Istoria del Concilio tridentino/Libro secondo/Capitolo II
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CAPITOLO II
(dicembre 1545-gennaio 1546).
[Cerimonia di apertura del concilio. — Lettura delle bolle e del decreto di sessione. — Esortazione dei legati e discorso del vescovo di Bitonto. — I legati chiedono istruzioni varie a Roma. — Sguardo retrospettivo all’origine e procedura dei concili. — Il papa esenta i prelati del concilio dal pagamento delle decime. Il cardinale del Monte propone la procedura del concilio lateranense. — Contrasti sul titolo da darsi al concilio. — Sessione seconda: ancora la questione del titolo. — Opinioni varie sull’ordine da seguirsi nella trattazione: il papa per la precedenza ai dogmi, l’imperatore alla riforma. — Si decide la contemporanea trattazione dei dogmi e della riforma.]
L’ultimo di novembre, avvicinandosi il tempo prefisso all’apertura, scrissero li legati a Roma che per conservare l’autoritá della sede apostolica conveniva nell’aprirlo legger e registrare una bolla che lo comandasse; e spedirono in diligenzia, acciocché potesse venir a tempo. Arrivò la risposta colla bolla alli 11 decembre; per il che il giorno seguente li legati comandarono un degiuno e processione per quel dí, e fecero una congregazione de tutti li prelati, dove prima fu letta la soprannominata bolla e poi trattato di tutto quello che si aveva da fare il dí seguente nella sessione. Il vescovo di Astorga con dolcissima maniera propose che fosse necessario legger in congregazione il breve della legazione e presidenza, acciò fosse una professione dell’obedienza e soggezione di tutti loro alla sede apostolica. La quale richiesta fu approvata da quasi tutta la congregazione, anco con instanza particolare di ciascuno. Ma il legato Santa Croce, considerando dove poteva la dimanda capitare, e che il pubblicare l’autoritá della presidenza sarebbe stato con pericolo che fosse limitata, riputando meglio, con tenerla secreta, poterla usare come gli accidenti comportassero, rispose prontamente che nel concilio tutti erano un solo corpo, e che tanto sarebbe stato necessario legger le bolle di ciascun vescovo, per mostrare che egli era tale e instituito dalla sede apostolica; che sarebbe cosa longa, e per quelli che veniranno alla giornata occuperebbe tutte le congregazioni. E con questo mise fine all’instanza, e ritenne la dignitá della legazione, che consisteva in esser illimitata.
Venne finalmente il 13 di decembre, quando in Roma il papa pubblicò una bolla di giubileo, dove narrava aver intimato il concilio per sanar le piaghe causate nella Chiesa dagli empi eretici. Per il che esortava ognuno ad aiutar li padri congregati in esso con le loro preghiere appresso Dio; il che per far piú efficacemente e fruttuosamente, dovessero confessarsi, digiunare tre diì, e nelli medesimi intervenire alle processioni e poi ricever il santissimo Sacramento, concedendo perdono di tutti li peccati a chi cosí facesse. E l’istesso giorno in Trento li legati con tutti li prelati, che erano in numero venticinque, in abito pontificale, accompagnati dalli teologi, dal clero e dal popolo forestiero e della cittá, fecero una solenne processione dalla chiesa della Trinitá alla cattedrale. Dove gionti, il Monte primo legato cantò la messa dello Spirito Santo, nella quale fu fatto un longo sermone dal vescovo di Bitonto con molta eloquenza; e quella finita, fecero legger li legati un’ammonizione de scripto, molto longa, la somma della quale era: esser carico loro nel corso del concilio ammonire li prelati in ogni occorrenza; era giusto dar principio in quella prima sessione, intendendo però di far tanto quell’ammonizione, quanto tutte le altre a se stessi ancora, come della stessa condizione con loro; che il concilio era congregato per tre cause: per estirpazione dell’eresia, restituzione della disciplina ecclesiastica e recuperazione della pace; per esequire le quali cose prima conveniva aver un vero ed intimo senso d’esser stati causa di tutte tre quelle calamitá. Dell’eresie, non per averle suscitate, ma non avendo fatto il debito in seminar buona dottrina e sradicar la zizzania. Delli corrotti costumi non essere bisogno far menzione, essendo manifesta cosa che il clero e li pastori soli erano e li corrotti e li corruttori. Per le quali cause anco Iddio aveva mandato la terza piaga, che era la guerra, cosí esterna de’ turchi, come civile tra cristiani. Che senza questa interna e vera recognizione in vano entravano in concilio, in vano averebbono invocato lo Spirito Santo. Essere giusto il giudicio di Dio che li castigava sì fattamente, però con pena minor del merito. Per il che esortavano ognuno a conoscere li suoi falli, a mitigar l’ira di Dio, replicando che non sarebbe venuto lo Spirito Santo da loro invocato, se ricusassero udir li propri peccati e ad esempio di Esdra, Neemia e Daniele confessarli, e aggiongendo essere gran beneficio divino l’occasione di principiar il concilio per restaurare ogni cosa. E se ben non mancheranno oppugnatori, nondimeno essere loro carico operare con costanzia, e come giudici guardarsi dagli affetti e attender alla sola gloria divina, dovendo far quest’ufficio inanzi Dio, gli angeli e tutta la Chiesa. Ammonirono in fine li vescovi mandati dalli principi a far il servizio de’ loro signori con fede e diligenza, preponendo però la reverenzia divina ad ogn’altra cosa. Dopo questa fu letta la bolla dell’intimazione del concilio del 1542 e un breve della semplice deputazione delli legati, con la bolla dell’apertura del concilio letta in congregazione. E immediate si fece inanzi Alfonso Zorilla, secretario di don Diego, e riprodusse il mandato dell’imperatore, giá presentato alli legati, aggiongendo una lettera di don Diego, nella quale scusava l’assenzia sua per indisposizione. Dalli legati fu risposto, quanto all’escusazione, che era ben degna d’esser ammessa; quanto al mandato dissero che, se ben potevano insistere nella resposta fatta al sopraddetto tempo, nondimeno li piaceva per maggior riverenza riceverlo di novo ed esaminarlo, dovendo poi darne risposta.
