Istoria del Concilio tridentino/Libro secondo/Capitolo I
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CAPITOLO I
(settembre 1544-novembre 1545).
[Pace di Crespy tra Francesco I e Carlo V. — Il papa indice il concilio per prevenire la dieta imperiale. — Malcontento di Carlo V, che però consiglia ai religiosi di recarsi a Trento, come anche il re di Francia. — I tre legati papali. — Il cardinale Farnese è inviato a trattare con Carlo V, che deve recarsi alla dieta. — Bolle dei poteri concessi ai legati nel concilio. — Arrivo a Trento degli oratori di Carlo V e di re Ferdinando I. — Questi annuncia il concilio alla dieta di Worms. — Opposizione dei protestanti. — Norme da Roma sull’apertura del concilio. — Questioni di precedenza. — Difficoltá sulla rappresentanza del regno di Napoli. — Divieto papale che i prelati si facciano rappresentare. — Preparativi del concilio. — Persecuzione dei valdesi. — Il cardinale Farnese insiste presso Carlo V perché faciliti l’opera del concilio e s’opponga anche con la forza ai protestanti. — Giungono in Trento i procuratori dell’elettore di Magonza. — Risorgono le difficoltá della procura. — Aiuti pecuniari ai vescovi in Trento, in attesa che il concilio inizi i lavori. — L’elettore arcivescovo di Colonia è citato dall’imperatore a Worms: malcontento a Roma ed a Trento per simile intromissione in materia religiosa. — Vani sforzi di Carlo V per attrarre i protestanti al concilio. — Sciolta la dieta di Worms, egli ne preannunzia un’altra a Ratisbona per trattare di religione. — Malumore a Roma e a Trento: molti prelati partono. — Il papa pensa ad una traslazione del concilio. — Il ducato di Parma e Piacenza a Pier Luigi Farnese. — Proposta di sospensione del concilio durante la dieta, purché questa non tratti di religione. — Incerto contegno dell’imperatore. — Si fissa pel dicembre l’inizio dei lavori in concilio.]
La guerra tra l’imperatore e il re di Francia non durò lungamente, perché Cesare conobbe chiaro che, restando egli in quella implicato, e il fratello in quella contra turchi, la Germania s’avanzava tanto nella libertá, che in breve manco il nome imperiale sarebbe stato riconosciuto; e che egli, facendo guerra in Francia, imitava il cane di Esopo, che seguendo l’ombra perdette e quella e il corpo; onde diede orecchie alle proposte de’ francesi per fare la pace, con disegno non solo di liberarsi da quell’impedimento, ma anco col mezzo del re accomodare le cose con turchi e attendere alla Germania. Per il che a’ 24 di settembre in Crespino fu conclusa tra loro la pace, nella quale, tra le altre cose, l’uno e l’altro principe capitularono di defendere l’antica religione, di adoperarsi per l’unione della Chiesa e per la reforma della corte romana, onde derivavano tutte le dissessioni; e che a questo effetto fosse unitamente richiesto il papa a congregar il concilio, e dal re di Francia fosse mandato alla dieta di Germania a far ufficio con li protestanti che l’accettassero. Il pontefice non si spaventò per il capitolo del concilio e di reformare la corte, tenendo per fermo che, quando avessero posto mano a quell’impresa, non averebbono potuto longamente restare concordi per li diversi e contrari interessi loro; e non dubitava che, dovendosi esequir il disegno per mezzo del concilio, egli non avesse fatto cadere ogni trattazione in modo che l’autoritá sua si fosse amplificata: ma bene giudicò che quando avesse convocato il concilio alla richiesta loro, sarebbe stato riputato che l’avesse fatto costretto, che sarebbe stato con molta diminuzione della sua riputazione e accrescimento d’animo a chi disegnava moderazione dell’autoritá pontificia. Per il che non aspettando d’essere da alcuno di loro prevenuto, e dissimulate le sospicioni contra l’imperatore concepite, e le piú importanti che li rendeva la pace fatta senza suo intervento con capitoli pregiudiciali alla sua autoritá, mandò fuori una bolla, nella quale, invitando tutta la Chiesa a rallegrarsi della pace per la quale era levato l’unico impedimento al concilio, lo stabilí di novo in Trento, ordinando il principio per li 15 di marzo.
Vedeva il termine angusto e insufficiente a mandare la notizia per tutto, nonché a lasciare spacio alli prelati di mettersi in ordine e far il viaggio; reputò nondimeno che fosse vantaggio suo che, se pur s’aveva da celebrare, s’incominciasse con pochi, e quelli italiani, cortegiani e suoi dependenti, li quali sarebbono stati li primi, cosí sollecitati da lui, dovendosi nel principio trattare del modo come proceder in concilio, che è il principale, anzi il tutto per conservare l’autoritá pontificia; alla determinazione de’ quali sarebbono costretti stare quelli che alla giornata fossero sopraggionti: né essere maraviglia che un concilio generale s’incominci con pochi, perché nel pisano e constanziense cosí occorse, i quali ebbero però felice progresso. E avendo penetrata la vera causa della pace, scrisse all’imperatore che in servizio suo aveva prevenuto e usato celeritá nell’intimazione del concilio. Imperocché, sapendo come Sua Maestá per la necessitá della guerra francese era stata costretta permettere e promettere molte cose alli protestanti, con la intimazione del concilio gli aveva dato modo di escusarsi, nella dieta che si doveva fare al settembre, se, instante il concilio, non effettuava quello che aveva promesso concedere sino alla celebrazione di quello.
Ma la prestezza del pontefice non piacque all’imperatore, né la ragione resa lo sodisfece: averebbe egli voluto per sua riputazione, per far accettare piú facilmente il concilio alla Germania e per molti altri rispetti, essere causa principale; nondimeno, non potendo altro fare, usò però tutti quei termini che lo potessero mostrare lui autore e il papa aderente. Mandò ambasciatori a tutti li principi a significare l’intimazione e pregarli mandare ambasciatori per onorare quel consesso e confermare li decreti che vi si farebbono. E attendeva a far seria preparazione, come se l’impresa fosse stata sua. Diede diversi ordini alli prelati di Spagna e dei Paesi Bassi, e ordinò fra le altre cose che li teologi di Lovanio si congregassero insieme per considerare li dogmi che si dovevano proporre; li quali ridussero a trentadue capi, senza però confirmargli con alcun luoco delle sacre lettere, ma esplicando magistralmente la sola conclusione: li qual capi furono dopo confirmati con l’editto di Cesare e divulgati con precetto che da tutti fossero tenuti e seguiti. E non occultò l’imperatore il disgusto concepito contra il pontefice, in parole al noncio dette, cosí in quell’occasione come [in] altre audienze; anzi avendo al decembre il papa creati tredici cardinali, tra’ quali tre spagnoli, gli proibí l’accettar le insegne e l’usare il nome e l’abito.
Il re di Francia ancora fece convenire li teologi parigini a Melun, per consultare delti dogmi necessari alla fede cristiana che si dovevano proponer in concilio: dove vi fu molta contenzione, volendo alcuni che si proponesse la confirmazione delle cose stabilite in Constanza e in Basilea, e il restabilimento della pragmatica; e altri, dubitando che per ciò il re dovesse restar offeso per la destruzione che ne seguiva del concordato fatto da lui con Leone, consegliavano di non metter a campo questa disputa. E appresso, perché in quella scola sono varie opinioni anco nella materia de’ sacramenti, a’ quali alcuni danno virtú effettiva ministeriale e altri no, e desiderando ognuno che la sua fosse articolo di fede, non si potè concludere altro se non che si restasse pelli venticinque capi pubblicati due anni inanzi.
Ma il pontefice, significato al re di Francia il poco buon animo dell’imperatore verso lui, lo richiese che per sostentamento della sede apostolica mandasse quanto prima suoi ambasciatori al concilio, e al noncio suo appresso l’imperatore commise che, stando attento a tutte le occasioni, quando da’ protestanti gli fusse dato qualche disgusto, gli offerisse ogni assistenza del pontefice per ricuperare l’autoritá cesarea con aiuti spirituali e temporali. Di che avendo il noncio pur troppo spesso avuto occasione, operò sí che Cesare, comprendendo di poter avere bisogno del papa nell’un e altro modo, remise la durezza, e ne diede segno concedendo alli novi cardinali di assumer il nome e l’insegne, e al noncio dava audienze piú grate e con lui conferiva delle cose di Germania piú del solito.
