Atto III

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Atto II Atto IV
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ATTO III

SCENA I

Messer Giannino, Sguazza, Vergilio, Cornacchia cuoco.

Messer Giannino. Vedi, Sguazza, d’esser diligente intorno a questo Lorenzino, ch’io ti dico che non ho ora altra speranza che nei casi tuoi; e Vergilio, qui, sa che molte volte gli ho detto quanta fede ch’io abbia in te.

Vergilio. Sa ben lo Sguazza quel ch’io glie n’ho detto.

Sguazza. Io posso poco, messer Giannino, perché nacqui povero; ma di affezione non avete uomo al mondo che ve ne porti piú di me.

Messer Giannino. Che cosa è povero? hai paura che ti manchi robba? Guarda quel ch’io ti dico. O riesca questa cosa o non riesca, in tutti e’ modi, non ti mancarò mai; ma, se per caso vengono a qualche buon termine con Lucrezia i casi miei, voglio che tu sia centomila volte piú padrone di quel ch’io arò sempre che la mia persona propria. Fa’ ch’io non ti senta piú dir «povero».

Sguazza. La robba sta bene a voi. A me basta che mi vogliate bene e mi vediate voluntieri spesso in casa vostra.

Messer Giannino. Non ti so far piú parole. Alla giornata conoscerai s’io ti farò piacere o no. Ma non indugiar piú a andare a trovar questo Lorenzino. E mi tro varai alla buttiga di Guido orafo: ch’io vo’ veder di far finir quello anello acciò che Lorenzino, volendo, el possa portare stasera a Lucrezia.

Sguazza. Lassate il pensiero a me, ch’io non farò altro.

Messer Giannino. Cornacchia!

Cornacchia. Signore! [p. 63 modifica]

Messer Giannino. Vien da basso.

Vergilio. Sapete quel ch’io vi ricordo, padrone? Io non fidarei, cosí per la prima volta, a Lorenzino un anello di tanto pregio; che vai quel diamante piú di cento scudi.

Messer Giannino. Importan poco cento scudi ove ne va la vita.

Cornacchia. Eccomi, padrone: che comandate?

Messer Giannino. Se vien nessuno a domandarmi, di’ ch’io sia alla buttiga di Guido orafo, intendi?

Cornacchia. Cosí dirò.

Messer Giannino. Vergilio, andiamo. E tu, Sguazza, sollecita quel e’ hai da fare.

Sguazza. Non metterò tempo in mezzo. Oh! Io sarei la bella bestia s’io facesse prima e’ fatti del compagno e poi i miei! Io voglio andare, inanzi, a casa d’un certo procuratore che suol mangiar tardi e sempre ha qualche cosetta di buono, che tutto ’l di gli è donato qualche presentuzzo. E, benché io abbia il corpo assai carico, pur non è mai si pieno che non ci possin capir quattro bocconcelli. Addio.

SCENA II

Panzana, Messer Ligdonio.

Panzana. Che vuol dir, messer Ligdonio, che noi siamo usciti di casa col boccone in bocca, che non m’avete lassato mezzo mangiare?

Messer Ligdonio. A dicerte lo vero, aggio presentuto che Margarita, corno ave manciato, se ne va al monasterio di Santo Martino per star lá tanto che maestro Guicciardo tome da Roma.

Panzana. Donde diavol l’avete saputo? Voi devete aver qualche intendimento con essa e non me ne volete dir niente.

Messer Ligdonio. Non, per Dio, che lo dirria.

Panzana. Voi ghignate, ch? Voi dovete aver fatto qualche cosa con costei: conosco ben io. [p. 64 modifica]

Messer Ligdonio. Ah! ah! ah! Tu si’ ribaudo.

Panzana. Costui vorrebbe ch’io lo credesse; ma noi credo.

Messer Ligdonio. Che dice?

Panzana. Dico ch’io sia impiccato s’io noi credo.

Messer Ligdonio. Non è lo vero, a la fede.

Panzana. Or vuol ch’io ’l creda. E chi vel potrebbe aver detto altri che lei?

Messer Ligdonio. Non sai ca li poeti hanno, quarche volta, lo spirito divino?

Panzana. Perché «di vino»? Si imbriacano?

Messer Ligdonio. Povero te! che cosa è l’ignoranzia! Tu puoi ben praticare in casa mia, che non te pozzo niente scozzonare.

Boglio pur vedere se io me poraggio far entènnere.