Le qual cose fatte secondo il rito del ceremoniale romano, s’ingenocchiarono tutti a far l’orazione con voce sommessa, accostumata in tutte le sessioni, e poi la pubblica: Adsumus Domine etc. Sancti Spiritus etc., che il presidente dice ad alta voce in nome di tutti; e cantate le letanie, dal diacono fu letto l’Evangelio: Si peccaverit in te frater tuus, e finalmente cantato l’inno Veni Creator Spiritus; e sentati tutti a’ propri luochi, il Cardinal del Monte con la propria voce prononciò il decreto per parole interrogative, leggendo se piaceva alli padri, a laude di Dio, estirpazione delle eresie, reformazione del clero e populo, depressione delli inimici del nome cristiano, determinar e dechiarar che il sacro tridentino e general concilio incominciasse e fosse incominciato. Al che tutti risposero, prima li legati, poi li vescovi e altri padri, per la parola placet. Soggionse poi se, attesi li impedimenti che dovevano portare le feste dell’anno vecchio e novo, li piaceva che la sequente sessione si facesse a’ 7 di gennaro, e risposero parimente che li piaceva. Il che fatto, Ercole Severolo, promotor del concilio, fece instanza alli notari che del tutto facessero instromento. Si cantò l’inno Te Deum, e li padri, spogliati gli abiti pontificali e vestiti li comuni, accompagnarono li legati, camminando inanzi loro la croce. Le qual ceremonie essendo state usate nelle seguenti sessioni similmente, non si replicaranno piú.
Stavano la Germania e Italia in gran curiositá d’intendere le prime azioni di questo consesso con tante difficoltá principiato, e li prelati e loro familiari, che si ritrovavano in Trento, incaricati dagli amici di avvisarnegli. Per il che immediate dopo la sessione fu mandato per tutto copia dell’ammonizione delli legati e dell’orazione del Bitonto, le quali furono anco presto poste in stampa. De le quali per narrare ciò che fosse detto comunemente, è necessario prima riferire in sommario il contenuto dell’orazione. Quella ebbe principio dal mostrar la necessitá di concilio, per esser passati cento anni dopo la celebrazione del fiorentino, e perché le cose ardue e difficili, alla Chiesa spettanti, non si possono ben trattar se non in quello. Perché nelli concili sono stati fatti dei simboli, dannate l’eresie, emendati li costumi, unite le nazioni cristiane, mandato gente all’acquisto di Terra Santa, deposti re e imperatori, ed estirpati li scismi. E che per ciò li poeti introducono li concili delli dei. E Moisè scrive che furono voci conciliari il decreto di fare l’uomo e di confonder le lingue delli giganti. Che la religione ha tre capi: dottrina, sacramenti e caritá, che tutti tre chiamano concilio. Narrò le corruttele entrate in tutti tre questi, per restituir li quali il papa col favor dell’imperatore, delli re di Francia, de’ romani e de Portogallo, e di tutti li principi cristiani, ha redotta la sinodo e mandati li legati. Fece digressione longhissima in lode del papa, un’altra poco piú breve in commendazione dell’imperatore; lodò poi li tre legati, traendo le commendazioni dal nome e cognome di ciascuno di essi. Soggionse che, essendo il concilio congregato, tutti dovevano, adunarsi a quello come al caval di Troia. Invitò li boschi di Trento a risuonare per tutto ’l mondo che tutti si sottomettino a quel concilio; il che se non faranno, si dirá con ragione che la luce del papa è venuta al mondo e gli uomini hanno amato piú le tenebre che la luce. Si dolse che l’imperatore non fosse presente, o almeno Diego che lo rappresentava. Si congratulò col cardinale Madruccio, che nella sua cittá il papa avesse congregato li padri dispersi ed erranti. Si voltò alli prelati e disse che aprir le porte del concilio è aprir quelle del paradiso, di donde debbia descender l’acqua viva per empir la terra della scienza del Signore. Esortò li padri ad emendarsi e aprir il cuore come terra arida per riceverla, soggiongendo che se non lo faranno, lo Spirito Santo nondimeno aprirá loro la bocca, come quella di Caifas e di Balaam, acciò fallando il concilio non falli la Chiesa santa, restando però le menti loro ripiene di spirito cattivo. Li esortò a deponer tutti gli affetti per poter degnamente dire: «È parso allo Spirito Santo e a noi». Invitò la Grecia, Francia, Spagna e Italia e tutte le nazioni cristiane alle nozze. In fine si voltò a Cristo, pregandolo, per l’intercessione di san Vigilio, tutelar della val di Trento, ad assistere a quel concilio.
L’ammonizione delli legati fu stimata pia, cristiana e modesta, e degna de’ cardinali; ma il sermone del vescovo fu giudicato molto differente: la vanitá e ostentazione di eloquenzia era notata da tutti. Ma le persone intelligenti comparavano, come sentenzia santa ad una empia, quelle ingenue e verissime parole delli legati, «che senza una buona recognizione interna in vano s’invocarebbe lo Spirito Santo», col detto del vescovo tutto contrario, «che senza di quella anco sarebbe dallo Spirito Santo aperta la bocca, restando il cuore pieno di spirito cattivo». Era stimata arroganza l’affirmare che errando quei pochi prelati, la Chiesa tutta dovesse fallare, quasi che altri concili di settecento vescovi non abbiano errato, ricusando la Chiesa di ricevere la loro dottrina. Aggiongevano altri questo non esser conforme alla dottrina de’ pontefici che non concedono infallibilitá se non al papa, e al concilio per virtú della conferma papale. Ma l’aver comparato il concilio al caval di Troia, che fu macchina insidiosa, era notato d’imprudenza e ripreso d’irreverenza. L’aver ritorto le parole della Scrittura che Cristo, e la dottrina sua, luce del Padre, è venuto al mondo, e gli uomini hanno preferito le tenebre alla luce, facendo che il concilio, o sua dottrina, sia la luce del papa apparsa al mondo, che se non fosse ricevuta si dovesse dire: «Gli uomini hanno amato piú le tenebre che la luce», era stimata una biastema; e si desiderava almeno non fossero prese le parole formali della divina Scrittura, per non mostrar cosí apertamente di vilipenderla.