Fu grande la fretta del pontefice non solo a convocar il concilio, ma anco ad ispedire li legati; li quali non volle, si come alcun consegliava, che per degnitá mandassero prima qualche sostituto a ricevere li primi prelati, per fare poi essi entrata con incontri e ceremonie, ma che fossero li primi e giongessero inanzi il tempo. Deputò per legati Giovanni Maria di Monte, vescovo cardinale di Palestrina, Marcello Cervino, prete di Santa Croce, e Reginaldo Polo, diacono di Santa Maria in Cosmedin: in questo elesse la nobiltá del sangue e l’opinione di pietá che comunemente si aveva di lui, e l’esser inglese, a fine di mostrare che non tutta Inghilterra fosse rebelle; in Marcello la costanza e perseveranza immobile e intrepida insieme con esquisita cognizione; nel Monte la realtá e mente aperta, congionta con tal fedeltá alli patroni, che non poteva [non] preporre li interessi di quelli alla propria conscienzia. Questi spedí con un breve della legazione; e non diede loro, come si costuma a legati, la bolla della facoltá, né meno secreta instruzione, non ben certo ancora che commissioni darli, pensando di governarsi secondo che li successi e gli andamenti dell’imperatore consegnassero; ma con quel solo breve li fece partire.
Ma oltre il pensiero che il papa metteva allora alle cose di Trento, versava nell’animo suo un altro di non minor momento intorno la dieta che si doveva tenir in Vormazia, alla quale si credeva che l’imperatore non interverrebbe; temendo il papa che Cesare, irritato dalla lettera scrittagli, non facesse sotto mano fare qualche decreto di maggior pregiudicio alle cose sue che li passati, o vero almeno non lo permettesse: per questo giudicava necessario aver un ministro di autoritá e riputazione con titolo di legato in quel luogo; ma era in gran dubbio di non ricever per quella via affronto, quando dalla dieta non fosse ricevuto con l’onore debito. Trovò temperamento di mandar il Cardinal Farnese suo nepote all’imperatore, e farlo passar per Vormazia, e quivi dare gli ordini alli cattolici; e fatti gli uffici opportuni, passar inanzi verso l’imperatore; e fra tanto mandare Fabio Mignanello da Siena, vescovo di Grosseto, per noncio residente appresso il re de’ romani, con ordine di seguirlo alla dieta.
Poi applicando l’animo a Trento, fece dar principio a consultare il tenor delle facoltá che si dovevano dare alli legati; il che ebbe un poco di difficoltá, per non avere esempi da seguire. Imperocché al lateranense precedente era intervenuto il pontefice in persona; inanzi quello, al fiorentino parimente intervenne Eugenio IV; il constanziense, dove fu levato il scisma, ebbe il suo principio con la presenza di Giovanni XXIII, uno delli tre papi dismessi, e il fine con la presenzia di Martino V. Inanzi di quello, il pisano fu prima congregato da cardinali e finito da Alessandro V. In tempi ancora piú inanzi, al viennese fu presente Clemente V; alli doi concili di Lione Innocenzio IV e Gregorio X; e inanzi questi al lateranense Innocenzio III. Solo il concilio basiliense, in quel tempo che stette sotto l’obedienzia d’Eugenio IV, fu celebrato con presenzia de legati. Ma imitare qualsivoglia delle cose in quello osservate era cosa di troppo cattivo presagio. Si venne in resoluzione di formare la bolla con questa clausola, che li mandava come angeli di pace al concilio intimato per l’inanzi da lui in Trento; ed esso gli dava piena e libera autoritá, acciocché per mancamento di quella la celebrazione e continuazione non potesse essere ritardata, con facoltá di presedervi e ordinar qualunque decreti e statuti, e pubblicarli nelle sessioni, secondo il costume; proponere, concludere ed esequire tutto quello che fosse necessario per condannar ed estirpar da tutte le provincie e regni gli errori; conoscere, udire, decidere e determinare nelle cause di eresia e qualunque altre concernenti la fede cattolica; reformar lo stato della santa Chiesa in tutti li suoi membri, cosí ecclesiastici come secolari, e metter pace tra li principi cristiani, e determinar ogni altra cosa che sia ad onor di Dio e aumento della fede cristiana; con autoritá di raffrenare con censure e pene ecclesiastiche qualonque contradittori e rebelli d’ogni stato e preminenza, ancora ornati di dignitá pontificale o vero regale, e di fare ogn’altra cosa necessaria e opportuna per estirpazione dell’eresie ed errori, reduzione delli populi alienati dall’obedienza della sede apostolica, conservazione e redintegrazione della libertá ecclesiastica: con questo però, che in tutte le cose procedessero col consenso del concilio.
E considerando il papa non meno ad inviar il concilio, che ai modi di dissolverlo quando fosse incominciato, se il suo servizio avesse cosí ricercato, per provvedersi a buon’ora, seguendo l’esempio di Martino V (il quale, temendo di quei incontri che avvennero a Giovanni XXIII in Constanza, mandando li nonci al concilio di Pavia, li diede un particolar breve con autoritá di prolongarlo, dissolverlo e transferirlo dovunque fosse loro piaciuto, arcano per attraversare ogni deliberazione contraria alli rispetti di Roma), pochi dí dopo fece un’altra bolla, dando facoltá alli legati di transferir il concilio. Questa fu data sotto il 22 febbraro dell’istesso anno; della quale dovendo di sotto parlare quando si dirá della transazione a Bologna, si differirá sino allora quel tutto che sopra ciò si ha da dire.
Il 13 marzo gionsero in Trento il Cardinal del Monte e il Cardinal Santa Croce. Raccolti dal Cardinal di Trento, fecero entrata pubblica in quel giorno, e concessero tre anni e altrettante quarantene d’indulgenzia a quelli che si ritrovarono presenti, se bene non avevano quest’autoritá dal papa, ma con speranza che egli ratificarebbe il fatto. Non trovarono prelato alcuno venuto, se ben il pontefice aveva fatto partire da Roma alcuni, acciò si ritrovassero lá al tempo prefisso.
La prima cosa che li legati fecero fu considerare la continenzia della bolla delle facoltá dategli, e deliberarono tenerla occulta; e avvisarono a Roma che la condizione di procedere con consenso del concilio li teneva troppo legati e li rendeva pari ad ogni minimo prelato, e averebbe difficoltato grandemente il governo, quando avesse bisognato comunicar ogni particolare a tutti, aggiongendo anco ch’era un dare troppa libertá, anzi licenza alla moltitudine. Fu conosciuto in Roma che le ragioni erano buone, e la bolla fu corretta secondo l’avviso, concedendo l’autoritá assoluta. Ma li legati, mentre aspettavano risposta, disegnarono nella chiesa cattedrale il luogo della sessione capace di quattrocento persone.
Dieci giorni dopo li legati, gionse a Trento don Diego Mendoza, ambasciator cesareo appresso la repubblica di Venezia, per intervenir al concilio, con amplissimo mandato dato alli 20 febbraro di Brussellesi e fu ricevuto dalli legati con l’assistenza del Cardinal Madruccio e di tre vescovi, che tanti sino allora erano arrivati; quali per essere stati primi, è bene non tralasciar li nomi loro. E furono: Tomaso Campegio, vescovo di Feltre, nepote del cardinale, Tomaso di San Felicio, vescovo della Cava, fra’ Cornelio Musso franciscano, vescovo di Bitonto, il piú eloquente predicatore di quei tempi. Quattro giorni dopo fece don Diego la sua proposta in scritto. Conteneva la buona disposizione della Maestá cesarea circa la celebrazione del concilio, e l’ordine dato alli prelati di Spagna per ritrovarvisi, quale pensava che ormai fossero in cammino. Fece iscusa di non essere venuto prima per le indisposizioni; ricercò che s’incominciassero le azioni conciliari e la riforma delli costumi, come due anni prima in quel luoco medesmo era stato proposto da monsignor Granvella e da lui. Li legati in iscritto gli risposero lodando l’imperatore, ricevendo la scusa della sua persona e mostrando il desiderio della venuta delli prelati: e la proposta e la risposta furono dalla parte a chi apparteneva ricevute nelli capi non pregiudiciali alle ragioni del suo prencipe respettivamente, cautela che rende indizio manifesto con qual caritá e confidenza si trattava in proposta e risposta, dove non erano parole che di puro complimento, fuori che nella menzione di riforma.
I legati, incerti ancora qual dovesse esser il modo di trattare, facevano dimostrazione di dovere giontamente procedere con l’ambasciatore e prelati, e di comunicare loro l’intiero dei pensieri; onde all’arrivo delle lettere da Roma o di Germania convocavano tutti per leggerle. Ma avvedendosi che don Diego si pareggiava a loro, e i vescovi si presumevano piú del costumato a Roma, e temendo che, accresciuto il numero, non nascesse qualche inconveniente, avvisarono a Roma, consegnando che ogni spacio li fosse scritto una lettera da potere mostrare, e le cose secrete a parte; perché delle lettere sino a quel tempo ricevute gli era convenuto servirsi con ingegno. Dimandarono anco una cifra per poter comunicar le cose di maggior momento. Le qual particolaritá, insieme con molte altre che si diranno, avendole tratte dal registro delle lettere del Cardinal del Monte, e servendo molto per penetrare l’intimo delle trattazioni, non ho voluto tacerle.