Ma de che parlavamo nui?

Panzana. Che cervel da statuti! E che ne so, io, s’io non ho studiato?

Messer Ligdonio. Si, si; me ne ricordo. Grannissimo, Panzana mio, est a?iimus poètorum.

Panzana. Voi mi parlate per lettera, e poi vi maravigliate che io non v’intenda.

Messer Ligdonio. Hai rascione. Ma non se pò star sempre in considerazione de parlar con chi non sa.

Panzana. Lasciamo andar, padrone. Sapete certo che Margarita abbi a uscir fuor di casa?

Messer Ligdonio. Como se io lo saccio? Credi che scesse fuora no paro mio a quest’ora, se non fosse lo vero?

Panzana. E che pensate di fare? volete forse mettervi a parlar con essa in mezzo della strada?

Messer Ligdonio. Si. Perché? È cosí gran male? Se usa, mò, lo accompagnare la dama per la via; e la fantesca se discosta parecchie passe perché pozza dicere lo fatto suo liberamente.

Panzana. Buona usanza, per Dio! Parti che questi innamorati faccino l’usanze a modo loro? Basta che dican «s’usa».

Messer Ligdonio. Ah! ah! ah! ah!

Panzana. Ve ne ridete? A fé, che, s’io fusse gentiluomo e avesse moglie, voi non me li stareste molto d’intorno. [p. 65 modifica]

Messer Ligdonio. Averissi el torto, perché so’ bono io.

Panzana. Buono? So che voi ne dovete avere all’anima quelle poche, io!

Messer Ligdonio. A punto io te iuro ca non credo aver posto al libro trenta cittadine o poco chiú.

Panzana. Trenta sestine! Io tirai e ne venne.

Messer Ligdonio. No se fanno le cose cusi facilmente corno te piense.

Panzana. Povere donne, in bocca di chi son venute! Ma ditemi, padrone: che dia voi le direte a Margarita, come voi la trovate?

Messer Ligdonio. Manca! Milli concetti boni nce sono da fare. Ma io piglieraggio lo soggetto de morderla.

Panzana. Come «morderla»? Questa è parola cagnesca.

Messer Ligdonio. Tu non me lassi finir de dicere. Dico ca investigaraggio, con quarche bella scusa, tassarla della soia rigidezza e crudeltá, con certe parole coperte che essa non intenda chello che io me boglia dicere.

Panzana. Sará buono. Oh! Io credo che gli dorrá.

Messer Ligdonio. Quisso sará lo soggetto. Ma le parole non l’aggio ancora pensate.

Panzana. E che state a fare? che, s’ella ha d’andare, non può indugiar molto.

Messer Ligdonio. Ancora non dice male. Voglio provarme le parole in bocca io stesso.

Panzana. Fate conto ch’io sia lei e parlate a me.

Messer Ligdonio. So’ contento. Ma sta’ zitto. Lassarne no poco pensarle.

Panzana. State, di grazia, a odire che paroloni che sputará adesso. Zi! zi! queti! sta’! Or la truova.

Messer Ligdonio. Audi, Panzana, se te piace. Noi aspettaremo Margarita, che non pò essere che non faccia chesta via. Como ce sará vicina a tre passi e miezzo, e io me le faraggio nante pallido e mal contento, come vòle Ovidio, e con debita riverenzia le diraggio cossi: «L’eterno Dio ve salvi...».

Panzana. Oh che principio da Sante Marie!

Commedie del Cinquecento - 11. 5 [p. 66 modifica]

Messer Ligdonio. Voltate a me, se vói che te dica.

«L’escelso Dio ve salvi, eterno core mio...».

Panzana. Oh! Gli volete parlare in versi?

Messer Ligdonio. Parete vierso quisso, pecora? Non pò essere chiú alto principio. Non m’enterrompere fino ca non aggio finito. «L’eterno Dio ve salvi, escelso mio core, et cetera. Se la mia sensitiva avesse unquanco de aggradevole eloquenzia, a mal grado de’ limati denti, le mie soventissime parole transeriano siempre nelle vostre bianchissime orecchie ancora che da lo verdeggiante cielo scennesse love e, diventato oro lustrantissimo, se n’andò de passo in passo en grembio della zuccarata sua Leda. Però, morbidissima Margarita, dovereste esser compresa da una particulella de compassione de me». Dixi.