Ma in Trento, fatta l’apertura, non sapevano ancora né li prelati né li legati medesimi che cosa si dovesse trattare, né che modo si dovesse servare. Per il che, dando conto delle cose fatte inanzi e in quella, scrissero li legati a Roma una lettera degna di esser reportata in tutte le sue parti. Prima dicevano aver statuito la seguente sessione al giorno dopo l’Epifania, come termine da non poter esser tassato né di soverchia prolongazione né di troppa brevitá, acciocché fra tanto potessero esser avvisati come doveranno governarsi nelle altre sessioni; sopra che desideravano aver lume. E perché potrebbono esser interpellati ad ogn’ora di diverse cose, le quali non avessero spacio di avvisare e aspettar risposta, ricercavano che se li mandasse un’instruzione piú particolare che fosse possibile; che sopra tutto desideravano esser avvertiti quanto al modo e forma di procedere e di propor e risolvere, e quanto alle materie da trattare. Dimandarono specialmente se le cause dell’eresie averanno da esser le prime, e se si averanno da trattar generalmente o in particolare, dannando la falsa dottrina, o le persone degli eretici famosi principali, o l’uno e l’altro insieme; se proponendosi dalli prelati qualche articolo di riforma, alla quale pare che ognuno miri, si doverá trattarne insieme con l’articolo della religione, o prima, o dopo; se il concilio ha da intimar a’ populi e nazioni il suo principio, invitando li prelati e prencipi ed esortando li fideli a pregar Dio per il buon progresso, o se Sua Santitá vorrá farlo essa. Se occorrerá scriver qualche lettera missiva o responsiva, che forma s’averá da usare e che sigillo; similmente che forma s’averá da usare nella estensione del li decreti: se doveranno mostrar di sapere o dissimular il colloquio e dieta che si faranno in Germania; se nel proceder doveranno andare tardi o presto, cosí nel determinar le sessioni, come nel proponere le materie. Avvisarono esser pensiero d’alcuni prelati che si proceda per nazione; il qual modo essi tenevano per sedizioso, ché averebbe fatto ammutinar insieme quelli di ciascuna, e che il maggior numero degl’italiani, che sono li piú fedeli alla sede apostolica, non averebbe giovato, quando il voto di tutti insieme fosse stato d’ugual valore a quello di pochi francesi o spagnoli o tedeschi. Avvisarono anco che si penetrava altri aver disegnato di disputare della potestá del concilio e del papa, cosa pericolosa per far nascer un scisma tra li cattolici medesimi; e nella congregazione dei 12 si vidde che tutti li prelati unitamente persistevano in voler veder il mandato della loro facoltá; il che con molta arte li era bisognato fuggir di mostrare, non sapendo ancora come si doveva intendere la loro presidenza, e quanto la Santitá sua disegnasse di farla valere. Dimandavano ancora che fossero ordinate le cavalcate per tutta la via, acciocché potessero ogni giorno e ogni ora, secondo le occorrenze, mandar e ricever avvisi; ricercavano qualche ordine circa la precedenzia degli oratori de’ prencipi e provvisione de danari, poiché due mila scudi mandatili qualche giorno inanzi erano spesi nelle provvisioni delli vescovi poveri.
Instavano li prelati che si dasse principio all’opera: per il che li legati, per darli qualche satisfazione e per mostrare di non star in ozio, alli 18 fecero una congregazione, dove però non fu proposto altro che il modo del vivere e conversare e di tener le famiglie in ufficio: e molte cose furono dette contra l’uso introdotto, massime in Roma, di portare l’abito di prelato nella ceremonia solamente, e del rimanente vestir da secolare: represe ugualmente le vesti sontuose, come le abiette e sordide: dell’etá ancora della servitú fu detto molto, ma il tutto rimesso ad esser risoluto ad un’altra congregazione: la qual si tenne alli 22, e si consumò tutta in ragionamenti di simil ceremonie, con conclusione che era principalmente necessaria una buona reformazione nell’animo; perché, avendo per mira il decoro al grado conveniente e l’edificazione del populo, ciascuno vederá che rimediare in sé e nella fameglia sua.
Ma il papa, ricevuto l’avviso dell’apertura del concilio, deputò una congregazione di cardinali e curiali per sopraintendere e consegliare le cose di Trento. Con questi consultando, risolse le cose non esser ancora in stato che si potesse veder chiaro che materie trattare e con che ordine; fece rispondere alli legati che non conveniva alla sinodo invitar né principi né prelati, meno invitar alcuno ad aiutarli con le orazioni, perché questo era fatto da lui sufficientemente con la bolla del giubileo, e quello con le lettere della convocazione; che parimente non era da pensare che la sinodo scrivesse ad alcuno, potendo supplire essi legati con lettere proprie loro, scritte per nome comune. Per quello che tocca la estensione delli decreti, dovessero intitolare: la sacrosanta ecumenica e general sinodo tridentina, presedendo li legati apostolici. Ma quanto alla forma del dar i voti, essere ottime le ragioni loro di non introdur di farlo per nazioni, e tanto piú, quanto quel modo non fu mai usato dall’antichitá, ma introdotto dal constanziense, e seguito dal basiliense, che non si devono imitare; ma essendo il modo usato nell’ultimo lateranense ottimo e decentissimo, seguissero quello, potendo anco con quell’esempio recente e ben riuscito serrar la bocca a chi ne proponesse altro. E per quello che tocca la condanna degli eretici e le materie da trattare, e delle altre cose da loro richieste, che opportunamente gli sarebbe dato ordine: tra tanto, secondo il costume degli altri concili, si trattenessero nelle cose preambule: che la presidenza loro fosse mantenuta con quel decoro che conviene a legati della sede apostolica, procurando insieme col decoro dar anco sodisfazione a tutti; ma sopra ogni cosa usando diligenza che li prelati non uscissero delli termini della onesta libertá e riverenza verso la sede apostolica.
Era cosa piú urgente l’aiutar li prelati che potessero far le spese: per questo mandò un breve, nel quale esentava dalle decime tutti li prelati del concilio, e li concedeva la participazione di tutti li frutti ed emolumenti in assenzia, tanto quanto se fossero stati presenti; mandò anco due mila scudi per sovvenir li vescovi indigenti, ordinando che si facesse senza aver rispetto che ciò fosse pubblicato, poiché, risaputosi ancora, non poteva esser interpretato se non officio amorevole de un capo del concilio.