Essendo giá passato il mese di marzo, e spirato di tanti giorni il prefisso nella bolla del papa per dar principio al concilio, li legati, consegliandosi tra loro sopra l’aprirlo, risolsero di aspettar avviso da Fabio Mignanello, noncio appresso Ferdinando, di quello che in Vormazia si trattava, e anco ordine da Roma, dopo che il papa avesse inteso la venuta ed esposizione di don Diego; massime che li pareva vergogna dar un tanto principio con tre vescovi solamente. Al li 8 di aprile gionsero ambasciatori del re de’ romani, per ricever li quali fu fatta solenne congregazione. In quella don Diego voleva preceder il cardinale di Trento e sedere appresso li legati, dicendo che, rappresentando l’imperatore, doveva sedere dove averebbe seduto Sua Maestá. Ma per non impedire le azioni, fu trovato modo di stare che non appariva quale di loro precedesse. Li ambasciatori del re presentarono solo una lettera del suo principe; a bocca esplicarono l’osservanza regia verso la sede apostolica e il pontefice, l’animo pronto a favorir il concilio e ampie offerte; soggionsero che manderebbe il mandato in forma e persone piú instrutte.
Dopo questo, arrivò a Trento e a Roma l’aspettato avviso della proposta fatta in dieta il di 24 marzo dal re Ferdinando, che vi presedeva per nome dell’imperatore, e della negoziazione sopra di quella seguita: e fu la proposta del re che l’imperatore aveva fatta la pace col re di Francia per attendere a compor li dissidi della religione e proseguire la guerra contro turchi; dal quale aveva avuto promessa d’aiuti e dell’approbazione del concilio di Trento, con resoluzione d’intervenirvi o in persona o per suoi ambasciatori. Per questo stesso fine aveva operato col pontefice che l’intimasse di novo, essendo stato per inanzi prorogato, e sollecitatolo anco a contribuir aiuti contra turchi. Che dalla Santitá sua aveva ottenuta l’intimazione, e giá esser in Trento gli ambasciatori mandati dall’imperatore e da lui. Che era noto ad ognuno quanta fatica avesse usato Cesare per far celebrar il concilio, prima con Clemente in Bologna, poi con Paulo in Roma, in Genova, in Nizza, in Lucca e in Busseto. Che secondo il decreto di Spira aveva dato ordini ad uomini dotti e di buona conscienza che componessero una riforma; la qual anco era stata ordinata; ma essendo cosa di molta deliberazione e il tempo breve, sovrastando la guerra turchesca, avere Cesare deliberato che, tralasciato di parlar piú oltre di questo, s’aspettasse di veder prima qual fosse per esser il progresso del concilio, e che cosa si poteva da quello sperare, dovendosi cominciar presto. Che quando non apparisse frutto alcuno, si potrebbe inanzi il fine di quella dieta intimarne un’altra per trattare tutto il negozio della religione, attendendo adesso a quello che piú importa, cioè alla guerra de’ turchi.
Di questa proposta presero li protestanti gran sospetto, perché dovendo durare la pace della religione sino al concilio, dubitarono che, snervati di denaro per le contribuzioni contra il turco, non fossero assaliti, con pretesto che il decreto della pace per l’apertura di concilio in Trento fosse finito. Però dimandarono che si continuasse la trattazione incominciata, allegando esser assai longo il tempo a chi ha timor di Dio; o vero almeno si stabilisse di novo la pace sino ad un legittimo concilio tante volte promesso, quale il tridentino non era, per le ragioni tante volte dette; e dechiararono di non potere contribuir se non avevano sicurezza d’una pace non legata a concilio pontificio, quale avevano ripudiato sempre che se n’era parlato. E se ben gli ecclesiastici assolutamente acconsentivano che la causa della religione si rimettesse totalmente al concilio, fu nondimeno risoluto d’aspettare la risposta di Cesare inanzi la conclusione.
Di quest’azione, al pontefice e alli legati che erano in Trento, tre particolari dispiacquero. L’uno, che l’imperatore attribuisse a sé d’aver indotto il papa alla celebrazione del concilio, che pareva mostrar poca cura delle cose della religione nel pontefice; il secondo, d’aver indotto il re di Francia ad acconsentirvi, che non era con onor della Santitá sua, a quale toccava far questo; terzo, che volesse tenirli ancora il freno in bocca di una dieta futura, acciocché, non andando inanzi il concilio, avessero sempre da star in timore che non si trattasse in dieta delle cose di religione. Sentiva il papa molestia perpetua, non meno per le ingiurie che riceveva quotidianamente da’ protestanti, che per le azioni dell’imperatore; le quali egli soleva dire che, quantonque avessero apparenza di favorevoli, erano maggiormente perniciose alla religione e autoritá sua, quali non possono essere l’una dall’altra separate. Senzaché li pareva essere sempre in pericolo che l’imperator non si accordasse con tedeschi in suo pregiudicio: e pensando alli rimedi non sapeva trovarne alcuno, se non metter in piedi una guerra di religione, poiché con quella ugualmente resterebbono e li protestanti raffrenati e l’imperator implicato in difficile impresa, e si metterebbe in silenzio ogni ragionamento di riforma e concilio. Era in gran speranza che li potesse riuscire, per quello che il suo noncio gli scriveva, di ritrovare Cesare sempre piú sdegnato con protestanti, e che ascoltava le proposte del soggiogarli con le forze. Per questo rispetto, oltre il narrato di sopra (d’impedire che in dieta non fosse fatta cosa pregiudiciale, e far animo e aggionger forza alli suoi), s’aggiongeva un’altra causa piú urgente, come quella che era d’interesse privato: che avendo deliberato di dar Parma e Piacenza al figliolo, non li pareva poterlo fare senza gravissimo pericolo, non acconsentendo l’imperatore, che averebbe potuto trovare pretesti, o perché quelle cittá altre volte furono del ducato di Milano, o perché come avvocato della Chiesa poteva pretendere di ovviare che non fosse lesa. Per questi negozi mandò il Cardinal Farnese legato in Germania con le necessarie instruzioni.
Ma li legati in Trento, avendo avuto commissione dal papa che, in evento che intendessero trattarsi della religione nella dieta, dovessero, senza aspettar maggior numero di prelati, aprire il concilio con quei tanti che vi fossero; ma non dovendosi trattarne, si governassero come gli altri rispetti consegnassero, viddero dalla proposta della dieta non esser astretti, ma bene dall’altra parte il poco numero de’ prelati (che sino allora non erano piú di quattro) persuaderli la dilazione. Restavano però in dubbio che il pericolo delle arme turchesche non constringesse Ferdinando a far il recesso e, secondo la promessa, intimare un’altra dieta dove si trattasse della religione, ributtando la colpa in loro, con dire di averli fatto notificar la proposizione, acciocché sapendo quello che s’era promesso con buona intenzione, essi aprendo il concilio dassero occasione che non si esequisse. Per la qual causa mandarono al pontefice in diligenza per ricever da lui ordine di quel che dovessero fare in tal angustia di deliberazione, vedendosi dall’un canto necessitati da cosí potente rispetto di accelerare, e dall’altro costretti a soprassedere, per esser quasi come soli in Trento. Misero inanzi al pontefice avere molte congetture e grandi indici che l’imperatore non curasse molto la celebrazione del concilio, che don Diego dopo la prima comparizione non aveva mai detto pur una parola e che mostrava quasi in fronte aver piacere di quell’ozio e trascorso di tempo, bastandoli solo la sua comparizione per scolpar il suo patrone e giustificarlo che, avendo per se stesso e per oratori continuamente chiesto e sollecitato il concilio, e avendo condotto il negozio al termine e non vedendo progresso conveniente, potesse e dovesse intimare l’altra dieta e terminare la causa della religione, come ragionevolmente devoluta a Sua Maestá per la diligenza sua e negligenza del pontefice. Proponevano di pigliar un partito medio, di cantar una messa dello Spirito Santo prima che l’imperatore gionga in dieta, la qual sia per principio del concilio, e cosí prevenire tutto quello che l’imperator potesse far nel recesso; e dall’altro canto levare l’occasione che si potesse dire essersi cominciato a trattare le cose del concilio con quattro persone; restando in libertá di goder il beneficio del tempo, e poter o procedere piú oltra, o soprassedere, o transferire, o serrar il concilio secondo che gli accidenti consegnassero. Li considerarono anco che se il concilio fosse aperto dopo che il cardinale Farnese avesse parlato a Cesare, alcuno averebbe potuto credere che quel cardinale fosse mandato per impetrare che non si facesse, e non avesse potuto ottenerlo; oltre che, crescendo la fama delle arme del turco, si direbbe che fosse aperto in tempo quando bisognava attender ad altro e si sapeva non potersi fare. Il Cardinal Santa Croce aveva gran desiderio che si mostrassero segni di devozione e si facesse con le solite ceremonie della Chiesa concorrere il populo; e però fu autore che scrivessero tutti al papa dimandando un breve con l’autoritá di dar indulgenze, il qual avesse la data del dí della loro partita, acciò l’indulgenza giá concessa da loro nella entrata fosse valida. Aveva scrupolo quel cardinale che il populo trovatosi presente a quell’ingresso non fosse defraudato di quei tre anni e quarantene che concessero; e con questo voleva supplire; senza considerare che difficoltá nasce, se chi ha autoritá di dar indulgenze può convalidare le concesse da altri senza potestá.
