L'amor costante/Atto V
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ATTO V
SCENA I
Capitano, Paggio, Lattanzio, Messer Giannino, Vergilio,
Spagnuolo, Todesco, tre fratelli.
Capitano. Lleva, paie, á estas spadas y ponles a ca. Veneis, gentilhombres, a terminar vuestra lid; que quiero a cadaun de vos dar las armas de mi mano.
Paggio. Ecco, signor, le spade.
Capitano. Muestra, paie. Todas son iuntas y uguales tambien. Hor vengais cadaun por la suia: y haveis avertimento que no quiero que algun de vos haga nada addante que a todos sea puesta en man la spada.
Messer Giannino. Non mostraremo questa viltá, signore.
Lattanzio. Non pensate, signor capitano, che noi volessemo alcun vantaggio.
Capitano. Veneis adunque de mano en man.
(Dánnosi le spade a due mani)
Capitano. Agora cadauno de vos, senores, piense bien al partido y vea que con estas armas es impossibile que no muera o tambien reste troncado: por que mucho me vien pietad que tales hombres sefialados dean morir. Por esto vos ruego que hazeis paz, que mas gadagno ne hareis y io tambien gloria porque es esto mi officio.
Messer Giannino. Piú che morto sarei, s’io non facesse conoscere a questi altieri quanto errore abbin fatto a defender a torto un vecchio sceleratissimo e ribaldo e s’io lassasse morire la piú bella giovane che sia al mondo.
Spagnuolo. Todas al viento las palabras.
Lattanzio. Qui, signor capitano, è gittato tutto quel che si parla de accordo, se contra questi assassini non ci sfoghiamo con la spada.
Primo fratello. Dch! Di grazia, non allonghiam piú la vita a costoro con far parole.
Spagnuolo. Por mi vida, que, si con las palabras se vinciesse, non fuera algun seguro. Con las armas no direis assi.
Secondo fratello. Muoio di tedio.
Vergilio. Crepo di dispetto.
Terzo fratello. Mi rodo di rabbia.
Todesco. Mattar! mattar! Non voler parole.
Messer Giannino. Diam drento, di grazia.
Capitano. Yo vos contentare, despues que accuerdo non puedo poner. Sii! Menais las manos.
(Qui va l’abattimento con li spadoni)
SCENA II
Messer Consalvo, Capitano, Messer Giannino, Guglielmo,
Lattanzio, Vergilio, Todesco, Spagnuolo, tre fratelli.
Messer Consalvo. Sará buon ch’io vada a visitar qualche amico mio di quel tempo. Ma che questione è questa? Saldi! saldi! saldi! Non fate, gentiluomini.
Capitano. Fermi, senores! por la presencia de messer Consalvo, que muy noble es Su Senoria.
Messer Consalvo. Senor Francisco, por que desciais combatter a estos gentilhombres?
Capitano. Todo mio ingegno tiengo metido en poner accuerdo entr’ellos corno es mi officio; mas, despues que non hazia nada, he dado en man las armas con que finir lor lid y nemistad.
Messer Consalvo. Que differencia tenen estos senores?
Capitano. Muy grande, por todos los santos.
Messer Consalvo. Dezimelo agora, de gracia.
Capitano. Meior la puedon dezir a ellos. Ablais, senores, a esto messer Consalvo que bien intiende áun italian.
Lattanzio. Ve lo dirò, signore. Costui qua con quei suoi compagni eron venuti per assassinare un povero vecchio in casa sua propria; la defension del quale è obligo nostro pigliar sopra di noi.
Messer Consalvo. Ah signor! Non v’era onore contra un vecchio, a questo modo. Mas Vuestra Signoria, signor Francisco, corno la compuerta?
Messer Giannino. Vostra Signoria oda l’altra parte. Questo vecchio, ch’ei dice, ha voluto sforzare una gentilissima giovene ch’egli aveva in casa; e, non avendo ella acconsentito, gli ha trovata certa cantafavola a dosso e vuoila amazzare. Il che noi non siamo per comportare mai.
Primo fratello. Non sta cosi.
Spagnuolo. Ahy vellacco! Seghiamos nostro giuoco.
Messer Consalvo. Signor Francisco, de gracia, mirais de poner acuerdo, que es vuestro officio.
Capitano. Por Dio, sefior, che non me basta el corazon. Vuestra Segnoria vea se tien meior manera en está cosa.
Messer Consalvo. Dov’è questo vecchio che voi dite, gentiluomo?
Lattanzio. È in casa, qui, signore.
Messer Consalvo. Di grazia, fatelo venir da basso, ch’io intenda un poco la cosa meglio.
Lattanzio. Son contento. Compare, fatevi un poco qua, di grazia.
Messer Giannino. Dch, gentiluomo, lassateci seguire el fatto nostro.
Vergilio. Seguiamolo, padrone, escane quel che vuole.
Capitano. State fermi un poco.
Lattanzio. Ecco ’l vecchio, signore.
Guglielmo. Che domandate, signore?
Messer Consalvo. Oh Dio! Che veggio? Inanzi ch’io vi domandi d’altro, buon vecchio, di grazia, ditemi il vostro nome.
Guglielmo. Perché? Messer Consalvo. Perché, a dirvi il vero, somigliate tanto un mio fratello, che giá molt’anni non ho visto, che mi parete proprio esso.