Questo luoco ricerca, per le cose dette e che si diranno in varie occasioni circa il modo di dire li pareri in concilio, chiamato «dir li voti», che si dica come anticamente si faceva e come s’è pervenuto all’usato in questi tempi. L’adunanza di tutta una Chiesa per trattare in nome di Dio le occorrenzie per la dottrina e disciplina è cosa antichissima, usata dalli santi apostoli nell’elezione di Mattia e delli sette diaconi; e a questo sono assai simili li concili diocesani: ma del convenir persone cristiane da piú luochi e lontani per trattar insieme vi è il celebre esempio degli Atti apostolici, quando Paulo e Barnaba con altri di Soria convennero in Gerusalem con gli apostoli e altri discepoli che quivi si ritrovarono, sopra la questione dell’osservanzia della legge. E se ben si potrebbe dire che fosse stato un ricorso delle chiese di gentili nove ad una vecchia matrice, di onde la fede era a loro derivata (che per longo tempo fu usato in quei primi secoli, e da Ireneo e da Tertulliano spesso spesso si commemora), e la lettera sia scritta dalli soli apostoli, «vecchi» e fratelli gerosolimitani, nondimeno, avendo parlato non solo essi ma ancora Paulo e Barnaba, si può con ragione chiamar concilio. Coll’esempio del quale li vescovi che successero dopo, tenendo che tutte le chiese cristiane fossero una e che li vescovati tutti fossero parimente un solo, cosí formato, del quale ciascun ne tenesse una parte non come propria, ma sì che tutti dovessero regger tutto, occupandosi però ciascuno piú in quella che gli era specialmente raccomandata (come san Cipriano nell’aureo libretto dell’Unitá della Chiesa piamente dimostra), occorrendo bisogno di qualsivoglia particolar chiesa, con tutto che alcune volte le persecuzioni ardessero, si congregavano insieme quelli che potevano, per ordinar in comune la provvisione. Nelle qual adunanze presedendo Cristo e lo Spirito Santo, né avendo luogo gli affetti umani ma la caritá, senza ceremonie né formule prescritte consegnavano e risolvevano quanto occorreva. Ma dopo qualche progresso di tempo, con la caritá meschiatisi gli affetti umani, essendo necessario regolarli con qualche ordine, il principale tra li congregati in concilio o per dottrina, o per grandezza della cittá o della chiesa, o per qualche altro rispetto d’eminenza, pigliava carico di proponer e guidare l’azione e raccogliere li pareri. Ma dopo che piacque a Dio dare pace alli fedeli, e che li principi romani ricevettero la santa fede, occorrendo piú spesso difficoltá nella dottrina e disciplina, le quali, anco per l’ambizione o altri affetti cattivi di quei che avevano séguito e credito, turbavano la quiete pubblica, ebbe origine un’altra sorte di adunanze episcopali congregate dalli principi o prefetti loro, per trovar rimedio alle turbe. In questi l’azione era guidata da quei principi o magistrati che li congregavano, intervenendo essi nelle azioni, proponendo, guidando la trattazione e decretando per interlocutoria le differenze occorrenti, restando al comun parere del consesso la definizione del capo principale per che era congregata l’adunanza. Questa forma apparisce nelli concili, de’ quali gli atti restano. Si può portar per esempio il colloquio de’ cattolici e donatisti inanzi Marcellino, e altri molti. Ma per parlar solo de’ concili generali, questo si vede nel concilio efesino primo, inanzi Candidiano conte, mandato per presedere dall’imperatore; e piú chiaramente nel calcedonense generale, inanzi Marziano e giudici da lui deputati; nel constantinopolitano di Trullo, inanzi Constantino Pogonato, dove il prencipe o magistrato presidente comanda che cosa si debbia trattare, che ordine tenere, chi debbia parlar, chi tacere, e nascendo differenza in queste cose, le decide e accomoda. E negli altri generali, de’ quali gli atti non restano, come del primo niceno e del secondo constantinopolitano, attestano gl’istorici di quei tempi che l’istesso fecero Constantino e Teodosio. In questi stessi tempi non s’intermessero però quelli altri, quando li stessi vescovi da loro medesimi s’adunavano; e l’azione era guidata, come s’è detto, da uno di loro, e la risoluzione presa secondo il comun parere. La materia trattata alle volte era di breve risoluzione, sì che in un consesso si espediva; alle volte per la difficoltá o multiplicitá aveva bisogno di reiterati, onde vengono le molte sessioni nel medesimo concilio. Nessuna era di ceremonia, né per solo pubblicar cose digeste giá altrove, ma per intendere il parer di ciascuno; erano chiamati atti del concilio li colloqui, le discussioni, le dispute e tutto quello che si faceva o diceva. È nova openione e praticata poche volte, se ben in Trento è stabilita, che li soli decreti siano atti del concilio, e soli debbiano esser dati in luce, ché negli antichi tutto si dava a tutti. Intervenivano notari per raccogliere li voti, li quali, quando un vescovo parlava non contradicendo alcuno, non scrivevano il nome proprio di quello, ma usavano di scrivere cosí: «la santa sinodo disse». E quando molti dicevano l’istesso, si scriveva: «li vescovi esclamarono», o vero «affermarono»; e le cose cosí dette erano prese per definizioni. Se parlavano in contrario senso erano notate le contrarie opinioni e li nomi degli autori; e li giudici o presidenti decidevano. Avveniva senza dubbio qualche impertinenza alle volte per l’imperfezione d’alcuno; ma la caritá, che iscusa li defetti del fratello, le ricopriva. Interveniva numero maggiore della provincia dove il concilio si teneva e delle vicine, ma senza emulazione, desiderando ognuno piú di ubidire che di prescrivere legge ad altri.