Panzana. Oh! che venga el cancaro a la Fortuna che non mi fece studiare ancor me! Or conosco ch’io non ho lettere. Che maladetta sia quella parola ch’io n’entenda, di tutto quel che voi avete detto!

Messer Ligdonio. Pur, che te ne pare?

Panzana. Come volete ch’io sappi quel che me ne pare, s’io non n’entendo parte, parte, parte? Io dico, parte.

Messer Ligdonio. Fidati de me, ca le parole son bellissime. Tutto lo fatto sta che me staga a sentire.

Panzana. Si stará bene. E ho pensato un’altra buona cosa: che coteste parole né la fantesca ancora l’intenderá.

Messer Ligdonio. Dice lo vero, a fede. Ma sai, Panzana, chello che me ne piace chiú de queste parole?

Panzana. Come l’ho a sapere, s’io non l’entendo?

Messer Ligdonio. Multo me sonno compiaciuto quanno io dico «soventissime parole», che nei è dentro nu colore rettorico ca tu non lo pòi conoscere. Ancora quilla «inzuccarata Leda» me caccia l’anima, benché io non me recordo bene se fo Leda o Dafne; ma no importa: basta che fu una de quille dello tempo antico de’ romani.

Panzana. State fermo: ch’io veggo aprire l’uscio di Margarita. [p. 67 modifica]

Messer Ligdonio. Orsú! Io me voglio comprovare n’autra volta, piano, da me medesimo. «L’eterno Dio vi salvi...».

Panzana. Gli è essa, per Dio! A voi, a voi, a voi, padrone.

SCENA III

Margarita, Agnoletta, Messer Ligdonio, Panzana.

Margarita. Fa’ presto, Agnoletta.

Messer Ligdonio. Quanno essa serra vicina, méttete a no cantone, che non te vegga.

Panzana. Lassate pur far a me.

Messer Ligdonio. Oh! Sta molto alla porta sola.

Panzana. Padrone, fate a mio modo; andatela affrontar, ora che gli è sola, che potrete meglio dire el fatto vostro. E chi sa? Potrebbe ancor venirle voglia di tirarvi dentro nel ridotto.

Messer Ligdonio. Non parli male; ma non me arrisco.

Panzana. Oh! voi tremate! Bisogna far buon animo, qui.

Messer Ligdonio. In fine, lo boglio fare. «Audaces fortuna prodest». Fermate ca, tu. «L’eterno Dio ve salvi» et cetera. Eh! Io le saperò bene, si.

Panzana. Stiamo a udir quel che dirá. Oh che bella sberrettata! oh che sfoggiato inchino! Sii! che dirai? Zi! zi! zi!

Messer Ligdonio. L’eterno Dio, madonna, Giove del cielo le soventissime lagrime sopra vostra beltade o bellezza, per dicer meglio. Vostra Signoria me ave fatto fra l’eloquenzia de’ concetti... Oh Dio! Non mi ricordo. Volete annare allo monistero?

Panzana. Ah! ah! ah! ah! ah!

Margarita. Che anfanate voi? Andate a fare i fatti vostri. Mi parete un manigoldo, vecchio briccone!

Messer Ligdonio. Perdonatime: me burlava. Venga lo cancaro! Non m’è rinzuta niente bona.

Panzana. Ah! ah! ah! Ora sfamatevi, donne, de’ vostri poeti, di questi bellacci. Eccovi le riuscite che fanno! Ho caro dieci scudi che abbiate visto co’ vostri occhi le pruove valenti [p. 68 modifica]che san fare. Tutto M di, quanchi, barzellette e bordelli; e poi, al bisogno, si cacan sotto.

Messer Ligdonio. Oh Dio! Fice arrore, ca dovea scrivere quisse parole in casa e impararele alla mente ad ver bum. Allo manco non m’avesse visto lo Panzana!

Margarita. Spacciati, Agnoletta.

Panzana. Basta che, tutto ’l giorno, fanno il bello in piazza, stringati, puliti, cantepolando su per i murelli e sospirando con qualche bel motto alla spagnuola: — Ay, seTiora, que me matais. — Fanno un giocarello a una veglia, sputando certi bei trattarelli, come sarebbe: — La vostra ingratitudinissima mi fa morire; — Voi séte piú bella de l’alto Dio; — Mi raccomando alla vostra bellezza. — Mi raccomando alla vostra castronagine, buacci, pasce-bietole che voi séte! Non ve ne fidate mai, donne, di quelli che scompuzzan tutta una veglia e fanno lo squartatore delle donne in presenzia delle brigate; che, a solo a solo, vi faranno di queste pruo ve che avete visto. E se si vantano, poi, Dio ve lo dica lui! Appiccatevi a queste acque quete che fan l’intronato; che, alla segreta, poi, vi riusciran cavallieri dalla spada sguainata. E lassate andar al bordel questi parabolani.