Guglielmo. Oh messer Consalvo! fratello! La collora non mi vi lassava riconoscere. Che gran ventura v’ha qui condotto?
Messer Consalvo. Eh! fratel caro, quanto volontier vi riveggio! che giá m’ero disperato che voi foste piú vivo.
Messer Giannino. Che voglian dir cotesti abbracciamenti? qual messer Consalvo sará costui? Voglio un poco intender questa cosa. Oh Dio! Tu sai! Ditemi, gentiluomo, per cortesia: qual messer Consalvo séte voi?
Messer Consalvo. Perché?
Messer Giannino. Per bene. Ditemelo, di grazia.
Messer Consalvo. Questa è poca cosa. Mi domando messer Consalvo Molendini, castigliano, al piacer vostro.
Messer Giannino. Oh Dio! E che parentado avete con questo vecchio, che avete fatti questi abbracciamenti?
Messer Consalvo. Sono molti anni che non l’ho piú visto; ed è mio fratello.
Messer Giannino. Questo è Pedrantonio? Tien qui, Vergilio, quest’armi. Oh padre e zio, tanto da me desiderati! Io son il vostro Ioandoro. Guglielmo, Ioandoro sei tu? Oh figliuol mio! figliuol mio! quanto mi godo d’abbracciarti e baciarti!
Messer Giannino. Oh zio caro!
Messer Consalvo. Nipote dolcissimo, quanta ventura è stata oggi la nostra!
Guglielmo. Le vinsi, le vinsi, Lattanzio, compare, le vinsi via quest’armi; che finita è la guerra.
Capitano. Esto es Pedrantonio? Muy gozo, por Dios! Vos forse no me conoceis? Io soy Francisco de Marrada.
Guglielmo. Ora vi riconosco, che mai piú in Pisa v’ho riconosciuto; e n’ho piacere assai. Ma fate, vi prego, portar via l’armi; ch’io voglio che si facci la pace fra tutti.
Capitano. Veneis, seiíores, á posar las armas en la casa; y despues usciremos tambien ad hazer segno de paz allegramente.
Lattanzio. Molto ce ne contentiamo. Andiamo.
Messer Giannino. Andate ancor voi, di grazia, e io verrò adesso adesso; che voglio un poco rimaner con mio padre e con mio zio.
Spagnuolo. Muy soy contiento.
Todesco. Andare io a brinz en casa del capitan.
Capitano. Entramos.
Messer Giannino. La prima cosa, padre, vi domando perdono di avervi voluto offendere e far villania, non conoscendovi.
Guglielmo. Ed il medesimo hai da perdonare a me che con tanto odio ti venivo incontra.
Messer Consalvo. Non hanno d’accader questi perdoni, perché voi non vi conosciavate.
Messer Giannino. Male ci potevamo conoscere, che di sette anni mi divisi da voi.
Messer Consalvo. Perché non vi steste, Pedrantonio, in Genova, come voi mi diceste?
Guglielmo. Perché mi parse cittá di troppa conversazione e da esservi facilmente conosciuto. Ma ditemi, messer Consalvo: che è di mia figliuola Ginevra?
Messer Consalvo. Eimè, Pedrantonio! Sono molt’anni che successe un caso molto miserabile.
Guglielmo. Oh Dio! Che sará? Dite presto.
Messer Consalvo. Essendo Ginevra giá in etá da maritarsi, mi fu domandata per moglie da un Ferrante di Selvaggio, invero molto gentil giovene. Ma, per esser lui della casada nostra nimica, non volsi mai dargliela. E, per questo, el traditore la tolse, una notte, segretamente e, per forza ponendola in una barchetta, la portò via; né mai poi s’è saputo nuove dell’uno né dell’altro.
Guglielmo. Ah Dio! Che mi dite? Ha voluto la Fortuna condirmi d’amaritudine questa dolcezza ch’io sento di vedervi. Povera Ginevra! quanto desideravo di rivederla!
Messer Giannino. Dunque non ho da riveder mia sorella? Ahi Fortuna!
Messer Consalvo. Delle cose irreparabili bisogna risolversi e attendere a quel ch ’è presente. Guglielmo. E voi, messer Consalvo, che v’ha mosso a venire a Pisa?
Messer Consalvo. Vi dirò. Veggendomi giá molto oltre nel tempo e disperandomi del ritorno di Ginevra e della vita vostra, quantunque, giá quattro anni, vi fusse levato il sonaglio, feci pensiero d’andarmene a Roma per veder di ridur Ioandoro in casa nostra acciò che, innanzi la mia morte, riconoscesse le cose sue. Ed eromi venuto a star due giorni in Pisa perché è quasi il camino e amo assai questa cittá.
Guglielmo. E tu, Ioandoro, perché se’ qua giá tanto tempo? e perché ti chiami messer Giannino?