Separato l’occidentale dall’orientale Imperio, restò nondimeno qualche vestigio anco in occidente di quei concili che da principio erano congregati; e si vedono molti sotto la posteritá di Carlo Magno in Francia e Germania, e sotto li re goti in Spagna non poco numero. In fine, esclusi a fatto li principi d’intromettersi nelle cose ecclesiastiche, di questa sorte di concilio si perse l’uso, e restò quella sola che dai medesimi ecclesiastici è convocata. La quale anco fu quasi che tirata tutta nel solo pontefice romano, col mandar suoi legati a preseder, dovunque intendeva che si trattasse di far concilio; e dopo qualche tempo attribuí anco a sé quella facoltá, che da’ principi romani fu usata, di convocar concilio di tutto l’Imperio e presedervi essendo presente, e, non essendo, mandarvi chi per nome suo presedesse e guidasse l’azione. Ma nelli prelati redotti nella sinodo, levato il timore del principe mondano che li conteneva in officio, siccome li rispetti mondani, cause di tutti gl’inconvenienti, crescevano in immenso, (il che moltiplicava le indecenze), si diede principio a digerire e ordinare le materie in secreto e privato, per poter servar nel pubblico consesso il decoro. Poi questo fu preso per forma, e nacquero nelli concili, oltre le sessioni, le congregazioni di alcuni deputati ad ordinar le materie; le quali da principio, quando erano moltiplici, si ripartivano, assignando a ciascuna la propria congregazione. Né bastando ancora questo a rimovere tutte le indecenze, (perché gli altri non intervenuti, avendo li interessi differenti, movevano difficoltá in pubblico), oltre la congregazione particolare s’introdusse la generale inanzi la sessione, dove tutti intervenissero; la qual, chi risguarda il rito antico, essa veramente è l’azione conciliare, perché la sessione, andando a cosa fatta, resta pura ceremonia. Poco piú d’un secolo è passato, poi che gl’interessi fecero nascere tra li vescovi di diverse nazioni qualche competenza; onde le lontane, che di poco numero erano, non volendo sopportar d’esser superate dalle vicine numerose, per pareggiarle tra loro fu necessario che ciascuna si congregasse da sé, e per numero de voti facesse la sua deliberazione, e l’universale difinizione fosse stabilita non per voti de’ singolari, ma per pluralitá de voti delle nazioni. Cosí fu servato nelli concili di Costanza e Basilea; il che si come è uso molto proprio dove si governa in libertá, quale era allora quando il mondo era senza papa, cosí poco sarebbe stato appropriato in Trento, dove si ricercava concilio soggetto al pontefice. E questa fu la ragione perché li legati in Trento e la corte a Roma facevano cosí gran capitale della forma di procedere, e della qualitá e autoritá della presidenza.
Imperò, gionta la risposta da Roma, chiamarono la congregazione il di 5 gennaro 1546, nella quale, dopo aver il Monte salutati e benedetti tutti da parte del pontefice, fece legger il breve suddetto dell’esenzione delle decime. Li legati tutti tre fecero come tre encomi, l’uno dopo l’altro, mostrando la buona volontá del pontefice verso le persone delli padri. Ma alcuni spagnoli dissero che questa era una grazia fatta dal papa di maggior danno che beneficio, essendo l’accettarla una confessione che il papa può imponere gravezze alle altre chiese, e che il concilio non ha autoritá né di proibirlo, né di esentare quelli che giustamente non doverebbono esser compresi: il che non solo dispiacque alli legati, ma fu anco ributtato da loro con qualche parole mordaci. Altri delli prelati dimandarono che la grazia fosse estesa anco alli loro familiari e a tutte le persone che si ritroverebbono in concilio. Li generali delli ordini parimente dimandavano l’istessa esenzione, allegando le spese che convenivano far li loro monasteri per li frati condotti da essi al concilio. Catalano Triulzio, vescovo di Piacenza, arrivato due giorni prima, narrò pubblicamente che, passando poco lontano dalla Mirandola, era stato svaligiato, e dimandò che in concilio si facesse un’ordinazione contra quelli che impedivano o molestavano li prelati e altre persone che andassero al concilio. Li legati, mettendo insieme questa proposta con la pretensione d’esenzione detta di sopra, considerarono quanto potesse importar che il concilio mettesse mano in simile materia, facendo editti per propria esaltazione, e che questo era un tentar gli arcani della gerarchia ecclesiastica: divertirono con molta destrezza, allegando che sarebbe parso al mondo una novitá e un troppo risentimento, e offerendosi di operare col pontefice che provvedesse alla sicurezza delle persone e avesse considerazione alli familiari delli prelati e alli frati. E cosí acquetarono tutti.
E passando alle azioni conciliari, il Cardinal del Monte narrò il modo tenuto nel concilio lateranense ultimo, nel quale egli intervenne arcivescovo sipontino. Disse che, trattandosi allora della prammatica di Francia, del scisma introdotto contra Giulio II e della guerra tra’ prencipi cristiani, furono fatte tre deputazioni de prelati sopra quelle materie, acciò ciascuna congregazione occupata in una sola potesse meglio digerirla; che formati li decreti, si faceva congregazione generale, dove ciascuno diceva il voto suo; e secondo quelli, erano meglio reformate le resoluzioni, in modo che nella sessione le cose passavano con somma concordia e decoro: che piú moltiplice era quello che da loro doveva esser trattato, avendo li luterani mosso ogni pietra per sovvertire l’edificio della fede; però che sará necessario dividere le materie, e in ciascuna ordinar congregazioni particolari per disputarle; far deputati a formare li decreti da esser proposti in congregazione generale, dove ognuno dirá il parer suo; quale acciò sia intieramente libero, essi legati avevano deliberato di far solamente ufficio di proponenti, e non dir suo voto, ma questo fare nelle sessioni solamente. Che tutti pensassero le cose necessarie da trattare, per dover dar qualche principio, fatta la sessione che instava. Che allora proponevano, se piaceva loro, che si pubblicasse nella sessione un decreto formato circa il modo di vivere cristianamente in Trento durante il concilio.
Il qual letto col titolo La sacrosanta ecc., sì come fu da Roma mandato, fecero instanza li francesi che si dovesse aggiongerli: «rappresentante la Chiesa universale», la qual opinione fu seguita da gran parte delli vescovi con universale assenso. Ma li legati, considerando che questo era titolo usato dal constanziense e basiliense solamente, e che l’imitarli era un renovar la loro memoria e darli qualche autoritá e aprire porta all’ingresso delle difficoltá che la chiesa romana ebbe in quei tempi; e, quello che piú importava, avvertendo che dopo aver detto «rappresentante la Chiesa universale», averebbe potuto venir pensier ad alcuni d’aggionger anco le seguenti parole, cioè: «che tiene potestá immediate da Cristo, alla quale ciascuno, eziandio di degnitá papale, è tenuto di ubidire», si opposero gagliardamente e (come essi scrissero a Roma) con parole formali si appontarono contra, non esplicando però al li padri le vere cause, ma solo con dire che erano parole ampullose e invidiose, e che gli eretici gli averebbono dato sinistra interpretazione; e s’adoperarono ciascuno d’essi tre senza scoprir il secreto, prima con arte e poi con lasciarsi intender liberamente di non volerlo permettere, sì che fecero acquietar il moto universale, se ben li francesi e alcuni altri pochi restarono fermi nella loro proposta.