Ma lassami far motto al padrone.

Messer Ligdonio. Che fai, Panzana, ch?

Panzana. Mi stavo qua trattenendo a guardar queste donne.

Messer Ligdonio. Oh! Perché? che fanno?

Panzana. Che volete che le faccino? Si lassan guardare.

Messer Ligdonio. Hai sentito come è suta la cosa?

Panzana. Come volete ch’io abbi sentito, se voi mi diceste ch’io non sentisse?

Margarita. Che fai, Agnoletta? Par che tu l’abbi a fare, Gesú !

Agnoletta. Non trovavo la chiave del forziere dov’era ’l presente. Ma i’I’ho pur trovata; e ne vengo, ora.

Panzana. Come è andata, padrone?

Messer Ligdonio. Benissimo quanto dicere se pozza. E non passerá molto tempo... saccio ben io.

Panzana. Dissivi che gli eran vantatori? Mi piace!

Agnoletta. Eccomi, Margarita. [p. 69 modifica]

Margarita. Pur ne venisti. Mostra un poco. Orsú! Sta bene. Andiamo.

Panzana. Padrone, ecco Margarita che viene.

Messer Ligdonio. Partimoci da ca, ca pareria prosunzione.

Panzana. Voi séte molto arrossito.

Messer Ligdonio. Voltamo, voltamo da ca.

SCENA IV

Margarita, Agnoletta.

Margarita. Sai, Agnoletta, quel che mi intervenne mentre che tu tardavi a venir da basso?

Agnoletta. Che cosa?

Margarita. Mi stavo cosi, in su la porta, per aspettarti; e un vecchiaccio prosuntuoso mi s’accostò per parlarmi.

Agnoletta. E che vi disse?

Margarita. Io non ne intesi mai parola: né ci ponevo cura, che sai ch’io tengo l’animo altrove; ma, presto presto, me lo levai dinanzi.

Agnoletta. E chi era?

Margarita. Sia chi si vuole, lassiam andare. Parliam di quel che importa piú. Non so, Agnoletta, se tu ti ricordi a ponto delle parole che io ti ho detto che hai da dire al mio caro messer Giannino quando gli darai el presente.

Agnoletta. L’arò a mente benissimo.

Margarita. Abbi avertenzia che, se per buona sorte ti mostrasse niente miglior viso del solito, di non lassar passar la occasione e di raccomandarmegli con quel piú destro modo che saprai fare: che non te ne posso dar norma a questo; ma basta che le tue parole sieno tutte testimonio della mia passione e della mia fede. E tutto sia se viene il commodo di farlo senza carico dell’onor mio.

Agnoletta. Arò bene avertenzia a ogni cosa; e, se buona occasion viene, non dubitate poi ch’io non sappi dire el vostro bisogno. [p. 70 modifica]

Margarita. E di tutto quel che farai torna subito a rendermene risposta al monistero: che, fin ch’io non so come la cosa sará passata, non sará ben di me.

Agnoletta. Cosí farò.

Margarita. Dch! Agnoletta, sorellina, ti prego, ti supplico che tu ponga tutto il tuo animo a questa cosa.

Agnoletta. O voi avete fede in me o no. Pensatevi che mi sta piú a cuore il vedervi in queste passioni che se fusseno in me propria.

Margarita. Se tu hai mai provato, so che tu mi hai compassione.

Agnoletta. Come «provato»? Io ho aúti piú guasti, a’ miei di, che voi non avete mesi.

Margarita. Ed io non ne arò mai se non uno. Né pensi mai mio padre che io abbia a esser di altro uomo, se io non son di costui.

Agnoletta. Io, per me, non ho auto guasto mai ch’io non l’abbi fatto contento alla bella prima.

Margarita. Di far questo io mi curo poco. A me bastarebbe che mi vedesse volentieri come io veggo lui, avermelo appresso, baciarmelo, trammenarmelo sola sola io, vagheggiarmelo e godermelo con gli occhi, con le orecchie e con tutti i sensi e, sopra tutto, poter farli palese quanto io l’amo; perché di tutto el mio male son certa che n’è cagione che el non mi crede.