Il Cardinal vescovo e patrone di Trento, considerando che quella cittá in se stessa picciola e vuota d’abitatori, se il concilio fosse camminato inanzi, restava in discrezione di forestieri con pericolo di sedizioni, fece saper al papa che era necessario un presidio di almeno centocinquanta fanti, massime se venissero li luterani: qual spesa esso non poteva fare, essendo esausto per li molti debiti lasciatili dal suo precessore. A questo rispose il pontefice che il mettere presidio nella cittá sarebbe stato un pretesto a’ luterani di pubblicare che il concilio non fosse libero; che mentre soli italiani erano in Trento, vano sarebbe avere dubbio, e che egli non aveva minor cura della quiete della cittá che esso medesmo cardinale, importando piú al pontefice la sicurezza del concilio, che al vescovo della cittá; però lasciasse la cura a lui e tenesse per certo che stará vigilante e provvederá alli pericoli per suo interesse, né lo aggraverá di far alcuna spesa. Ed avendo ben pensate tutte le ragioni che persuadevano e dissuadevano il dare principio al concilio, per la dissuasione non vedeva ragione di momento, se non che, quando fosse aperto, egli fosse ricercato di lasciarlo cosí, sino che cessassero gl’impedimenti della guerra de’ turchi, e altri; il che era metterli un freno in bocca per aggirarlo dove fosse piaciuto a chi ne tenesse le redine, sommo pericolo a le cose sue. Questo lo fece risolvere stabilmente in se stesso che per niente si doveva lasciarlo star oziosamente aperto, né partirsi da questa disgiontiva: che o vero il concilio si celebri potendo, o non potendo si serri o si suspenda, sino che da lui fosse pubblicato il giorno nel quale si avesse da riassumere. E fermato questo ponto, scrisse alli legati che l’aprissero per il dí di Santa Croce; qual ordine essi pubblicarono all’ambasciator cesareo e a tutti gli altri, senza venir al particolare del giorno. E poco dopo gionse il Cardinal Farnese in Trento, per transitare di lá in Vormazia, e portò l’istessa commissione; e consultato il tutto tra lui e li legati, fu tra loro determinato di continuare, notificando a tutti la commissione di aprir il concilio in genere, ma non descendendo al giorno particolare, se non quando egli, gionto in Vormes, avesse parlato all’imperatore, avendo concepito molta buona speranza per aver inteso che l’imperatore, udita l’espedizione della legazione, era rimasto molto sodisfatto del papa e lasciatosi intender di voler procedere unitamente con lui; il che per non sturbare, non volevano senza notizia della Maestá sua proceder a nessuna nuova azione, massime che cosí don Diego come il Cardinal di Trento consegnavano l’istesso.
Rinnovò don Diego la sua pretensione di preceder tutti eccetto li legati, allegando che sí come quando papa e Cesare fossero insieme nessuno sederebbe in mezzo, l’istesso si dovrebbe osservare nelli rappresentanti l’uno e l’altro, e dicendo d’aver in ciò il parere e conseglio di persone dotte. Dalli legati non fu risposto se non con termini generali, che erano preparati di dar a ciascuno il suo luoco, aspettando di aver ordine da Roma; il che anco piaceva a don Diego, sperando che lá nelli archivi pubblici si troverebbono decisioni ed esempi di ciò, mostrandosi pronto fuori del concilio di cedere ad ogni minimo prete, ma soggiongendo che nel concilio nessun ha maggior autoritá, dopo il papa, che il suo principe.
Ad alcuno nel leggere questa relazione potrebbe parere che, essendo di cose e ragioni leggiere, tenesse del superfluo; ma lo scrittore dell’istoria, con senso contrario, ha stimato necessario far sapere da quali minimi rivoletti sia causato un gran lago che occupa Europa; e chi nel registro vedesse quante lettere andarono e venirono prima che quell’apertura fosse conclusa, stupirebbe della stima che se ne faceva e delli suspetti che andavano attorno.
In Italia, poiché si viddero incamminate le cose del concilio con speranza che questa volta si dovesse pur celebrare, li vescovi pensavano al viaggio. 1Il viceré di Napoli entrò in pensiero che non andassero tutti li suoi: voleva mandare quattro nominati da lui col mandato degli altri del Regno, che passano cento. Fece perciò il cappellan maggior del Regno una congregazione de prelati in casa sua, e li intimò che facessero la procura: a che molti s’opposero, dicendo voler andar essi in persona, ché cosí hanno giurato e sono tenuti; e non potendo, esser di ragione che ciascuno, secondo la propria conscienzia, faccia procuratore, e non un solo per tutti. S’alterò il viceré, e di novo ordinò al cappellano maggiore che li chiamasse e li comandasse che facessero la procura, e simil ordine mandò a tutti li governi del Regno. Questo diede pensiero assai al papa e alli legati, non sapendo se venisse dalla fantasia propria del viceré per mostrarsi sufficiente, o per poca intelligenza, o pur se altri glielo facesse fare, e venisse da piú alta radice. E per scoprire l’origine di questo motivo, il papa fece una bolla severa, che nessuno assolutamente potesse comparir per procuratore; quali li legati ritennero appresso di loro segreta e non pubblicarono, come troppo severa, per esser universale a tutti i prelati di cristianitá, eziandio alli lontanissimi e impediti, a’ quali era cosa impossibile da osservare; e ancor per essere rigida, statuendo che incorrano ipso facto in pena di suspensione a divinis e amministrazione delle chiese, temendo che potesse causar molte irregolaritá, nullitá de atti e indebite percezioni de frutti, e che per ciò si potesse svegliare qualche nazione mal contenta ad interporre un’appellazione e incominciar a contender di giurisdizione. Per il che anco scrissero di non doverla pubblicare senza nova commissione, stimando anco che basti il solo romore d’esser fatta la bolla, senza che si mostri. Di questa bolla si dirá a suo luoco il fine che ebbe.
Un altro negozio, se ben di minor momento, non però manco noioso, restava. Li legati, che sino a quel giorno avevano avuto leggieri sussidi per far le spese occorrenti, ed essendo anco assai poveri per supplire col suo, come in qualche particolare li era convenuto fare, continuando in tal guisa non averebbono potuto mantenersi; onde, comunicato con Farnese, scrissero al pontefice che non era reputazione sua far un concilio senza ornamenti e apparati necessari e consueti, con quel splendore che un tanto consesso ricerca; a che era necessaria persona con un carico proprio, e che però sarebbe stato bene ordinare un depositario con qualche somma di denari per provveder alle spese occorrenti e per sovvenire qualche prelato bisognoso e accarezzar qualche uomo di conto, cosa molto necessaria per fare aver buon esito al concilio.
Il 3 maggio essendo giá arrivati dieci vescovi, fecero congregazione per stabilire le cose preambule. Nella quale intimarono pubblicamente la commissione del pontefice di aprir il concilio, aggiongendo che aspettavano a determinar il giorno, quando ne fosse data parte all’imperatore. Si passò la congregazione per la gran parte in cose ceremoniali: che i legati, se ben d’ordine diverso (essendo uno vescovo, l’altro prete e il terzo diacono), dovessero nondimeno aver li paramenti conformi, portando tutti tre ugualmente piviali, sí come l’ufficio e autoritá loro era uguale in una legazione e una presidenza; che il luoco delle sessioni dovesse esser dobbato di panni arazzi, acciò non paresse un consesso di meccanici. Proposero se si dovevano far sedie per il pontefice e per l’imperatore, le quali dovessero esser ornate e restar vacue; si trattò se a don Diego si avesse a dar un luoco piú onorato degli altri oratori. Si considerò che li vescovi di Germania, i quali sono anco principi d’Imperio, pretendono di dovere precedere tutti gli altri prelati, anco arcivescovi, allegando che nelle diete non solo cosí si osserva, ma anco che i vescovi non principi stanno con la berretta in mano inanzi loro. Si ebbe in considerazione che l’anno inanzi in quella stessa cittá fu disparere sopra ciò, ritrovandosi insieme ad una messa il vescovo eicstatense e li arcivescovi di Corfú e Otranto. Si allegò anco da alcuni che nella cappella pontificia li vescovi che sono oratori de duchi e altri principi precedono gli arcivescovi, onde maggiormente le persone medesme de’ principi debbono precederli. E sopra questo fu concluso di non risolver cosa alcuna, sino che il concilio non fosse piú frequente, per veder anco come l’intendono quei di Francia e quei di Spagna. Fu ordinato di rinnovare il decreto di Basilea e di Giulio II nel lateranense, che a nessuno pregiudichi il sedere fuori di luoco suo. Fu commendata la resoluzione d’aspettar li avvisi del Farnese a determinar il giorno dell’apertura, con molta satisfazione di don Diego. Mostrarono quei pochi vescovi molta devozione e obedienza al pontefice, sí come fece anco dopo il vescovo di Vercelli, che gionse il dí medesmo, finita la congregazione, insieme col Cardinal Polo terzo legato.