Messer Giannino. Quanto del nome, mio padre, non vi so dir altro se non che, nella corte, mi trovai a poco a poco, senza avedermene a pena, per Ioandoro, esser chiamato messer Giannino. E questo, in Italia, s’usa tutto ’l giorno: troncarsi e imbastardirsi i nomi. Della mia stanza a Pisa io non vi negarò niente, mio padre. Passando io a sorte per Pisa, alla tornata di papa Clemente di Marsilia, viddi alla vostra finestra quella giovene che or volete far morire; e piacquemi tanto che, per amor suo, mi fermai qua alquanti giorni: nel qual tempo me ne accesi di sorte che, scordatomi d’ogni altra cosa, mi levai da la servitú del papa, ne la quale ero.stato molti anni, e venni ad abitare qua per veder s’io potesse mai averla per moglie. E holla sempre trovata si rigida che a pena è da credere. E voi lo sapete quante volte ve l’ho fatta domandare; né mai avete voluto concedermela. Ora io vi prego, mio padre, che mi diciate liberamente se l’ha errato: perché, se l’ha fatto errore, io voglio esser con voi a gastigarla; s’ell’è innocente, vi supplico che voi vi contentiate ch’io la tolga per moglie perché, ancor che io mi trovi un secento scudi d’entrata, nondimeno non mi piace d’esser prete.
Guglielmo. Come s’ell’ha errato? Con quest’occhi propri l’ho vista con quel servitore. E perché crederesti ch’io la gastigasse, se fusse senza peccato?
Messer Giannino. Credevo che forse vi fusse paruto e che fusse da esaminar la cosa.
Guglielmo. Dico che gli è cosi.
Messer Giannino. Ahi scellerata! Queste mani stesse vo’ che ne faccin vendetta.
Guglielmo. Quanto era meglio, Ioandoro, di seguir ne la corte o di tornarsene a casa che darti in preda d’una donna cosi vilmente!
Messer Giannino. Mio padre, recatevi alla memoria quelli anni vostri piú giovani e m’averete per iscusato.
Guglielmo. Quanto del non esser prete, mi piace, se ben tu ne avesse due milia de li scudi; ch’io non ti mandai in corte perch’io volessi impretirti, cioè ingagliofhrti, perché chi reditarebbe, col tempo, le nostre cose?
Messer Consalvo. Cosí giudico io ancora.
Guglielmo. Ma credi che noi ti volessemo dar per moglie una schiava riscattata come gli è Lucrezia?
Messer Giannino. Ella non è, per quanto io intendo, delle nobili fameglie di Valenzia, ch?
Guglielmo. È verissimo, secondo ch’ella m’ha detto; de la casata de’ Quartigli. Ma eli’ è pur stata schiava.
Messer Giannino. Questo importarebbe poco, pur che non avesse fatta questa vigliaccaria. Ma mio danno, s’io non me ne vendico!
Guglielmo. A quest’ora, debb’esser vendicata; ch’è piú d’un’ora ch’io ordinai che Marchetto gli desse spaccio con una bevanda. Ma ecco fra Cherubino che ce lo saprá dire.
SCENA III
Guglielmo, Fra Cherubino, Messer Giannino,
Messer Consalvo e Marchetto.
Guglielmo. Che fan quei prigioni, fra Cherubino? hanno presa la bevanda?
Fra Cherubino. Messer si. E non m’abbattei mai a un caso cosi compassionevole e che m’accendesse di piú pietá: che non posso ritener le lagrime a ricordarmene.
Guglielmo. Perché?
Fra Cherubino. Perch’io non credo che martire mai si conducesse a la morte con tanta costanzia e fervore con quanto hanno fatto l’uno e l’altro di costoro. Come viddero venir la bevanda, subito, rimiratisi in viso, cominciarono a consolarsi l’un l’altro con certe parole piene di tanta affezione e amore ch’io ne rimasi stupefatto a sentirle. Ciascuno voleva essere il primo a por la bocca alla coppa; ognuno piangeva piú della miseria del compagno che della sua. Pur, alla fine, la donna, strappata a tradimento la coppa di mano al giovene, subito se la pose a bocca e, se per forza egli non glie la levava delle mani, tutta se la beveva acciò che per lui non ne rimanesse. Doppo questo, si strinsero insieme per quanto dalle manette gli era concesso. E gli lassai che aspettavano la morte allegramente.
Messer Giannino. Ah poltrona! Parvi ch’ella ne stesse male? Ma l’ha avuto el gastigo che merita.
Fra Cherubino. Ben è vero che la giovine m’impose ch’io vi pregasse in caritá, Guglielmo, e per l’amor di Dio, che voi li voleste far una grazia, innanzi ch’ella morisse, di ascoltarla poche parole e che dipoi morrá contenta. E molto, molto vi si raccomanda.
Guglielmo. Non la voglio udir, questa sciaurata.
Messer Consalvo. Eh! Pedrantonio, fateli questa grazia, che vi costa poco.
Messer Giannino. Dice ’l vero lo zio. Stiamo a udir quel che la ribalda vuol dire.
Guglielmo. Son contento, per amor vostro. Ma vogliamola udir drento in casa o pur qui nella strada? Messer Cònsalvo. È meglio qui fuora, per farli questa vergogna piú. E, se vedremo venir nessuno, entraremo in casa subito.
Guglielmo. Cosí si faccia. Marchetto!
Marchetto. Signore!
Guglielmo. Vien’ da basso.
Fra Cherubino. Se voi non volete altro, Guglielmo, mi ritornare) al convento.
Guglielmo. Non altro. Mille grazie a voi.
Marchetto. Eccomi, padrone: che domandate? Guglielmo. Fa’ venir Lucrezia fin qui, cosí nei ferri come l’è.
Marchetto. Adesso sará fatto. Oh padrone! Io ho fatto benissimo l’officio mio.