Agnoletta. Mi par che mi dica l’animo che riceverá oggi questo presente e che mi ascolterá con miglior cera che non suole.

Margarita. Buon per te. Oh quanto mi hanno a parer longhi e saper malagevoli questi pochi di che io ho a starmi nel munistero! che non arò quella poca di recreazione che io piglio di vederlo passar qualche volta da casa, la sera. Pensieri profondissimi e sospiri son certa che non mi mancaranno. Ma vede almanco, in questo tempo, tutto el giorno venire a starti alle grate da me: perché tu puoi pensare che la conversazion di queste monache non è il mio bisogno; che altro tengo [p. 71 modifica]nell’animo che altarucci, orticelli, gattucci o simil frasche che elle hanno sempre nel capo.

Agnoletta. Voi ne séte mal informata. Gattucci con sonagli, si; ma non son soriani. E ne sanno piú, oggidí, le monache de le cose del mondo e d’amore che altra generazione. E non ci sarete stata due giorni che voi scoprirete maccatelle dei casi loro che vi faran trasecolare. In buona fé, che, se questi padri fusser informati delle cose stupende che ho visto io di questa generazion del diavolo, che stetti una volta due anni in un monistero, in buona fé, che le mandarebbon piú voluntieri... appresso ch’io noi dissi. Rabbia di monache? Va’ lá!

Margarita. Tal sia di loro.

Agnoletta. Orsú! Padrona, ecco che noi siamo ormai al munistero.

Margarita. Oh Dio! quanto mi duole d’avere a rimaner senza te! Pur m’importa piú che tu non perda tempo. Io mi farò metter dentro da me, che ci son stata piú volte e so d’onde s’entra. E tu, mentre, andarai a far quanto io t’ho detto. Mostra un poco, ch’io vegga se vi è drento ogni cosa.

Agnoletta. Eh! non toccate, che staremo poi troppo a racconciarlo. Vi fo certa io che ci ho visto dentro quattro camisce, vinti fazzoletti e dieci trincianti.

Margarita. Basta, dunque. Or tu hai inteso, Agnoletta: io non ti dirò piú; tu sai quel che tu hai da fare.

Agnoletta. Io ho a mente ogni cosa. Volete altro?

Margarita. Non altro se non che tu ci metta tutta la tua diligenzia.

Agnoletta. Non bisogna che me lo diciate piú. Addio.

Margarita. Or va’. E subito torna qui, come t’ho detto.

Agnoletta. Tanto farò.

Margarita. Odi. Vedi di pigliare il tempo commodo e d’avere avertenzia che non ci sia nessuno.

Agnoletta. Si, si, v’intendo.

Margarita. Sai, Agnoletta?

Agnoletta. Che volete?

Margarita. Eh! sorella cara, mi ti raccomando.

Agnoletta. Non dubitate. Uh! uh! uh! [p. 72 modifica]

SCENA V

Agnoletta sola.

Io vi so dir che, quando a una di queste cittadine gli entra una cosa nella testa, che ne vuol vedere quel che n’ha da essere. Parvi che l’abbia la smania, la poveretta? Mai parlo con essa che non me ne facci venire una vogliarella ancor a me. Oh! Se voi vedeste questo presente, vi parrebbe bello. Solamente i lavori gli costan di molti ducati. Dubito che messer Giannino non lo vorrá accettare, com’egli ha fatto sempre degli altri, bench’io abbia dato speranza a lei del contrario. Io non so dove costui se la fondi. Vorrá riceverne a tempo, de’ presenti, che si grattará gli occhi. Lassami bussar la porta.

SCENA VI

Agnoletta, Cornacchia.

Agnoletta. Tic toc, tic toc, toc, tic toc.

Cornacchia. Chi diavol bussa si forte?

Agnoletta. Apre.

Cornacchia. Oh! Se’ tu, scimiarella? Non ci è messer Giannino, ch’io so che tu vuoi lui.

Agnoletta. E dov’è?

Cornacchia. Non gliel vo’ dire, che io so che non la vede volentieri. Che diavol ne so io? So che in casa non eie nessuno.

Agnoletta. Non ci è nessuno? Dunque sei solo?

Cornacchia. Solo, solissimo. Perché? Vuoi niente?