Ed alli legati prestò grand’aiuto Gioanni di Salazar vescovo di Lanciano, spagnolo di nazione, il qual, avendo commendato in molte parole li primi concili della Chiesa per l’antichitá e santitá degl’intervenienti, lodò che fossero imitati nel titolo usato da loro molto semplice, senza espressione di rappresentazione o di quale o quanta autoritá la sinodo abbia. Non piacque però quello che continuò dicendo: che ad esempio di quelli si doveva tralasciar anco la nominazione delli presidenti, che non si vede mai usata in nessun concilio vecchio, solo incominciata dal constanziense, che per causa del scisma mutò piú volte presidenti: soggiongendo che se l’esempio di quello fosse da seguire, bisognerebbe anco nominar l’ambasciator dell’imperatore, perché allora fu nominato il re de’ romani e anco li principi che erano con lui, ma questa fastositá esser aliena dalla umiltá cristiana. E fece repetizione del discorso fatto dal Cardinal Santa Croce delli 12 decembre, inerendo al quale concludeva che si dovesse tralasciar anco il far menzione di presidenzia. Diede alli legati questa proposta maggior pensiero che la precedente; nondimeno il cardinale del Monte presentaneamente rispose li concili aver parlato diversamente secondo le occorrenze che li tempi portavano; per li tempi passati il papa esser stato sempre riconosciuto come capo nella Chiesa, né mai da alcuno esser stato dimandato concilio con questa condizione, che fosse independente dal papa, come li tedeschi adesso arditamente; alla qual eretical temeritá conveniva sempre in ogni azione repugnare, mostrandosi di esser congionti col capo, che è il pontefice romano, facendo menzione delli suoi legati. Parlò longamente in questa materia, la qual sapendo che con la diversione era piú facile sostentare che persuadere, procurò che si passasse ad altro.
La contenenza del decreto fu approvata da tutti; ma essendovi in esso una particola dove ognuno era esortato a pregar Dio per il papa, per l’imperatore e per li re, fecero instanza li prelati francesi che si facesse nominatamente menzione di quello di Francia. Il che lodando il cardinale Santa Croce, ma soggiongendo che averebbe convenuto fare simile specificazione di tutti al loco loro, che era cosa longa e piena di pericolo per la precedenza, replicarono li francesi che il papa nella bolla della convocazione aveva fatta menzione del solo imperatore e re di Francia, e però conveniva, seguendo l’esempio, o nominar ambidua o nessuno di essi. Si riferirono li legati a pensarci, dando intenzione che ognuno resterebbe sodisfatto.
Il dì 7 di gennaro adonque tutti li prelati, vestiti in abito comune, si congregarono in casa del primo legato, da dove partendosi con la croce inanzi s’inviarono alla chiesa cattedrale. Dal contado di Trento furono congregati nella cittá trecento fanti armati parte di picche, parte di archibusi, con alquanti cavalli, quali si misero in fila da ambe le parti della strada, dalla casa fino alla chiesa; ed entrati in chiesa li legati e prelati, redotta tutta la soldatesca in piazza, si sparò l’archibusaria, e la soldatesca restò nella piazza a far la guardia a quella sessione. Oltre li legati e il Cardinal di Trento si ritrovarono quattro arcivescovi, ventotto vescovi, tre abbati della congregazione cassinense e quattro generali, li quali stavano sedendo nel luoco della sessione: queste quarantatre persone constituivano il concilio generale. Degli arcivescovi, doi erano portativi, mai veduti dalle chiese de quali avevano il titolo, solo per causa d’onore datogli dal pontefice: uno Olao Magno, con nome di arcivescovo upsalense in Gozia, e l’altro Roberto Venanzio scozzese, arcivescovo d’Armacano in Ibernia, il quale, uomo di brevissima vista, era commendato di questa virtú, di correr alla posta meglio d’uomo del mondo. Questi doi, sostentati in Roma qualche anni per limosina del papa, furono mandati a Trento per crescer il numero e dependere dalli legati. In piedi erano circa venti teologi. Vi intervenne l’ambasciator del re de’ romani e il procuratore del Cardinal d’Augusta, che sedettero nella banca degli oratori; e appresso loro sulla stessa banca sedevano dieci gentiluomini delli circonvicini, eletti dal Cardinal di Trento. Fu cantata la messa da Gioanni Fonseca vescovo di Castellamare, fece il sermone nella messa Coriolano Martirano vescovo di San Marco.
Finita la messa, li prelati si vestirono pontificalmente, e furono fatte le letanie e orazioni, come nella sessione prima. Quali finite e seduti tutti, il vescovo celebrante, montato nel pulpito, lesse la bolla di sopra menzionata, che non fossero ammessi li procuratori de assenti a dar voto; e non si fece menzione d’un’altra nella quale erano eccettuati quelli di Germania. Dappoi lesse il decreto, nel quale la sinodo esortava tutti li fedeli congregati in Trento a viver nel timor di Dio e pregar ogni giorno per la pace delli principi e unitá della Chiesa, e le persone del concilio a dire messa almeno la dominica, e pregar per il papa, imperatore, re e principi e per tutti, e degiunar e far limosine, esser sobri, instruir li loro familiari. Esortava anco tutti, massime li letterati, a pensar accuratamente le vie e modi di propulsar le eresie, e nelli consessi usare modestia nel parlare. E di piú ordinò che se alcuno non sedesse al luoco suo, o dasse voto, o vero intervenisse nelle congregazioni, a nessun fosse fatto pregiudicio né acquistata nova ragione. Il qual letto, interrogati li padri, risposero placet; ma li francesi aggionsero che non approvavano il titolo cosí imperfetto, e vi ricercavano l’aggionta: universalem Ecclesiam repræsentans. In fine fu ordinata la futura sessione per il di 4 febbraro e licenziati li padri; quali, deposti gli abiti pontificali, nelli comuni accompagnarono li legati in casa, col medesimo ordine che erano alla chiesa venuti, il quale fu in tutte le seguenti sessioni osservato.