Mentre che si fa congregazione in Trento per convincere l’eresia col concilio, in Francia l’istesso si operò con le armi contra certe poche reliquie de valdesi, abitanti nelle Alpi di Provenza, che (come di sopra s’è detto) s’erano conservati dalla obedienza della sede romana separati, con altra dottrina e riti, assai però imperfetti e rozzi, li quali dopo le renovazioni di Zuinglio avevano con quella dottrina fatto aggiunta alla propria e ridotti li riti loro a qualche forma, allora quando Genéva abbracciò la riforma. Contro questi, giá alcuni anni, dal parlamento d’Ais era stata pronunciata sentenzia, la qual non aveva ricevuto esecuzione. Comandò in questo tempo il re che la sentenzia si esequisse. Il presidente, congregati li soldati che puoté raccorre delli luochi vicini e dello stato pontificio d’Avignone, andò armato contra quei miseri, li quali né avevano arme né pensavano a defendersi, se non con la fuga, quei che lo potevano fare. Non si trattò né d’insegnarli né di minacciarli o costringerli a lasciare le loro opinioni e riti; ma empito prima tutto il paese di stupri, furono mandati a fil di spada tutti quelli che non erano potuti fuggire e stavano esposti alla sola misericordia, non lasciando vivi vecchi, né putti, né donne di qualonque condizione ed etá. Distrussero, anzi spianarono le terre di Cabriera in Provenza e di Merindolo nel contado di Veneysin, spettante al papa, insieme con tutti li luochi di quei distretti. Ed è cosa certa che furono uccise piú di quattro mila persone, che senza far alcuna difesa chiedevano compassione.
Ma in Germania alli 16 di maggio gionse in Vormazia l’imperatore, e il giorno seguente vi arrivò il Cardinal Farnese, il qual trattò con lui e col re de’ romani a parte. Espose le sue commissioni, particolarmente nel fatto del concilio, facendo sapere che il pontefice aveva dato facoltá alli legati di aprirlo; il che aspettavano di fare dopo che avessero inteso da esso lo stato delle cose della dieta. Considerò all’imperatore che non bisognava aver alcun rispetto alle opposizioni fatte da protestanti, poiché l’impedimento da loro posto non era novo e non antiveduto, dal giorno che si cominciò a parlare di concilio. Doversi tener per certo che avendo essi scosso il giogo dell’obedienza, fondamento principale della religione cristiana, e proceduto in tanto empie e scellerate innovazioni contro il rito osservato per centenara d’anni con l’approbazione di tanti celeberrimi concili, con la medesima animositá recalcitrarebbono contro il concilio che s’incominciava, quantunque legittimo, generale e cristiano, essendo certi di dover esser condannati da quello. Però altro non rimaneva se non che la Maestá sua o con l’autoritá gli inducesse, o con le forze li constringesse ad obedire; il che quando non si facesse, e per loro rispetto si desistesse da procedere inanzi alla condannazione loro, o vero dopo condannati non fossero costretti a deporre li loro errori, si mostraria a tutto ’l mondo che li eretici comandano e il papa con l’imperator obediscono. Che sí come Sua Santitá lodava l’usare prima la via della dolcezza, cosí reputava necessario mostrare con effetti che dopo quella sarebbe seguita la forza armata. Gli offerí per questo effetto concessione di valersi di parte delle entrate ecclesiastiche di Spagna e vendere vassallaggi di quelle chiese, di sovvenirlo de danari propri e di mandarli d’Italia in aiuto dodicimila fanti e cinquecento cavalli pagati, e far opera che dagli altri principi d’Italia fossero parimenti mandati altri aiuti, e mentre facesse quella guerra, procedere con arme spirituali e temporali contra qualunque tentasse molestar li stati suoi. Espose anco Farnese all’imperatore il tentativo del viceré di Napoli di voler mandar quattro procuratori per nome di tutti li vescovi del Regno, con mostrarli che questo non era né ragionevole né legittimo modo, né sarebbe stato con reputazione del concilio: che se vescovi tanto vicini in numero cosí grande avessero potuto scusarsi con la missione di quattro, molto piú l’averebbe potuto far la Francia e la Spagna, e s’averebbe fatto un concilio generale con venti vescovi. E pregò l’imperatore a non tollerare un tentativo cosí contrario all’autoritá del papa e alla dignitá del concilio del quale è protettore, pregandolo a darci rimedio opportuno. Trattò anco il cardinale sopra la promessa fatta per nome di Sua Maestá nella proposta mandata alla dieta, cioè che per terminare le discordie della religione, caso che il concilio non facesse progresso, si farebbe un’altra dieta; e li mise in considerazione che, non restando dalla Santitá sua, né dalli suoi legati e ministri, né dalla corte romana che il concilio non si celebri e non facci progresso, non poteva in alcun modo nel recesso intimare altra dieta sotto questo colore. E inculcò grandissimamente questo ponto, perché ne aveva strettissima commissione da Roma, e perché il cardinale del Monte, uomo molto libero, non solo gliene fece instanza a bocca, ma anco li scrisse per nome proprio e delli colleghi, dopo che partí da Trento, con apertissime parole: che questo era un capo importantissimo, al qual doveva tenire sempre fissa la mira e non se ne scordar in tutta la sua negoziazione, avvertendo ben di non ammetter coperta alcuna, perché questo solo partorirebbe ogni altro buon appontamento. E che quanto a lui, raccordarebbe a Sua Beatitudine che eleggesse piú presto abbandonare la Sede e render a san Pietro le chiavi, che comportare che la potestá secolare arrogasse a sé l’autoritá di terminar le cause della religione, con pretesto e colore che l’ecclesiastico avesse mancato del debito suo nel celebrar concilio o in altro.
Intorno al tentativo del viceré, disse l’imperatore che il motivo non veniva d’altronde che da proprio e spontaneo moto, e che quando non avesse avuto urgente ragione si sarebbe rimosso. Sopra l’aprire del concilio non li diede risoluta risposta, ma, parlando variamente, ora disse che sarebbe stato ben incominciarlo in luoco piú opportuno, ora che era necessario inanzi l’apertura fare diverse previsioni: onde il cardinale chiaramente vedeva che mirava a tenere la cosa cosí in suspeso e non far altro, per governarsi secondo li successi, o aprendolo o dissolvendolo. Al non intimar altra dieta per trattar della religione diede risposta generale e inconcludente: che averebbe sempre fatto quanto fosse possibile la stima debita dell’autoritá pontifícia. Ma alla proposta di fare la guerra a’ luterani, rispose esser ottimo il conseglio del pontefice e la via da lui proposta unica; la quale era risoluto d’abbracciare, procedendo però con la debita cauzione, concludendo prima la tregua con turchi, che col mezzo del re di Francia sollecitamente e secretissimamente trattava; e con avvertenza che essendo il numero e il poter de’ protestanti grande e insuperabile, se non si divideranno tra loro o non saranno sprovvistamente soprappresi, la guerra sarebbe riuscita molto ambigua e pericolosa. Che il disegno era da tenersi segretissimo sin che l’opportunitá apparisse; la quale scoprendosi, egli averebbe mandato a trattare col pontefice; tra tanto accettava le oblazioni fattegli.
Oltre questi negozi pubblici, ebbe il cardinale un altro privato di casa sua. Il pontefice, parendoli poco aver dato a’ suoi il ducato di Camerino e Nepi, pensò darli le cittá di Parma e Piacenza, le quali essendo poco tempo inanzi state possedute da’ duchi di Milano, desiderava che vi intervenisse il consenso di Cesare per stabilirne meglio la disposizione; e di questo trattò il cardinale coll’imperatore, mostrando che sarebbe tornato a maggior servizio di Sua Maestá se quelle cittá, tanto prossime al ducato di Milano, fossero state in mano d’una casa tanto devota e congiunta, piú tosto che in potere della Chiesa, nella quale succedendo qualche pontefice male affetto, diversi inconvenienti potevano nascere; che quella non sarebbe stata alienazione di patrimonio della Chiesa, poiché erano pervenute primieramente solo in mano di Giulio II, né ben confirmato il possesso se non sotto Leone; che sarebbe stato con evidente utilitá della Chiesa, perché in cambio di quelle il pontefice li dava Camerino e, detratte le spese che si facevano nella guardia di quelle due cittá e gionti ottomila scudi che averebbe il novo duca pagato, s’averebbe cavato piú entrata di Camerino che di quelle. A queste esposizioni aggionse anco il cardinale lettere della figliuola, che per proprio interesse ne pregava efficacemente l’imperatore; il quale non aveva la cosa discara, cosí per l’amore della figlia e de’ nepoti, come perché sarebbe stato piú facile recuperarla da un duca che dalla Chiesa. Con tutto ciò non negò né acconsentí; disse solamente che non averebbe fatto opposizione.