Agnoletta. Si. Apre.

Cornacchia. Che vuoi?

Agnoletta. Voglio una cosa.

Cornacchia. Dimmela di costi.

Agnoletta. Non si può dir dalla finestra. [p. 73 modifica]

Cornacchia. Ah! ah! ah! T’intendo, per Dio! Tu vorresti fare, un tratto, la criniformia, ch?

Agnoletta. Eh! tu se’ ’l bel frasca! Apre, se tu vuoi aprire.

Cornacchia. Dimmi se tu vuoi questo.

Agnoletta. Tel dirò poi.

Cornacchia. Dimmel ora.

Agnoletta. Si. Orsú! Or, apre.

Cornacchia. Non ci è verso.

Agnoletta. Perché ?

Cornacchia. Perché non si può.

Agnoletta. O perché non si può?

Cornacchia. Perché non ci ho niente in ponto la fantasia.

Agnoletta. Se non ci è altro che questo, lassane il pensiero a me. So far muine dell’altro mondo.

Cornacchia. La vo’ far un poco rinegare Dio. In fine, perdonami:

io non ti voglio aprire.

Agnoletta. Apremi, di grazia, el mio Cornacchia. S’è partito. Ha imparato, questo furfante, a esser crudel da messer Giannino. Mi vien voglia di far quel conto di lui che lui fa di me. Ma, in fine, m’ha còlto troppo in sul bisogno. Tic toc, tic toc.

Cornacchia. Eh! Vatti con Dio; non ti fare scorger nella strada. Non vedi che io non ti voglio aprire?

Agnoletta. Uh Dio! a che so’ condotta! Eh! Apremi, el mio Cornacchino dolce, di sapa, di mèle, di rose, di fiori melati.

Cornacchia. Non bisogna farmi piú muine, che tu t’aggiri.

Agnoletta. Mi perderei el tempo tutto di. Sará buon che io me ne vada.

Cornacchia. Sará buon ch’io non la lassi partire, che m’ha aguzzato l’appetito ancor a me. Ove vai, Agnolettina? Vieni, che mi giambavo. Non sai che tu sei la mia speranzuccia?

Agnoletta. Ho voglia or di non voler io.

Cornacchia. Orsú, la mia Agnoletta! Aspettami, che vengo a aprire.

Agnoletta. Oh! Io credo che io arò el buon tempicciuolo, per un poco.

Cornacchia. Or entra. [p. 74 modifica]

Agnoletta. Oh! ’l mio Cornacchion dolce, dell’oro, amor mio, camiciuola mia!

Cornacchia. Lassami chiuder la porta.

SCENA VII

Lucia serva di Guglielmo sola.

Non è maraviglia che questa Lucrezia gli faceva tante carezzine. Tutto ’l di: — Lorenzino, vien oltre; — Lorenzino, ode un poco. — Mai ci era altre facende che questo Lorenzino. «Sempre non ride la moglie del ladro». Vi vo’ contare a voi uomini: acciò che voi sappiate le maccatelle di queste cittadine che ci voglian tór le nostre ragioni a noi fantesche; perché i garzoni doverebbon di ragione esser nostri, non loro, l’engorde che sono! Udite un poco che cosaccia! Come noi abbiamo desinato, poco fa, volendo io andare da basso nella camera del pane per ripor sotto ’l saccone certo cacio ch’io volevo donare a Marchetto, sento, innanzi ch’io entri, un rimenio, un bisbiglio, il maggior del mondo. Acconcio l’orecchie alla porta e sento ch’egli è Lorenzino e Lucrezia che facevano un fracasso in su quel letto che pareva che lo volessero buttar a terra. Io. che di cotal cose mi son sempre dilettata, non solamente di farle ma d’udirle ancora, mi recai con l’orecchie attentissime per non perderne niente. E parsemi sentire, doppo che fu passata la furia, che si dicevano certe paroline e si facevano certe carezzuole da fare allegare i denti a un morto; e, all’ultimo, concludevano che volevano stanotte amazzare Guglielmo e andarsi con Dio. Quand’io sentii questo, rastia, sorella! E corro a Guglielmo e gli racconto ogni cosa. Come el padron senti questo, diventò bianco morto come una cenere; e subbito, acciò che non scappassero, serrò di fuora la porta della camera con una stanga e, fulminando come un aspide, chiamò presto certi vicini qui di drieto; e, mancato per ferri e manette, subito, legato Lorenzino e Lucrezia, li racchiuse in cantina: che piangevano e si raccomandavano come Dio sa fare e confessorono tutto l’inganno che gli aveano [p. 75 modifica]ordinato. E, per quanto io pensi, dubito che gli vorrá fare amazzare o stanotte o domane; perché mi manda con furia a San Domenico a menar fra Cherubino e, per non esser visti, vuol ch’io lo facci entrar da la porta di drieto. Certo, li vorrá far morire: veggo ben io la còllora che egli ha. Mai l’arei creduto, questo, di Lucrezia. Sai che non pareva una santa Anfrosina? Tutto ’l di paternostri, leggende e orazioncelle. Se tu gli avesse parlato, un tratto, una paroluzza d’amore o di simil cosa, guarda la gamba! Mai piú non me ne fidarei di queste strappa-santi. «Acque quete? Fan le cose e stansi chete». Va’ lá! va’ lá! Ma ecco Marchetto che viene in qua salticchiando.

