriamo in casa.
Lattanzio. Che ragion vi muove, messer Giannino, a voler cosi prosontuosamente venire a assassinare un povero vecchio in casa sua?
Messer Giannino. Che n’avete a saper voi? Un rimbambito, un tristo, un gaglioffo ha ardire di voler ammazzare la piú bella giovene di questa terra?
Lattanzio. Che v’appartien, questo, a voi? che avete da far delle cose sue?
Messer Giannino. Alle cose ingiuste è giustissimo ch ’ognun s’opponga.
Lattanzio. Avete a guidar la giustizia voi? Credete che, perché ei sia vecchio, non ci sia chi lo diffenda?
Messer Giannino. Defendalo chi vuole: che, ’l primo passo che fará contra noi, lo farem pentire di non averlo fatto in fuggire; che noi siamo o per lassarci la vita o per levargli la giovane di mano.
Spagnuolo. Senor messer Giannin, no curamos a esto vellaco. Ruamos, ruamos en casa
Todesco. Affettare el vecchio, io. Vist, conz, sacrament!
Lattanzio. Risolvetevi che voi ci sarete tutti tagliati a pezzi, se non v’andate con Dio.
Spagnuolo. Do reniego de todo el mundo con esto maiadero.
Todesco. Far fette io de el.
Lattanzio. Accordo non ci cape. Uscite fuor, fratelli. Svi! Meniam le mani.
(Qui va l’abbattimento con spada e brocchiero).
SCENA XII
Capitano spagnuolo, messer Giannino, Vergilio, Spagnuolo,
Todesco, Lattanzio e tre suoi fratelli.
Capitano. Muy gentil es esto micer Gonzalvo. Mas que es está question? Fermi! fermi! fermi! Qual nemistad esla vuestra, sefiores? No veis que toda la tierra poneis en romor? Y el commissario vos dará punicion. Que question teneis, gentilhombres, con estos scolares?
Lattanzio. Dirò a Vostra Signoria. Signor capitano, son venuti questi temerari per assassinare questo povero vecchio qua di Guglielmo; e io con questi altri, che son miei fratelli, per l’amor che gli portiamo, siamo venuti in sua defensione per cavare el cuore a questi assassini.
Messer Giannino. Non sta cosi, signor capitano. Questo briccone di Guglielmo, perché una giovene ch’egli ha in casa non ha voluto consentire alle sue poltronerie, gli ha trovato non so che scartabello adosso e vuoila amazzare; e noi, per compassione, procuriamo la sua libertá.
Terzo fratello. Non è la veritá.
Spagnuolo. Doh reniego del emperador! Haveis mentido. Si no fuesse en presencia del senor capitan, querria io metter en la gola estas palabras con la punta de mi spada.
Primo fratello. Doh dispetto del ciel! Signor capitano, se Vostra Signoria me ne vuol far grazia, vo’ venire alle mani io solo con tutti quattro costoro.
Todesco. Troppo supportar tu’ superbia.
Secondo fratello. Andiamo un poco in altro luogo e parlami di cotesta maniera.
Spagnuolo. Pese al cielo se io, legado, no quiero venir con esto vantadore al campo.
Todesco. Tutte star parole. Io mazzarme de mano mia, se non fo star stil com’olio, se aver tutti en torn.
Capitano. Muy grandes corazones teneis. Mucho oviera de pesar en ver la muerte en alguno de vos.
Messer Giannino. Dch signor capitano! Lassateci dar la penitenzia a questi arroganti di tanta superbia.
Lattanzio. Se non fussemo alla presenzia del signor capitano, voi non fareste tante parole.
Vergilio. Ah Dio! Mi struggo di rabbia.
Capitano. Todos, por Dios, seys coragiosos, que no veo vantaio en alcun de vos en esto abbattimento que haveis hecho.
Todesco. Sai perché non star tra noi vantagge?
Capitano. Por que? Dezis.
Todesco. Io non usar tal arme; non saper tener brochiero in man.
Secondo fratello. Anzi, che, s’alcuno si dee doler dell’armi, ci possiamo doler noi.
Capitano. Por que manera?
Secondo fratello. Perché, in Spagna, come quelli c’han timor della vita, per sicurtá usano brochieri o targhe.
Capitano. Assi veo que en Italia tam bien esto es mucho vuestro portamiento. Dexais andar á estos puntos. Con todas las armas, bueno es aquel que es noble en corazon. Mas, de gracia, por vuestra merced, dexais las armas y, corno entre hermanos, entre vos se haga paz.
Messer Giannino. Quando venga da loro il ritirarsi indrieto e sia libera la giovene, saremo contenti.
Lattanzio. Che direbbe questo altiero, se ci avesse vinti?
che parla cosí superbamente.
Spagnuolo. Spero hazer en manera que direis: — Por gracia, tomais la giovene. —
Secondo fratello. Deh, signor capitano! Dateci licenzia che noi meniam le mani.
Todesco. Se voler finir presto, tórre spada a doe man. Cheste non far fette.
Terzo fratello. Con ogn’arme che volete.
Todesco. Prestar a noi spade grande, capitane?
Capitano. Mas es mio officio buscar de hazer acuerdo entra vos que no dare en vuestras manos cason de muerte.
Messer Giannino. Accordo non è per capirci, se non m’è data la giovene.
Lattanzio. Questo non si fará mai. Accordo non ci può stare.
Capitano. Despues que os veo assi sdegnados y llenos de colera tan bien so’ io contiento de desciar accabar vuestra question con las armas.
Todesco. Prestare spade, capitan.
Capitano. Plaze á todos dare io spadas a dos manos?
Primo fratello. Signor si.
Vergilio. Signor si.
Spagnuolo. Si, seriore.
Capitano. Hora veneis en mi posada á ca, que desciareis vuestras armas y tomareis los spadones; y despues vernemos fuera con ellos y accabareis vuestra lid.
Messer Giannino. Andiamo.
Lattanzio. Andiamo.
Spagnuolo. Vamos.
SCENA XIII
Agnoletta sola.
Lassami un po’ scuoter la gonella, ch’io credo esser tutta imbrattata. Io vi so dir, donne mie, che non sognava chi trovò ’l proverbio che dice «un uomo vai cento e cento non vaglian uno». Io mi so’ trovata mille volte con qualcuna di queste uominesse, di queste canne fiacche e ho avuto a far mille civettane inanzi ch’io gli facci scroccar un tratto; e poi Dio sa come! Ma il mio Cornacchia, mi possa venir la morte se, in tre ore ch’io son stata con esso, non siamo arrivati a questi (dicendo cosí alzava tre dita) valentissimamente. De’ Cornacchi se ne trovan pochi. Fate a mio modo, donne. Lassateli andare queste maritesse che tutta volta «chié, chié, chié», e non fan poi mai niente. Orsú! Voglio andar a casa per venir poi, di qui a un’ora o due, a riveder se messer Giannino sará tornato.