Trattò il legato con li cattolici ed ecclesiastici massime, confortandoli alla difesa della religione vera, promettendoli dal papa ogni favore. Della negoziazione di guerra, se bene trattata secretamente, ne presero sospetto i protestanti, perché un frate franciscano, in presenzia di Carlo e di Ferdinando e del legato predicando, dopo una grand’invettiva contra luterani, voltato all’imperatore disse: il suo ufficio essere difendere la Chiesa con l’arme; che aveva mancato sino allora di quello che giá bisognava avere del tutto effettuato; che Dio gli aveva fatto tanti benefici meritevoli che ne mostrasse ricognizione contra quella peste d’uomini che non dovevano piú vivere; né doveva differirlo piú oltre, perdendosi ogni giorno molti per questo, de’ quali Dio domandará conto a lui, se non vi porgesse presto rimedio. Questa predica non solo generò sospetto, ma eccitò anco ragionamenti che dal legato fosse stata comandata; e dalle esortazioni pubbliche concludevano quali dovevano essere le private; al qual romore per rimediare il cardinale partí di notte secretamente e ritornò con celeritá in Italia. Ma la suspezione de’ protestanti s’accrebbe per gli avvisi andati da Roma che il papa nel licenziar alcuni capitani avesse loro dato speranza d’adoperarli l’anno futuro.
Ma in Trento il 18 maggio gionse il vescovo sidoniense con un frate teologo e un secolar dottore, come procuratori dell’elettor cardinale arcivescovo magontino. Il vescovo fece una mezza orazione dell’ossequio dell’elettor verso il papa e la sede apostolica, lodando molto la celebrazione del concilio come solo rimedio necessario a quelle fluttuazioni della fede e religione cattolica. Dalli legati fu risposto commendando la pietá e devozione di quel prencipe; e quanto all’admissione del mandato, dissero che era necessario prima vederlo, per esser fatta di nuovo una provvisione da Sua Santitá che nessuno possi dare voto per procuratore; che restavano in dubbio se comprendeva un cardinale e prencipe; che sapevano molto bene la prerogativa che meritava sua signoria illustrissima, alla quale erano prontissimi di far tutti gli onori e aver ogni rispetto. Si misero in confusione questi tre sentendosi far difficoltá, e consegnavano di partire. Li legati furono pentiti della risposta, conoscendo di quant’importanza sarebbe stato se il primo principe e prelato di Germania in dignitá e ricchezze si fosse alienato da quel concilio; e operarono per via di uffici fatti destramente dal Cardinal di Trento, dalli ambasciatori ed altri, che si fermassero, dicendo che la bolla parlava solo delli vescovi italiani, che dalli legati era stato preso errore; i quai legati si contentarono ricever questa carica per ovviare a tanto disordine. Scrissero però a Roma dando conto del successo, e richiedendo se dovevano riceverli stante la bolla, aggiongendo parerli duro dar ripulsa a procuratori d’un tanto personaggio che si mostra fervente e favorevole alla parte de’ cattolici, quale perciò si potrebbe intepidire; instando di averne risposta, perché la deliberazione che si facesse in quella causa servirebbe per esempio, perché potrebbono forse mandar procuratori anco gli altri vescovi grandi di Germania: i quali non sarebbe manco bene che andassero in persona a Trento, perché, soliti a cavalcar con gran comitive, non potrebbono capire tutti in quella cittá. E scrissero che sopra tutto non bisognava sdegnar li todeschi naturalmente suspettosi e che facilmente si resolvono, tanto piú quando si tratta di persone amorevoli e benemeriti, come il Cocleo, che è giá in viaggio per nome del vescovo eicstetense, il quale ha scritto tante cose contra gli eretici, che s’avvergognerebbono di dire che non potesse aver voto in concilio. Il pontefice non giudicò bene rispondere precisamente sopra di ciò, attesa la difficoltá di Napoli. Perché, continuando il viceré nella sua risoluzione, fu fatto mandato alli quattro che per nome di tutti intervenissero: i quali postisi in ponto passarono da Roma, tacendo d’esser eletti procuratori degli altri e dicendo andar per nome proprio, e che gli altri averebbono seguito. Ma scrisse alli legati che trattenessero li procuratori dando buone parole, sin che gli dasse altra risoluzione. Li napolitani nell’istesso tenore parlarono anco al loro arrivo in Trento, dissimulando cosí il papa come li legati, per aspettare a farne motto quando fosse risoluto il tempo dell’aprir il concilio.
Nel fine di maggio erano gionti in Trento venti vescovi, cinque generali e un auditor di rota, tutti giá molto stanchi dall’aspettare: li quali lodavano gli altri che, non essendosi curati d’esser frettolosi, aspettavano di veder occasione piú ragionevole di partir di casa, sí come con qualche loro disgusto erano chiamati corrivi da quelli che non si erano mossi cosí facilmente. Dimandavano però alli legati abilitazione di poter andare quindici o venti giorni a Venezia, a Milano o altrove, per fuggire le incomoditá di Trento, pretendendo o indisposizione, o necessitá di vestirsi, o altri rispetti. Ma li legati, conoscendo quanto ciò importasse alla riputazione del concilio, li trattenevano, parte con dire che non avevano facoltá di conceder licenza e parte con dar speranza che fra pochi giorni s’averebbe dato principio. L’ambasciator cesareo ritornò all’ambasciaria sua a Venezia, sotto pretesto d’indisposizione, avendo lasciati li legati dubbi se fosse per commissione di Cesare con qualche artificio, o pur per stanchezza di star in ozio con incomoditá: promesse presto ritorno, aggiongendo che tra tanto restavano gli ambasciatori del re de’ romani per aiutare il servizio divino: e nondimeno che desiderava non si venisse all’apertura del concilio sino al suo ritorno.
Ma in fine dell’altro mese la maggior parte dei vescovi, spinti chi dalla povertá, chi dall’incomodo, fecero querele grandissime, ed eccitata tra loro quasi una sedizione, minacciavano di partirsi, ricorrendo a Francesco Castelalto, governator di Trento, qual Ferdinando aveva deputato per tenir il luoco suo insieme con Antonio della Quetta. Egli si presentò alli legati e fece loro istanza per nome del suo re che ormai si dasse principio, vedendosi quanto bene sia per seguire dalla celebrazione e quanto male dal temporeggiare cosí. Di questo li legati si reputarono offesi, parendogli che era un volere mostrar al mondo il contrario del vero ed attribuir a loro quella dimora che nasceva dall’imperatore; e quantunque avessero tra loro risoluto di dissimulare e rispondere con parole generali, nondimeno il Cardinal del Monte non potè raffrenar la sua libertá che nel fare la risposta non concludesse in fine confortandolo ad aspettar don Diego, il quale aveva piú particolari commissioni di lui. Grande era la difficoltá in trattenere e consolare li prelati, che sopportavano malamente quella oziosa dimora, e massime li poveri, a’ quali bisognavano denari e non parole: per il che si risolvettero di dar a spese del pontefice quaranta ducati per uno alli vescovi de’ Nobili, di Bertinoro e di Chiozza, che piú delli altri si querelavano: e temendo che quella munificenza non dasse pretensione per l’avvenire, si dechiararono che era per un sussidio e non per provvisione. Scrissero al pontefice, dandogli conto di tutto l’operato e mostrandogli la necessitá di sovvenirli con qualche maggior aiuto, ma insieme considerandogli che non fosse utile dar cosa alcuna sotto nome di provvisione ferma, acciocché li padri non paressero stipendiari di Sua Santitá e restasse fomentata la scusa de’ protestanti di non sottomettersi al concilio, per esser composto di soli dependenti e obbligati al papa.
In questo medesmo tempo in Vormazia l’imperator citò l’arcivescovo di Colonia che in termine di trenta giorni comparisse inanzi a sé o mandasse un procuratore per rispondere alle accuse ed imputazioni dategli, comandandoli anco che tra tanto non dovesse innovar cosa alcuna in materia di religione e riti, anzi ritornare nello stato di prima le cose innovate. Giá sino del 1536 Ermanno, arcivescovo di Colonia, volendo riformar la sua chiesa, fece un concilio delli vescovi suoi suffraganei, dove molti decreti furono fatti, e se ne stampò un libro composto da Giovanni Groppero canonista, che per servizi fatti alla chiesa romana fu creato poi Cardinal da papa Paulo IV. Ma o non si satisfacendo l’arcivescovo né il Groppero medesimo di quella riforma, o avendo mutato opinione, del 1543 congregò il clero e la nobiltá e li principali del suo stato, e stabilí un’altra sorte di formazione: la qual se ben da molti approvata, non piacque a tutto il clero, anzi la maggior parte se gli oppose e se ne fece capo Groppero, il qual prima l’aveva consegnata e promossa. Fecero ufficio con l’arcivescovo che volesse desistere e aspettar il concilio generale, o almeno la dieta imperiale. Il che non potendo ottenere, del 1544 appellarono al pontefice e a Cesare come supremo avvocato e protettore della Chiesa di Dio. L’arcivescovo pubblicò con una sua scrittura che l’appellazione era frivola e che non poteva desistere da quello che apparteneva alla gloria di Dio ed emendazione della Chiesa; che egli non aveva da fare né con luterani né con altri, ma che guardava la dottrina consenziente alla sacra Scrittura. Proseguendo l’arcivescovo nella sua riforma ed instando il clero di Colonia in contrario, Cesare ricevette il clero nella sua protezione e citò l’arcivescovo, come si è detto.