Guglielmo. Fa’ quel ch’io t’ho detto. Mai areste creduto questo di Lucrezia, se voi l’aveste conosciuta; che parea la miglior giovene che fusse mai.
Messer Giannino. Son piú le promesse, i presenti e i preghi che ho fatti a questa iniqua... E ogni giorno manco conto ne faceva.
SCENA IV
Guglielmo, Lucrezia, Messer Consalvo, Messer Giannino.
Guglielmo. Eccola, questa sfacciata! questa ribalda! Lucrezia. Eh! ch! Guglielmo, vi domando per ultima grazia, inanzi ch’io muoia, che mi vogliate ascoltar quetamente alquante parole: ch’io vi farò conoscer ch’io non so’ sfacciata né ribalda ma disgraziata e sventurata, si.
Messer Giannino. E che vorrai dire, empia, scelerata? Per Lorenzino m’hai cambiato me, ch?
Lucrezia. Ancora a voi, messer Giannino, farò vedere, se m’ascoltate, che di me non vi dolete con ragione.
Messer Consalvo. Lassiamola un poco dire. Questo c’importa poco.
Guglielmo. Or di’, via, quel che vuoi dire. Lucrezia. Primamente voglio che sappiate, Guglielmo, che questo che voi vi tenete per Lorenzino vostro servitore è nobile pari a me e, giá molt’anni sono, mi sposò per sua consorte; né mai poi l’ho rivisto, se non ora in casa vostra. E, per fede che sia cosi, a questo lo potete conoscere: ch’io non ho voluto manifestarvelo prima ch’io mi bevesse la morte acciò che voi non vi pensaste ch’io l’avesse fatto allora per iscusarmi per paura ch’io avesse del morire; dove che ora, non essendo piú rimedio alla mia vita, non deve te piú dubitar di questo. E vi prego che mei crediate.
Guglielmo. Come puoi dir cosi, bugiarda? che sai che mi dicesti, quando t’ebbi in casa, che eri stata rapita di una tua villa vicina a Valenzia di grembo a tua madre e che non eri per anco maritata.
Lucrezia. Tutte queste cose ve le dissi fintamente. Non Valenzia è la mia patria né Lucrezia è il mio nome. Il che tutto feci perché voi non poteste, conoscendomi, dar notizia a un mio zio dell’esser mio, per la vergogna ch’io avevo d’esser fuggita da la patria mia insieme con costui che voi chiamate Lorenzino.
Guglielmo. O perché te ne vergognavi, s’egli era tuo marito, come tu dici?
Lucrezia. Perch’io dubitavo che quel mio zio non me l’avesse creduto senza ’l testimonio del mio marito proprio il quale mi pensavo che fusse stato amazzato da quei mori che mi predarono. E cosí ho tenuto sempre per fin a ora.
Guglielmo. Oh! Perché ti fuggisti?
Lucrezia. Perché ’l mio zio non si contentò mai ch’io fussi moglie di costui. E, per questo, ci sposammo di nascosto; perch’io avevo deliberato di non essere mai conosciuta da altro uomo che da lui. E voi lo sapete, Guglielmo, se, la prima cosa ch’io feci in casa vostra, vi pregai o che voi mi uccideste o mi prometteste di non parlarmi mai di darme marito; che prima arei consentito a mille morti che darmi in preda d’altro uomo.
Messer Giannino. Oh Dio! Par che m’indovini l’animo non so che.
Guglielmo. E questo, che tu dici esser tuo marito, com’è venuto in casa a servirmi? perché non si scopriva?
Lucrezia. Perché, dubitando che voi non ci credeste, aveamo pensato di partirci, una notte, nascosamente e andarci con Dio. Ma la Fortuna non ha voluto.
Guglielmo. Ed amazzarmi volevate, ingrati! poltroni!
Lucrezia. Questo non volevamo far noi. Ma volea ben Lorenzino, com’egli confessò a voi, difendermi da chi impedir ci volesse.
Guglielmo. Se gli è cosi, non fu mai donna piú casta di; te né amor piú costante. Ma non tei credo.
Lucrezia. Vi supplico, se mai mi amaste da figlia, Guglielmo, che mi facciate questa grazia, inanzi la mia morte, di credermelo, perché gli è cosi. E non per altro ve l’ho detto se non per non lassar questa macchia di me, a torto, nell’animo vostro e perché ancora, se mai ve ne viene occasione, possiate far fede nella patria mia e a quel mio zio dell’innocenzia mia e castitá. Il quale lo potrá referire a un mio caro fratello, che ho solo al mondo: a mio padre non dico, perch’io non so dove sia.
Guglielmo. Come vuoi ch’io facci questo, se tu non mi dici qual è la tua patria e chi sia il tuo zio?
Messer Giannino. Mio padre, udite. Mi par esser certo che questa è Ginevra.
Guglielmo. Oh Dio!
Messer Giannino. Dimmi un poco: donde sei? e come si domandava tuo padre?
Lucrezia. Si domandava Pedrantonio Molendini, di Castiglia.
Messer Giannino. O Ginevra, sorella, questo è tuo padre, questo è tuo zio, io son tuo fratello.
Guglielmo. Oh figliuola mia!
Messer Consalvo. Nipote mia cara!
Lucrezia. O padre caro, zio e fratello dolcissimi, quanto morrò or contenta!
Guglielmo. Aimè povero vecchio! sconsolato Pedrantonio!