Dopo la sessione non fu tenuta congregazione sino alli 13 gennaro, perché Pietro Paceco, vescovo di Jaén, creato cardinale novamente, che aspettava da Roma la berretta, senza quale la ceremonia non li concedeva trovarsi in luochi pubblici, aveva desiderio d’intervenirci, dovendosi in quella metter ordine che nella sessione non avvenissero piú inconvenienti. Redotta la congregazione, li legati si dolsero di quelli che avevano fatto opposizione al titolo nel giorno della sessione; mostrarono che non era decoro in quel luoco pubblico far apparir diversitá d’opinioni; le congregazioni farsi acciò ognuno possi dir il suo parere in luoco retirato, per dover esser tutti conformi in quello che s’ha da pubblicare; nessuna cosa dover piú sbigottire gli eretici e dare costanza alli cattolici quanto la fama dell’unione. Discesero alla materia del titolo, considerando che nessuno era più conveniente di quello che li dava il pontefice nella convocazione ed in tante altre bolle, dove era nominato ecumenico e universale; al che superfluamente s’aggiongerebbe rappresentazione, essendo pieni li libri quello che sia o rappresenti un tal concilio legittimamente inditto e cominciato; che altrimenti facendo, si mostrava di dubitare della sua autoritá e assomigliarlo a qualche altro concilio; che perciò si aveva dato quel titolo, perché conoscendo mancare dell’autoritá legittima, voleva supplir con le parole, accennando il basiliense e constanziense: però a fine di fare stabile resoluzione, ognuno dovesse dir sopra ciò il voto suo.
Il Cardinal Paceco entrò a dire: il concilio esser ornato di molti e molti titoli, quali tutti se fossero da usar in tutte le occasioni, l’espressione di quelli sarebbe sempre maggiore che il corpo del decreto; ma sì come un grand’imperatore, possessore di molti regni e stati, per ordinario nelli editti non usa se non il titolo dal quale l’editto riceve forza, e bene spesso senza alcun titolo prepone il nome suo proprio, cosí questo concilio secondo le materie che si tratteranno doverá valersi di diversi titoli per esplicar l’autoritá sua: adesso che si sta nelli preparatorii, non vi è necessitá di usarne alcuno. Il vescovo di Feltre considerò che li protestanti avevano richiesto un concilio, dove con voto decisivo intervenessero essi ancora; e se si mettesse per titolo del concilio che egli rappresenti la Chiesa universale, caveranno di qui argomento: «adonque debbono intervenirci di tutti gli ordini della Chiesa universale, li quali essendo due, clericale e laicale, non può esser intieramente rappresentata se l’ordine laicale è escluso». Ma del rimanente anco quelli che nella sessione assentirono al titolo semplice, furono d’opinione che fosse supplito. Il vescovo di Santo Marco disse che impropriissimamente li laici si possono dire Chiesa; perché, come li canoni determinano, non hanno alcuna autoritá di comandare, ma solo necessitá di ubidire; e questa essere una delle cose le quali doveva questo concilio decretare: che li secolari debbino umilmente ricevere quella dottrina della fede che gli è data dalla Chiesa, e non ne disputar, né meno pensarvi piú oltre. E però appunto conviene usar il titolo che la sinodo rappresenta la Chiesa universale, per farli saper che essi non sono la Chiesa, ma debbono ascoltar e obedir alla Chiesa. Molte cose furono dette; e si passò inanzi senza piú ferma conclusione, con stabilir solamente che per la sequente sessione si usasse il titolo semplice, come nella passata.
Questo finito, perché avevano fatta instanza certi prelati che ormai si dovesse venire alle cose sostanziali, per sodisfargli fu proposto dalli legati che si pensasse sopra li tre capi contenuti nelle bolle del pontefice, cioè l’estirpazione delle eresie, reformazione della disciplina e stabilimento della pace; in che modo si aveva da entrar in quelle trattazioni, che via s’avesse da tenere e come s’avesse da procedere; e pregassero Dio che illuminasse tutti, e ciascuno dicesse il suo parere nella prima congregazione. In fine furono presentati alcuni mandati de vescovi assenti, e furono deputati l’arcivescovo d’Ais, il vescovo di Feltre e quello d’Astorga a veder il ponto dell’escusazione e riferir in congregazione.
Li legati il giorno seguente scrissero a Roma che si vedeva quella amplificazione del titolo, con l’aggionta del rappresentar la Chiesa universale, esser cosa tanto popolare e piacer cosí a tutti, che facilmente poteva ritornar in trattazione; e però desideravano saper la volontá di Sua Santitá, se dovevano persistere in negarlo o compiacerli, massime in occasione che si avesse da far qualche decreto importante, come in condannar eresie o simili cose. Avvisarono ancora d’aver fatta la proposta per la seguente congregazione cosí in genere, per secondar il desiderio delli prelati, che era di entrar nelle cose essenziali, e metter nondimeno tempo in mezzo sin che venisse da Sua Santitá l’instruzione richiesta. Aggionsero appresso, il Cardinal Paceco esser avvisato che l’imperator aveva dato ordine a molti vescovi spagnoli, persone di esemplaritá e di dottrina, che andassero al concilio: per il che giudicavano esser necessario che Sua Santitá mandasse dieci o dodici prelati de’ quali si potesse fidare, e fossero ancora per le altre qualitá atti a comparire, acciò crescendo il numero de li oltramontani, massime uomini rari e di esemplaritá e dottrina, trovassero riscontro in qualche parte, perché di quelli che sin allora si trovavano in Trento, li ben intenzionati esser di poche lettere e minor prudenza, quelli di qualche sapere scoprirsi uomini di disegno e difficili da maneggiare.
Nella seguente congregazione, ridotta alli 18 per sentire li pareri di tutti sopra le proposte della precedente, le sentenze furono quattro. Li imperiali dissero che il capo dei dogmi non si poteva toccar con speranza di frutto, essendo di bisogno prima con una buona riforma levare le transgressioni di onde sono nate l’eresie, allargandosi assai in questo campo e concludendo che, fin a tanto che non cessa lo scandolo che piglia il mondo per la desformazione dell’ordine ecclesiastico, non sará mai creduta cosa che predicheranno o affermeranno nella dottrina, essendo tutti persuasi che si debbia guardar li fatti, non le parole; né doversi pigliar esempio dalli concili vecchi, perché in quei tempi o non vi era corruttela delli costumi, o quella non era causa dell’eresia. Ed in fine il metter dilazione al trattar della riforma esser un mostrarsi incorriggibili.