Di questo essendo andato avviso in Trento, diede materia di passar l’ozio almeno con ragionamenti. Si commossero molto li legati; e tra li prelati che si vi trovavano, quei di qualche senso biasimavano l’imperatore che si facesse giudice in causa di fede e di reforma, e la piú dolce parola che dicevano era il procedere cesareo esser molto scandaloso. Cominciarono a conoscer di non esser stimati, e che lo star in ozio era insieme un star in vilipendio del mondo. Perciò discorrevano esser costretti a dechiararsi d’esser concilio legittimamente congregato, e a dar principio all’opera di Dio, incominciando le prime azioni dal procedere contro l’arcivescovo suddetto, contra l’elettor di Sassonia, contra il langravio d’Assia, ed anco contra il re d’Inghilterra. Avevano concetto spiriti grandi, sí che non parevano piú quei che pochi giorni prima si riputavano confinati in prigione. Raffrenavano questo ardore li ministri del magontino, considerando la grandezza di quei prencipi e l’aderenza, e il pericolo di farli restringere col re anglico e metter un fuoco maggior in Germania; e il Cardinal di Trento non parlava in altra forma. Ma li vescovi italiani, riputandosi da molto se mettessero mano in soggetti eminenti, dicevano esser vero che tutto il mondo sarebbe stato attento ad un tal processo, nondimeno che tutta l’importanzia era principiarlo e fondarlo bene. S’incitavano l’un l’altro, dicendo che bisognava resarcire parte della tarditá passata con la celeritá, che si dovesse dimandar al papa qualche uomo di valore che facesse la perorazione contra li rei, come fece Melchior Baldassino contra la pragmatica nel concilio lateranense, persuasi che il privare li principi delli stati loro non avesse altra difficoltá che di ben usare le formule de’ processi. Ma li legati, cosí per questa come per altra occorrenza, conobbero esser necessario aver un tal dottore, e scrissero a Roma che fosse provveduto di alcuno.
Il pontefice, intesa l’azione dell’imperatore, restò attonito e dubbioso se dovesse querelarsi o tacere: il querelarsi, non dovendo da ciò succeder effetto, lo giudicava non solo vano, ma anche una pubblicazione del poco potere; e questo lo moveva grandemente. Ma dall’altra parte, ben pensato quanto importasse se egli avesse passato con silenzio una cosa di tanto momento, deliberò di non far parole come a Trento, ma venir ai fatti, per rispondere poi all’imperatore, se egli avesse parlato. E però sotto li 18 di luglio fece un’altra citazione contra l’istesso arcivescovo, che in termine di sessanta giorni dovesse comparire personalmente inanzi a lui. Citò ancora il decano di Colonia e cinque altri canonici dei principali, lasciando in disputa alle persone in che modo l’arcivescovo potesse comparir inanzi a doi che lo citavano per la medesima causa, in diversi luochi, nel medesimo tempo, e in che appartenesse all’onor di Cristo una disputa di competenza de fòro. Ma di questo, quello che succedesse e che termine avesse la causa, si dirá al suo luoco.
Tornando a quello che tocca di piú prossimo il concilio, furono dall’imperatore fatti diversi tentativi nella dieta, acciò li protestanti condescendessero ad accordar li aiuti contra i turchi, senza far menzione delle cause della religione: al che perseveravano rispondendo non poter far risoluzione se non li era data sicurezza che la pace si dovesse conservare, e che per la convocazione fatta in Trento sotto il nome di concilio non s’intendesse venuto il caso della pace finita, secondo il decreto della dieta superiore, ma fosse dechiarato che la pace non potesse essere interrotta, né essi sforzati per qualonque decreti si facessero in Trento; perché a quel concilio non possono sottomettersi, dove il papa, che li ha giá condannati, ha intiero arbitrio. L’imperator diceva non poterli dar pace che gli esenti dal concilio, all’autoritá del quale tutti sono sottoposti; che non averebbe modo di scusarsi appresso agli altri re e principi, quando alla sola Germania si concedesse non obedir al concilio, congregato principalmente per rispetto di lei. Ma se essi pretendevano avere causa, come dicevano, di non sottomettersi, andassero al concilio, rendessero le ragioni perché l’hanno in suspetto, che sarebbono ascoltati; e se allora li fosse parso esserli fatto torto, averebbono potuto recusarlo, non essendo pertinente il prevenire e insospettirsi di quello che non appare, e pretender gravame di cose future facendo giudicio di quello che ancor non si vede. A che replicavano non parlare di cose future ma passate, essendo la loro religione stata giá dannata e perseguitata dal pontefice e da li suoi aderenti; onde non avevano da aspettar giudicio futuro, essendovi giá il passato. Per il che esser giusta cosa che nel concilio il papa, con aderenti suoi di Germania e d’ogn’altra regione, facessero una parte, ed essi l’altra: e della difficoltá circa il modo e ordine di procedere fossero giudici l’imperatore e li re e principi; ma quanto al merito della causa, la sola parola di Dio.
Né potêro esser mai rimossi da questa risoluzione, ancorché l’ambasciator di Francia, che era ivi presente, facesse instanza grandissima che acconsentissero al concilio, con parole che tenevano del minaccievole, dettate a quell’ambasciatore, quando di Francia partí, dalli ministri di quel re fautori del pontefice. Fu messo in campo dalli cesarei di transferir il concilio in Germania, sotto promessa dell’imperatore di far efficace opera che il pontefice vi condescendesse; la qual proposta fu dagli altri accettata, sotto condizione che fosse stabilita la pace sin tanto che fosse quivi congregato. Ma Carlo, certo che il pontefice mai avrebbe acconsentito, vidde che questo era un darli pace perpetua, e però meglio era lasciare le cose in sospeso, concedendola solo sino ad un’altra dieta, vedendosi costretto per non aver ancora concluso la tregua de’ turchi, e stimando piú quella guerra, e pensando che per occasioni d’un colloquio si sarebbono offerti altri mezzi piú ragionevoli all’avvenire per constringerli di novo che acconsentissero al concilio di Trento; e ricusando, averli per contumaci e farli la guerra. Per il che finalmente a’ 4 d’agosto mise fine alla dieta, ordinandone una per il mese di gennaro seguente in Ratisbona, dove li principi intervenissero in persona, e instituendo un colloquio sopra le cause della religione, di quattro dottori e due giudici per parte, il qual s’incominciasse al decembre, acciò la materia fosse digesta inanzi la dieta, confermando e rinnovando li passati editti di pace e ordinando il modo di pagar le contribuzioni per la guerra. Come il colloquio procedesse, in suo luoco si dirá. Partiti li protestanti da Vormazia, diedero fuori un libro, dove dicevano in somma che non avevano il tridentino per concilio, come non congregato in Germania, secondo le promesse di Adriano e dell’imperatore; al che avendo mostrato di sodisfare con elegger Trento, era un farsi beffe di tutto ’l mondo, non potendosi dir Trento in Germania, se non perché il vescovo è principe d’Imperio. Ma per quel che tocca alla sicurtá, esser cosí bene in Italia e in potere del pontefice, come Roma medesima; e maggiormente non averlo per legittimo, perché papa Paulo voleva preseder in quello e proponer per li legati, perché li giudici a lui erano obbligati con giuramento; che essendo contra il papa la lite istituita, non doveva egli esser giudice; che bisognava trattar prima della forma del concilio e delle autoritá, sopra quali si doveva far fondamento.
Ma ugualmente in Trento come a Roma dispiacque sopra modo la resoluzione dell’imperatore, cosí perché un principe secolare s’intromettesse in cause di religione, come perché li pareva esser esautorato il concilio, poiché essendo quello imminente, si dava ordine di trattar altrove le cause della religione. Li prelati che in Trento si ritrovavano, quasi con una sola bocca biasimavano il decreto, dicendo esser peggior che quello di Spira, e maravigliandosi come il pontefice, che contra quello si era mostrato cosí vivo, aveva tollerato e tollerasse questo, dopo che era inditto e giá congregato il concilio. Cavavano, da questo, manifesto indizio che lo star loro in Trento era una cosa vana e disonorevole: s’ingegnavano li legati quanto potevano di consolarli e persuaderli che tutto era stato permesso da Sua Santitá a buon fine. Ma essi replicavano che a qualunque fine sia permesso, e qualunque cosa ne segua, non si torrá mai la nota fatta non solo al pontefice e sede apostolica, ma al concilio e a tutta la Chiesa. Né potevano li legati resistere alle loro querele, le quali poi terminavano tutte in dimandar licenza di partire; alcuni allegando necessari e importanti loro affari, altri per ritirarsi in alcune delle cittá vicine, per infirmitá o indisposizione. E se bene li legati non concedevano licenza a nessuno, alcuni alla giornata se l’andavano prendendo, sí che inanzi il fine del mese di settembre restarono pochissimi.