Sorte crudelissima, che, in un medesimo giorno, m’ha fatto ritrovar mia figliuola e amazzarla! Uh! uh! uh! uh! uh!
Lucrezia. Non piangete, mio padre, perch’io muoio felicissimamente; che, inanzi la morte, ho visto tutte quelle care cose che ho desiderato giá tanti anni ed ho fatto chiaro a tutti, insieme, la mia innocenzia. E Ferrante di Selvaggio, ch’è mio marito, per mio amor, medesimamente muor volentieri.
Guglielmo. Eh! Ginevra, figlia, perdona a questo povero padre di tante ingiurie e villanie che t’ha fatte.
Messer Consalvo. Non è tempo di pianger, Pedrantonio. Vediam piú presto di mandar per qualche medico e veder se si trovasse rimedio alla bevanda.
Guglielmo. Ah Dio! che troppo forte e troppo potente composizione fece far maestro Guicciardo! Pur proviamo. Va’, Marchetto, e trova presto maestro Guicciardo e menalo subito qui e digli che è cosa che importa assai.
Marchetto. Presto sarò qui, che lo trovarò alla butiga de Gregorio speziale. Oh Dio! Vi vo mal volentieri. Pur non vo’ mancare; e tanto piú che io penso che i remedi sieno scarsi.
Guglielmo. Ginevra, vattene in casa. E mettetevi in letto, tu e Ferrante; e vedete di sudare: che, or or, verrem col medico a far que’ remedi che si potrá.
Messer Giannino. Lassami levar questi ferri e queste manette.
Lucrezia. Andarò. E pensatevi, caso che non ci sia riparo, che noi morremo volentieri.
Guglielmo. Che sa far la Fortuna, messer Consalvo! dar tanto bene e tanto male in un punto!
Messer Consalvo. Mai conobbi in persona del mondo tanta costanzia quanta in questa nostra Ginevra.
Messer Giannino. Oh! Io vorrei che questo maestro Guicciardo venisse presto.
Guglielmo. Eccolo di qua che viene in fretta. Dio ce la mandi buona.
SCENA V
Messer Giannino, Maestro Guicciardo, Guglielmo,
Messer Consalvo, Sguazza.
Guglielmo. Ben venga, maestro Guicciardo.
Maestro Guicciardo. Dio vi contenti tutti. Che cosa è accaduta, che ho incontrato Marchetto che cosí in fretta veniva per me?
Guglielmo. Voi sapete, maestro Guicciardo mio, quanto stamattina mi allargai con esso voi di tutte le cose mie.
Maestro Guicciardo. Di tutto mi ricordo. E mi pregaste che io cercasse di saper nuove, in Roma, d’un vostro figlio.
Guglielmo. Cosí fu. Ora la Fortuna, buona in un tempo e cattiva, m’ha fatto oggi conoscer che questo è il mio figlio che vi dissi essere in Roma. E questo è mio fratello.
Maestro Guicciardo. Gran tenerezza sento, certissimo, della buona sorte vostra. Dunque questo è messer Consalvo? A pena vi riconoscevo; e giá eravamo molto amici. Vi voglio abbracciare.
Messer Consalvo. Or pur vi riconosco, maestro Guicciardo.
Maestro Guicciardo. E con voi ancora, messer Giannino, mi rallegro perché sempre v’ho amato da figlio.
Messer Giannino. Ed io vi reverirò sempre da padre.
Guglielmo. Ora, maestro Guicciardo, quel che per ora importa piú non v’ho detto. Avete a sapere come, acciò che in me questa consolazion durasse poco, ha voluto la sorte che, forse d’un’ora innanzi ch’io sapesse tutte queste cose, facesse dar bere la bevanda che voi m’ordinaste, com’io vi dissi, a quella giovene che io ho in casa: la quale ho saputo poi medesimamente che è la mia figliuola Ginevra. E quel Lorenzino, ch’io vi dissi aver trovato con essa, è il suo marito, come meglio intenderete poi in casa agiatamente, perché è pericolo nell’indugio. Or voi potete pensarvi quel che vogliamo da voi: che, se gli è possibile, si trovi rimedio a questa cosa.
Maestro Guicciardo. Oh sorte felicissima di questo uomo! caso non piú sentito! Quanto mi diceva oggi l’animo che simil cosa avesse da riuscire! quanto v’avete da lodare della fortuna vostra!
Messer Giannino. Perché, maestro Guicciardo?
Maestro Guicciardo. Felici e aventurati voi!
Guglielmo. Dite, di grazia, presto: perché felici?
Maestro Guicciardo. Perché, quando veniste oggi a me per questa composizione, non potendo io distorvi da tanta impictá, pensai che restasse per esser voi troppo fresco allora ne la còlerá e che, poco di poi, voi v’avesse a pentire di tutto il fatto. E, per questo, vi dèi una composizione vana: pensando di trovarvi poi a sangue freddo; e, se pur vi vedesse ostinato in tal cosa, allora non mancar di farvi questo piacere. Certo l’animo mi diceva che voi ve ne pentireste.
Guglielmo. Eh Dio! Che mi dite?
Maestro Guicciardo. Questo è certissimo: la bevanda piú presto fará lor utile che danno alcuno.
Guglielmo. Oh cieli! Quanta consolazion sento ora di tutto il ben che m’è venuto oggi!