SCENA VIII

Marchetto, Lucia.

Marchetto. Tarara, tarara, tarantera, cancar venga a mona Piera!

Lucia. Tu vai galluzzando, Marchetto, ch? E in casa si fa altro.

Marchetto. Addio, Lucia bella, galantissima.

Lucia. Tu ridi; e in casa si piagne.

Marchetto. Come «si piagne»? che male nuove ci sono?

Lucia. Tutta la casa è piena di romori, di confusione e di piagnisteri.

Marchetto. Vuoi la burla, si?

Lucia. Cosí fuss’io dell’imperadore!

Marchetto. Dimmi, di grazia: che ci è di nuovo?

Lucia. Male, per qualcuno.

Marchetto. Oh! Dimmel presto; non mi far piú stentare.

Lucia. Questo poltron di Lorenzino...

Marchetto. Certo la cosa s’è scoperta. Dimmi: ha saputo Guglielmo che Lorenzin portava e’ polli a Lucrezia per messer Giannino, ch?

Lucia. E ben portava. Se tu dicevi «mangiava», l’avevi còlta. [p. 76 modifica]

Marchetto. Come «mangiava»? Di’ presto, di grazia, come la cosa sta.

Lucia. Ha visto co’ suoi occhi propri Guglielmo che Lorenzino e Lucrezia ruzzavano insieme.

Marchetto. Può fare Dio!... E ’l ruzzare era grave?

Lucia. Io non so se l’ha ingravedata; ma imbeccata l’ha, lui.

Marchetto. Ahi traditore! Parti che messer Giannino se lo indovinasse? Or conosch’io quel che volevan dir tante carezze. Ehi madonna Lucrezia! Sai che non pareva una santa? Ma che fece Guglielmo?

Lucia. Arrabbiava com’un cane, el povero vecchio. Subito gli fece metter i ferri a’ piedi e le manette alle mani e richiuseli in cantina.

Marchetto. E chi l’aiutò a far questo?

Lucia. Fece chiamar Georgico e Pollonio che stanno in casa di messer Benedetto.

Marchetto. Oh quanto ho caro che questo cacaloro di Lorenzino non stará forse piú in casa!

Lucia. Né nel mondo non stará piú, credo io.

Marchetto. Perché? vuoilo forse amazzare?

Lucia. Dubito ch’egli amazzará l’uno e l’altro, io.

Marchetto. Che ne sai?

Lucia. Ne so, che mi manda per fra Cherubino. E non può volerne fare altro se non farli confessare.

Marchetto. Oh! Dio ’l volesse! Ma di Lucrezia, in vero, me ne sa male.

Lucia. Lassala andar questa cedroletta, che poteva innamorarsi di cinquanta giovani in questa terra e lassare stare i garzoni. E tu dove sei stato?

Marchetto. Mi mandò il padrone, mentre che gli era a tavola, a portare una lettera a maestro Guicciardo.

Lucia. Sai? T’ho serbato per disinare certe buone cose. Com’io torno, te le darò; ch’io voglio andare a trovare il frate.

Marchetto. Or va’.

Lucia. Addio, el mio Marchetto. Sai ben quant’è che noi non ci siam riveduti. [p. 77 modifica]Marchetto. Guarda pur che quei fratacci porci imbrodolati non ti riveghin loro.

Lucia. Mio danno, s’io non ne riveggo il mio conto.

SCENA IX

Marchetto solo.