Ma in Roma, se ben per la negoziazione del Cardinal Farnese si prevedeva che cosí dovesse essere, nondimeno, dopo succeduto, si cominciò a pensarci con maggior accuratezza. Si consideravano li fini dell’imperatore molto differenti da quello che era intenzione del pontefice; perché Cesare, col tener le cose cosí in sospeso, faceva molto bene il fatto suo con la Germania, dando speranza alli protestanti che, se fosse compiaciuto, non averebbe lasciato aprire il concilio, e mettendoli anco in timore che, non compiaciuto, l’averebbe aperto e lasciato procedere contra di loro. Per il che faceva anco nascere sempre novi emergenti che tenessero le cose in sospeso, trasportando dolcemente il tempo sotto diversi colori, e alle volte proponendo anco che fosse meglio transferirlo altrove; dando anco speranza di contentarsi che si transferisse in Italia, e anco a Roma, acciocché piú facilmente il papa e li prelati italiani porgessero orecchie alla proposta e tirassero il concilio in longo.
Il pontefice era molto angustiato: alle volte si eccitava in lui il desiderio antico de’ suoi precessori che il concilio non si celebrasse, e condennava se stesso d’avere camminato questa volta tanto inanzi; vedeva però di non potere senza gran scandolo o pericolo mostrar apertamente di non volerlo, con dissolver quella poca di congregazione che era in Trento; vedeva chiaramente che per estinguer l’eresie non era utile rimedio, perché per quello che s’aspettava all’Italia, era piú ispediente con la forza e con l’officio dell’inquisizione provvedere, dove che l’espettazione del concilio impediva questo che era unico rimedio. Quanto alla Germania, appariva ben chiaramente che il concilio piuttosto difficoltava che facilitava quelle cose: nel rimanente, ancora celebrandosi, aveva gran dubbio se dovesse concedere all’imperatore li mezzi frutti e vassallatici de’ monasteri di Spagna; perché non facendolo, Sua Maestá ne sarebbe restata sdegnata; facendolo, dubitava che nel concilio scoprissero li prelati spagnoli alienazione d’animo da lui e dalla sede apostolica, che ad altri donava quello che a loro apparteneva. Vedeva anco una mala sodisfazione nelli prelati del Regno, a’ quali averebbe parso intollerabile il pagare le decime e insieme stare su le spese nel concilio: giudicava che quelli di Francia si sarebbono accostati con loro e fomentatili, non per caritá, ma per impedire li comodi dell’imperatore. Per il che cominciò voltare l’animo alla translazione, purché non si trattasse di portarlo piú dentro in Germania, come era stato trattato in Vormes; il che non voleva acconsentir mai (diceva egli), se ben s’avesse avuto cento ostaggi e cento pegni: massime che col transferirlo piú dentro in Italia, in luogo piú fertile, comodo e sicuro, li pareva fuggir l’inconveniente di continuare in quello stato e tener il concilio sopra le áncore e tirarlo di stagione in stagione, peggior deliberazione che si potesse fare per infiniti e perpetui pregiudici che potrebbono succedere; oltre che col tempo che la translazione portava, era rimediato al male presente, che era aver un concilio in concorrenzia d’un colloquio e d’una dieta instituita per causa di religione, non sapendo che fine né l’uno né l’altro potessero avere (cosa disonorevole e pericolosa e di mal esempio); e si soddisfaceva alli prelati col partire da Trento. Cosí deliberato, per esser provvisto a far opportunamente l’esecuzione, mandò alli legati la bolla di facoltá per transferirlo, data sotto 22 febbraro, della qual sopra s’è detto.
Non occupavano questi pensieri né tutto né la principal parte dell’animo del pontefice, sí che non pensasse molto piú all’infeudazione di Parma e Piacenza nella persona del figlio, quale aveva a Cesare comunicata: e la mandò ad effetto nel fine d’agosto, senza rispetto all’universal mormorio che, mentre si trattava di reformar il clero, il capo donasse principati ad un figlio di congionzione dannata, e quantonque tutto ’l collegio lo sentisse male, se ben solo Giovan Dominico de Cupis, cardinale de Trani, con l’aderenza di alcuni pochi si opponesse, e Giovanni Vega ambasciator imperiale ricusasse intervenirvi; e Margarita d’Austria sua pronuora, che averebbe voluto l’investitura in persona del marito, perché perdeva il titolo di duchessa di Camerino e non ne acquistava altro, se ne mostrasse scontenta. Dipoi, voltato tutto ad uscire dalle difficultá e pericoli che portava il concilio, stando cosí né aperto né chiuso, ma sí ben in termine di poter servire all’imperatore contra di lui, deliberò di mandar il vescovo di Caserta per trattar con Sua Maestá, proponendo che si aprisse e se gli dasse principio, o vero si facesse una suspensione per qualche tempo; e quando questo non fosse piaciuto, la translazione in Italia, per dar tempo onestamente a quello che si fosse trattato nel colloquio e dieta; o qualche altro partito che non fosse cosí disonorevole e pericoloso per la chiesa, come era lo star il concilio in pendente con li legati e prelati ociosi.
Questa negoziazione s’incamminò con varie difficoltá; perché l’imperatore era risoluto di non consentire né a suspensione né a translazione; né parendogli utile alli suoi fini l’apertura, non negava assolutamente alcuna delle proposte; né avendo altro partito, non sapeva che altro fare, se non interpor difficoltá alle tre proposte. Finalmente nel mezzo di ottobre trovò temperamento che il concilio si aprisse e trattasse della reformazione, soprassedendo dalla trattazione delle eresie e de’ dogmi, per non irritar li protestanti. Il pontefice, avvisato per lettere dal noncio, fu toccato nell’intimo del cuore. Vedeva chiaro che questo era dare la vittoria in mano a’ luterani e spogliar lui di tutta l’autoritá, facendolo dependere dalli colloqui e diete imperiali, con ordinar, in quelle, trattazioni di religione e vietarle al concilio, e indebolirlo con alienarli li suoi per via di riforma, e fortificar li luterani col sopportar o non condannar le eresie loro. E certificato in se stesso che gl’interessi suoi e quei di Cesare, per la contrarietá, non potevano unirsi, deliberò tenire li suoi fini occulti e operare come metteva conto alle cose sue. Però, senza mostrar alcuna displicenza della risposta, replicò immediate al Caserta che per compiacer a Sua Maestá deliberava di aprir il concilio senza interposizione di tempo, comandando che si dasse principio agli atti conciliari, procedendo tutti con piena libertá e con debito modo ed ordine. Il che disse il pontefice cosí con parole generali, per non esprimersi quali cose dovessero essere prima o dopo proposte e trattate, o lasciate in tutto, essendo risoluto che le cose della religione e de’ dogmi fossero principalmente trattate; senza addur altra ragione, quando fosse costretto dirne alcuna, se non che il trattar della riforma sola era una cosa mai piú usata, contraria alla riputazione sua e del concilio. Per il che l’ultimo di ottobre, avendo comunicato il tutto con li cardinali, di loro conseglio e parere stabili e scrisse anco a Trento che il concilio dovesse esser aperto per la futura domenica Gaudete dell’avvento, la qual doveva esser a’ 13 decembre.
Arrivata la nova, li prelati mostrarono grandissima allegrezza, vedendo d’essere liberati dal pericolo, che li pareva soprastare, di rimaner in Trento longamente e senza operare cosa alcuna. Ma poco dopo tornarono in campo le ambiguitá, perché arrivarono lettere dal re di Francia alli suoi prelati, che erano tre, di dover partire. Alli legati ciò parve cosa importantissima, essendo come una dechiarazione che la Francia ed il re non approvassero il concilio. Tentarono ogni pratica per impedire quella partita: dicevano alli tre prelati che quell’ordine era dato dal re in un altro stato di cose e che bisognava aspettarne un altro novo da Sua Maestá, poi che avesse inteso il presente; raccordando lo scandolo che ne sarebbe successo altrimenti facendo, e l’offesa che averebbono ricevuto le altre nazioni. Il Cardinal di Trento ancora, e li prelati spagnoli e italiani protestavano che non fossero lasciati partire. Per il che finalmente presero temperamento che solo monsignor di Rennes partisse per dar conto, al re, e gli altri doi rimanessero; il che, quando fu saputo dal re, fu anche lodato.