Messer Giannino. O giorno felicissimo, sempre t’arò in memoria mentre ch’io viverò.
Messer Consalvo. Quanta felicitá è la nostra, oggi!
Guglielmo. Maestro Guicciardo, non vi farò molte parole. Io mi vi conosco tanto obligato ch’io non sarò mai contento, s’io non vi ristoro in qualche parte.
Messer Giannino. E di me pensatevi ch’io v’abbi a esser sempre buon figlio.
Messer Consalvo. Fra voi e me, maestro Guicciardo, non ci accade far cerimonie; che ci conosciam per altri tempi.
Maestro Guicciardo. Io vi ringrazio tutti e accetto le proferte vostre per quando m’occorrerá. E, al presente, quando voi vi contentaste, arei caro domandarvi una grazia: non per obligo, ma per cortesia vostra; se giudicarete, però, che quel ch’io domando sia cosa ragionevole.
Guglielmo. Pur che noi la possiam fare, lassate poi fare a noi.
Messer Giannino. Tanto dico io. Dite.
Maestro Guicciardo. Io mi penso che, non avendo voi altri figli maschi che quest’uno, non aviate da consentire ch’ei si viva prete, com’io intendo che gli è. Però, piacendovi di dargli moglie e volendo egli tórla, mi trovo, come sapete, una figliola unica in questo mondo e desiderarci moltissimo lei, con tutta la mia ereditá, mettere in casa vostra; e tanto piú che, innanzi ch’io sapesse che fusse vostro figlio, desideravo questo medesimo, come egli sa. Ed ancor voi lo sapete; che, parlandomene voi stamattina per messer Ligdonio Caraffi, vi scopersi intorno a questo l’animo mio.
Messer Giannino. Mio padre, sia fatto, se ne séte contento.
Guglielmo. Me ne contentarci tanto quanto di cosa ch’io facesse mai. Ma mi par far torto a messer Ligdonio che m’aveva messo mezzano, in questa cosa, per sé proprio.
Messer Giannino. Messer Ligdonio se ne curará poco. E, se voi volete, gli potrem dare, in questo cambio, tutti i miei benefici che gli fruttaranno meglio che seicento scudi l’anno, e tutti son di pensioni: che, per esser egli piú di tempo che io, sará facilissima cosa il farlo.
Guglielmo. Ben dici. E, se ben mi ricordo, m’ha mostrato sempre d’aver voglia d’esser prete; che quel che gli faceva voler moglie era il bisogno della dote.
Messer Giannino. Dunque darò la mia parola a maestro Guicciardo.
Guglielmo. Daglila, ch’io ne son contentissimo.
Messer Giannino. Maestro Guicciardo, datemi la mano. Sia fatto il parentado fra noi. E, per non indugiar molto, voglio che domane si faccin le nozze.
Maestro Guicciardo. A posta vostra. E cosí vi prometto; con questo patto: che se ne contenti lei.
Messer Giannino. Cosí sia. Non la pigliarci altrimenti.
Maestro Guicciardo. Sará buon, dunque, ch’io mandi questa sera al munistero dov’era andata per aspettare el mio ritorno di Roma.
Messer Giannino. Mandate in ogni modo.
Maestro Guicciardo. Che vuol dir che voi séte cosí senza cappa? Ve ne volsi domandar, la prima cosa.
Messer Giannino. El tutto intenderete poi in casa.
Guglielmo. Entriamo dunque dentro.
Messer Giannino. Entrate. E io me n’andarò fin qui in casa del capitano per ritrovarmi alla pace con quelli altri compagni; che mi debbono aspettare, perch’io li dissi che sarei lá presto.
Guglielmo. Mi ci vo’ trovare ancor io come quel che fui cagione della guerra. Voi, maestro Guicciardo, entratevene in casa a dar la buona nuova a Ginevra e Ferrante che aspettano la morte; che, or ora, saremo da voi.
Maestro Guicciardo. Andate: che v’aspetto drento.
Guglielmo. Oh Dio! quanta allegrezza sento oggi, figliuolo!
Sguazza. Or ch’io ho inteso che la guerra è finita e che s’è ritrovato un parentado, voglio andare ancor io a rallegrarmi del caso; che, se s’ha a fare sguazzabuglio di nozze, mi ci abbi ancor io a ritrovare. E, mentre, fantasticarò qualche scusa che non m’ero fuggito per paura.
Messer Giannino. Entriamo. Mio padre, passate innanzi.
Sguazza. Veggo, per Dio, che gli entrano in casa del capitano. Messer Giannino! messer Giannino! olá! olá! Non entrate: una parola. Mi rallegro ancor io. Sapete? Non fuggii, a fé.
Messer Giannino. Ecco Sant’Ermo. Addio, Sguazza. Fuggisti el ranno caldo, ch?
Sguazza. Ah! A punto! Anzi, ero corso alla finestra per balestrare a’ nemici polzonate dell’altro mondo. Informatemi un poco delle cose ancor me.
Messer Giannino. Entra dentro. E intenderai come le cose passano.
SCENA VI
Agnoletta sola.
Areste visto, uomini, tornare in casa messer Giannino? Voi non rispondete? Non volete che queste cittadine vi vegghin parlare con le fantesche, ch? Andarò a bussare e veder da me; e, se vi sará, tornarò presto per il presente e portaroglielo. E poi me n’andrò a render la risposta a Margarita: ch’io so che, la poveretta, gli debbe giá incominciare a pruder sopra le ginocchia per la voglia ch’ella n’ha di saper nuova come la cosa del presente è andata.