In fine, e’ non ci è ordine: le pere buone cascono in bocca ai porci. Non vai la sua vita un pane, di questo sciagurato; e èssi goduta la miglior robicciuola di questa terra, soda, pastosina, che vale un mondo. Oh Dio! quanto mi sarebbe saputa buona ancora a me! Ma chi l’arebbe mai pensato? Io mi tenevo per certo che costei fusse una certa lassami-stare da non pensar mai di averne onore. Ma, insomma, bisogna risolverla. Alle donne piace questo giuoco. Ma la cosa è qui. Che fo? vo a dir questa cosa a messer Giannino o pur mi sto senza dirglielo? Gli è meglio ch’io gliel dica: perché riparar non ci può; e, s’io non gliel dicesse, si potrebbe poi doler di me e vorrebbemene sempre male. Vo’ veder se gli è in casa.

SCENA X

Marchetto, Cornacchia, Agnoletta.

Marchetto. Tic toc, tic toc, tic toc, tic toc. Olá ! Oh! Diavol, non ci è nessuno? So ch’io mi farò sentire, io. Tic, toc, tic.

Cornacchia. Chi è lá? chi è lá? Potta di san Frasconio! Vuoi mandare in terra quella porta?

Agnoletta. Eh! Non gli risponder. Bada qui.

Marchetto. Dov’è messer Giannino?

Cornacchia. Non è in casa.

Marchetto. O dov’è?

Cornacchia. Non lo so, io. [p. 78 modifica]

Agnoletta. Lassai dire, amor mio. Uimene!

Marchetto. Eh! Dimmelo, che son Marchetto che gli vo’ dire una cosa che importa.

Cornacchia. Dch! Lassami stare un poco, Marchetto, di grazia.

Marchetto. Oh!... che importa assaissimo, dico.

Cornacchia. Or, or, ora: aspetta un poco.

Agnoletta. Leva questa gamba di qui. Orsú! orsú!

Marchetto. Che diavol fa costui? Mi par sentir gente con esso.

Cornacchia. Oh! orsú! Che vuoi, ora, Marchetto? Cancaro ti venga!

Marchetto. Che tu mi dica dove gli è messer Giannino.

Cornacchia. Va’ alla butiga di Guido orafo, che ve lo trovami.

Marchetto. Certo?

Cornacchia. Certissimo. Sta’ sopra di me.

Marchetto. Pigliare la via di qua, che sará piú corta.

SCENA XI

Guglielmo vecchio solo.

Questi sono i ristori di tante mie disaventure? queste sono le consolazioni della mia vecchiezza? a questo son io vissuto tanto tempo? per veder, ogni giorno, cose che mi dispiacciono? Misero, disgraziato Pedrantonio! Ahi Lucrezia! quanto contrario cambio hai reso di quel ch’io m’aspettavo all’affezion paterna ch’io t’ho sempre portata! Non meritavan giá questo le carezze che sempre t’ho fatte. Da ogni altra l’arei creduto piú presto che da te, la qual con tanta osservanzia mi venivi innanzi. Ahi iniqua! Come t’è caduto nell’animo tanta impietá, prima, di vituperarmi (perché, se ben tu non mi sei figlia, si sa pubicamente ch’io ti tenevo da figlia) e, dipoi, con tanta ingratitudine consentire alla morte mia? In fine, il mondo è guasto. E chi [p. 79 modifica]arebbe mai imaginato che, sotto quelle santimonie, sotto tante religiose parole che l’aveva sempre in bocca, fusse stato nascosto tanto veleno? Al mio tempo, giá, una giovene donzella non averebbe avuta mai tanta malizia. E mio danno sará, s’io non glie ne fo patir le pene. Io so che non potranno scappare. Voglio andarmene a Gregorio speziale, che mi faccia una bevanda che, fra poche ore, bevuta che Faranno, faccia l’effetto: che, per esser mio amicissimo, so che terrá la cosa segreta; che non vorrei per niente che venisse a l’orecchie del commissario. E questo medesimo mi servirá ch’io non intrigarò le mani nel sangue. E, insomma, perdonar non glie la voglio. E giá, in questo mezzo, Lucia ara fatto venir fra Cherubino mio confessore, che non voglio per cosa nessuna che muoino senza confessione. E tanto piú che non ci è pericolo ch’egli discoprisse la cosa; che giá so io quanto stimi di farmi piacere. Pigliarò la via di qua.