SCENA VII
Agnoletta, Cornacchia.
Agnoletta. Tic toc, tic toc.
Cornacchia. Chi è lá? chi è lá? Oh! oh! Addio, Agnoletta. Oh! Tu sei prete ingordo! Non ci è piú ordine.
Agnoletta. No, no; non vo’ cotesto: el serbaremo a domane. Ma dimmi: è tornato messer Giannino?
Cornacchia. Non è tornato, grattugina mia dolce.
Agnoletta. Addio. Sai? A rivederci domane.
Cornacchia. Si, si. Come le sardelle!
Agnoletta. Dove dia voi è intrato, oggi, costui? Bisognará riserbarlo a domane.
SCENA VIII
Sguazza, Agnoletta.
Sguazza. Ah! ah! ah! ah! ah! Che si ch’io crepo d’allegrezza! Ah! ah!
Agnoletta. Costui, qua, fa un gran ridere. Voglio un poco stare a udire che nuove ch’egli ha.
Sguazza. Criep, frap, ler! Ah! ah! ah! Brong, gualif, guendir! Ah! ah! ah! Che si ch’io impazzo per troppo bene!
Agnoletta. Che domine sará?
Sguazza. Non sia nissuno che mi dia impaccio. Io sarò felice, io sguazzarò, io sarò l’imperatore, io sarò re, io sarò il li conte dell’Anguillara. Chi stette mai in su la santa paparina come starò io? Oh! Se mi s’attraversasse per la via, or ch’io son felice, qualcun di questi frati traditori che par che non abbino altre facende mai che comandar digiuni, con un sol calcio lo vorrei mandare in paradiso. Oh corpiciuolo! Tu hai a avere il bel tempo, traditore! Ah goletta ladroncellina! Tu t’ingollami i buon bocconi! Denti, fatevi di ferro. O santo appetito, a questa volta, mi ti raccomando. Udtfe, valentuomini miei galanti. State a udir, donne belle, dolci, zuccherate, sode, fresche, bianche, rosse, gialle, calandrine. Messer Giannino, che si chiama or Ioandoro... ah! ah! ah!... mi vuol dar mangiare il suo piú volentieri che mi desse mai. Guglielmo, o Pedrantonio che noi vogliam dire, m’ha fatto spenditore, maestro di casa, canavaio per piú di quindici di; che vuol tener corte bandita.
Agnoletta. Che vuol dir questo? che può essere? Lassami non ne perder parola.
Sguazza. Ora che ne dite, donne? Voltatevi a me. Che mirate costá? Mirate me, che importa piú. Che ne credete? Eh! le mie saprosine melose! Chi mi vuol prestar di voi il suo corpo? Oh! Se si potesser prestare, quanti n’empirei! Ma lassami andare a trovar messer Ligdonio e darli una buona nuova; che gli vogliano renunziare secento scudi d’entrata. E sai se li saprá spendere! So che i beccai, poliamoli, speziali n’aranno la parte loro. Sará prete. Non vi vo’ dir altro.
Agnoletta. Qualche gran cosa è questa. Mi voglio scoprire. Che ci è, Sguazza? Tu sei molto allegro.
Sguazza. Addio, Agnolettina, bellina, pizzicarina.
Agnoletta. Tien’le mani a te. Che credi fare?
Sguazza. Toccarti, un tratto, coteste poccine.
Agnoletta. Orsú! lassami stare. Mi venga la lebbra manicatola , ch’io ti darò.
Sguazza. Oh! Son sodine. Quanto tempo hai, se Dio ti guardi, la mia Agnoletta?
Agnoletta. Quand’io mi partii da Montalcino, che v’eran li spagnuoli, avevo quindeci anni.
Sguazza. Oh! Che facevi li?
Agnoletta. Oh! Io son da Montalcino, io.
Sguazza. E stestivi al tempo delli spagnuoli?
Agnoletta. Vi stetti due mesi.
Sguazza. Fra li spagnuoli, ch? Va’ lá. 11 resto so io.
Agnoletta. Eh! Io mi salvai, io. Ma ti so ben dire che noi donne, se non ci veniva il marchese a fargli andar via, a longo andare ci capitavamo male.
Sguazza. Orsú! Addio, ch’io ho fretta.
Agnoletta. Oh! Dimmi prima: che ci è di nuovo?
Sguazza. Son trovati oggi mille parentadi. E che piú? Ti so dir per certo che tu starai domane a nozze perché maestro Guicciardo ha maritata Margarita.
Agnoletta. Come «maritata»? a chi?
Sguazza. A messer Giannino.
Agnoletta. Oh Dio! Che mi dici? El caso è che lui ne sia contento.
Sguazza. Contento? Gli par mill’anni! che non vuol che passi domane che si faccin le nozze.
Agnoletta. Gesú! Che mutazione è questa? che se ne mostrava tanto lontano! Sa’ lo di certo, Sguazza? ch’io ho paura che tu non mi burli.
Sguazza. Io dico che gli è cosi.
Agnoletta. In fine, non tei credo.
Sguazza. Se tu non mei vuoi creder, fa’ tu. Ti lasso: ch’io voglio ire a trovar messer Ligdonio.
Agnoletta. Dch! Dimmi se gli è ver, di grazia.
Sguazza. Vero! vero! vero! Vuoi ch’io tei dica piú?
Agnoletta. Oh Dio! quanto mi sento allegra!
Sguazza. Agnoletta, addio.
Agnoletta. Addio.
SCENA IX
Agnoletta sola.
Oh quanto sarai contenta, Margarita, quando sentirai si buona nuova! Or coglierai el frutto di tanta perseveranzia e fermezza; or porrai fine a tanta miserabil vita quant’hai fatto sino a oggi; ora i sospiri e le lagrime si convertiranno in dolcezze e abbracciamenti; ora il tuo amor costante sará esempio a tutto il mondo. Imparate, donne, da costei a esser costanti nei pensier vostri; e non dubitate, poi. Imparate voi, amanti, a non abbandonarvi nelle miserie e soffrir le passioni per fin che venghino le prosperitá. E questo vi basti: ch’io voglio andarmene a Margarita; ch’io non credo veder quell’ora ch’io gli dica cosí felice nuova.
SCENA X
Messer Ligdonio, Sguazza.
Messer Ligdonio. Se me retrovo seicento scuti d’intrata, Sguazza, boglio essere acciso se non faccio la chiú bella vita che gentiluomo de Pisa. Ma, de grazia, dimme: che move quisti a fareme tanto bene cussi de improviso?
Sguazza. Che non vi par meritarli, ch? Da lor saprete il tutto.
Messer Ligdonio. Vede, Sguazza. Alla tavola mea te voglio fin ca vivo; e, comò può’sarrò morto, boglio lassare per testamento alli miei ca non te pozza mai mancare.
Sguazza. Mi mancava quest’altro bene. Sguazza, Sguazza! Imperio, imperio!
Messer Ligdonio. Oh corno m’è venuta buona! cierto, lo meglio che se pozza. Io pigliavo mogliere mal volentieri, per desiderio solo di robba. Addesso io averò la robba senza la moglie. Oh me beatum Mi pare ogni ora mille ca lo sacci lo mio Panzana.
Sguazza. E dov’è il Panzana?
Messer Ligdonio. È annato a ordinar ca se cene.
Sguazza. Oh che goder di Dio che noi aviamo a fare!
Messer Ligdonio. Boglio entrare dentro, che non pozzo chiú stare a le mosse.
Sguazza. Entriamo. Ma non so giá se Guglielmo e messer Giannino sian tornati.
Messer Ligdonio. Oh! Dove erono?
Sguazza. Li lassai qui in casa del capitano che facevano una certa pace e bevevano. E bevei ancora io. Ma entriam pure: che mi dissero esser qui in casa maestro Guicciardo.
Messer Ligdonio. Entramo.SCENA XI
Guglielmo, Capitano, Messer Giannino.
Guglielmo. Voglio che tutti, per amor mio, in segno di bella pace, vi diate l’uno a l’altro, qui fuore, il bascio in bocca.
Capitano. Muy bien habla messer Guglielmo, gentilhombres; que muy bien hecho es esto.
Messer Giannino. Siam contenti. Vo’ che noi lo facciamo. Io cominciarò. Seguite tutti.
(Qui va la moresca in pietosa col bacio)
SCENA XII
Capitano, Todesco, Messer Giannino.
Capitano. Muy gozo, por mi vida, en ver vos amigos. Dios vos mantenga en está amistad y fratellanza.
Todesco. Far danze; far far danz, messer Giannine; ballar, ballar per miglior trinch.
Messer Giannino. Son contento. Seguite, per amor mio.
(Qui va la moresca gagliarda)
SCENA XIII
Todesco, Messer Giannino, Lattanzio, Spagnuolo.
Todesco. Piú ballar, piú ballar. Suona! Tifr, tru lu ru u u u! Allegr! allegr!
Messer Giannino. Facciam, di grazia, questo piacere a messer Iannes.
Lattanzio. Or seguitiamo.
Spagnuolo. Soneys, soneys tambur, senores.
(Qui va lo intrecciato)
SCENA XIV
Guglielmo, Capitano e Spagnuolo.
Guglielmo. Orsú! Basta, basta. Andiamo or tutti a far allegrezza in casa con Ginevra e con Ferrante e ordinar che si mandi per Margarita per far le nozze. Sii, signor capitano! venite ancor voi. Sii, compare!
Capitano. De buona gana. Vamos.
Lattanzio. Andiamo.
Spagnuolo. Vamos.
SCENA XV
Lo Sguazza solo a li spettatori.
Spettatori eccellentissimi, non vi aspettate, per oggi, che noi usciam piú fuora; che al monistero per Margarita ci andremo poi di notte con le torce. Se alcuna di voi, donne, vuol degnarsi di venire a cena con esso noi, glie ne daremo molto volentieri e alla viniziana, se vorrá. Venga pur via, che sará trattata benissimo. Ma non vogliamo omini, vel dico. E, se non volete venire, ricordatevi de’ vostri Intronati: e fateli buon viso sempre; fateli buon viso, donne. E basta. E, se quest’uomini dicon male de la nostra comedia, mordeteli la lingua con un paio di forbici de la vostra paneruzza da cucire. E, se la comedia, come si sia, v’è piaciuta, fate segno d’allegrezza: che, se ve ne rallegrarete voi, tutti gli uomini vi verranno poi drieto. Addio.