Alcuni altri pochi giudicavano d’incominciare dai dogmi e successivamente passar alla reforma, allegando che la fede è il fondamento e la base del viver cristiano; che non si comincia mai ad edificare dal tetto, ma dalli fondamenti; che maggior peccato era errar nella fede che nelle altre azioni umane, e che il capo dell’estirpar l’eresie era posto per primo nelle bolle ponteficie. Una terza opinione fu che malamente si potevano disgiongere li due capi della riformazione e della fede, non essendovi dogma che non abbia aggionto il suo abuso, né abuso che non tiri appresso la mala interpretazione e il mal senso di qualche dogma; onde era necessario di trattarli in un medesimo tempo; aggiongendo che avendo tutto il mondo gli occhi a questo concilio, e aspettando il rimedio non meno alle cose della fede che a quelle dei costumi, si satisferia meglio col trattarli ambidoi insieme, che l’uno dopo l’altro: massime che secondo la proposta del Cardinal del Monte si farebbono diverse deputazioni, trattando una parte questa materia e l’altra quell’altra. Il che si doveva accelerar di fare, considerando il presente tempo, quando la cristianitá è in pace, essere precioso e da non perdere, non sapendo che impedimenti potesse apportar il futuro: dovendosi anco studiare ad abbreviar il concilio quanto si poteva, acciò le chiese restassero manco tempo private delli loro pastori, e per molti altri rispetti; accennando quello che poteva nascere a longo andare, con poco gusto del pontefice e della corte romana.
Alcuni altri ancora, tra’ quali furono li francesi, dimandavano che si mettesse per principale il capo della pace; che si scrivesse all’imperatore, al re cristianissimo e alli altri prencipi, rendendo grazie per la convocazione del concilio, per continuar il quale volessero stabilir la pace e coadiuvar l’opera con mandar loro oratori e prelati; e parimente si scrivesse amicabilmente alli luterani, invitandoli con caritá a venir al concilio e congiongersi col rimanente della cristianitá. Li legati, uditi li pareri di tutti e lodata la loro prudenzia, dissero che per esser l’ora tarda e la deliberazione gravissima e le sentenzie varie, averebbono pensato sopra quanto era stato raccordato da ciascuno, e nella prima congregazione averebbono proposto i ponti per determinare.
Fu preso ordine che le congregazioni si facessero due volte alla settimana, il luni e il venere, senza intimarle: e in fine l’arcivescovo d’Ais, avendo ricevuto lettere dal re cristianissimo, salutò per suo nome la sinodo e promise che Sua Maestá presto manderia un ambasciatore e molti prelati del suo regno. E qui la congregazione finì.
Li legati avvisarono del tutto Roma, scrivendo che avevano portato inanzi la resoluzione delle cose trattate sotto li pretesti narrati, ma in veritá per metter tempo di piú in mezzo, aspettando che potessero venirli instruzioni e ordini come reggersi; supplicando Sua Santitá di novo di far intender la sua volontá, ponderando sopra tutte le altre considerazioni che l’allongar il concilio e tenerlo aperto, potendo abbreviarlo, non fa per la sede apostolica; aggiongendo esser stati necessitati a stabilire due congregazioni alla settimana per tener li prelati in esercizio e levarli l’occasione di farne da loro stessi. Ma che questo fará cominciare le cose a stringersi: e però sará necessario che in Roma si pigli maniera di risolver le proposte presto, e non tardar a risponderli, come sino allora si era fatto, ma tenerli avvisati di quanto doveranno far di mano in mano, con preveder anco li casi quanto sará possibile. E poiché per molte lettere avevano scritto esservi molti poveri vescovi andati al concilio sotto la speranza e le buone promesse di Sua Santitá e del Cardinal Farnese, lo replicarono anco allora, aggiongendo che non si pensasse di trattarli cosí alla domestica in Trento come in Roma, dove non avendo alcuna autoritá stanno umili e soggetti; perché quando sono al concilio, pare loro dover esser tutti stimati e mantenuti. Il che quando non si pensi di fare, sará meglio pensar di non averli in quel luoco, che averli mal satisfatti e disgustati: concludendo che quella impresa non si poteva condur a buon fine senza diligenzia e senza spendere.
Parerebbe maraviglia ad ognuno che il pontefice, persona prudentissima e versata nei maneggi, in tanto tempo, a tante instanze delli suoi ministri, non avesse dato risposta a due particolari cosí importanti e necessari: ma la Santitá sua fondava poco sopra il concilio: tutti li suoi pensieri erano volti alla guerra che il Cardinal Farnese aveva trattato con l’imperatore l’anno inanzi, e non si poteva contenere che non ne facesse dimostrazione; né l’imperatore richiedeva progresso di concilio, per li fini del quale allora bastava che restasse aperto.
Ma li prelati, che volevano incominciar dalla riforma e lasciar a dietro li dogmi, aiutati dalli ministri imperiali, attesero a tirar nel voto suo gli altri; cosa che fu assai facile, per esser la riforma universalmente desiderata e poco creduta; e moltiplicarono tanto in numero, che li legati si trovarono confusi. Onde per loro stessi e per mezzo degli aderenti fecero diversi uffici privati, e finalmente nella congregazione dei 22, tutti tre, un dopo l’altro, si posero a sbatter li fondamenti che si allegavano in favor della riforma. Fece grand’impressione una ragione tratta dalla proposta di Cesare nella dieta di Vormes il maggio passato, quando disse che si stasse a vedere che progresso faceva il concilio nelle definizioni dei dogmi e nella riforma; che non ne facendo alcuno, intimeria un’altra dieta, dove le differenzie nella religione si accordassero e li abusi si correggessero: arguendo di qua che se non si trattasse de dogmi, si canonizzeria il colloquio e la dieta futura, e non si potrebbe con buona ragione impedir che in Germania non si trattasse della religione quello che si ricusava di trattar in concilio.
Fu nella congregazione un gran prelato e ricco, il quale con orazione meditata attese a mostrar che non bisognava mirar se non alla reforma, esagerando molto la desformazione comune d’ogni parte del clero, e inculcando che fin che li vasi nostri non si mondassero, lo Spirito Santo non poteva abitarvi, e per consequente non si poteva sperare alcun retto giudicio nelle cose della fede.
Ma il Cardinal Santa Croce, preso di qua il parlare, disse che era molto ben ragione non differir niente la riformazione di quei medesimi che avevano a maneggiar il concilio; ma che quella era ben facile ed ispedita, e si poteva metter subito in esecuzione, senza ritardar il capo dei dogmi, per se stesso intricato e di longa digestione. Lodò molto quel prelato d’aver raccordato cosa cosí santa e di buon esempio, perché incominciando da se stessi si poteva riformar tutto il resto del mondo con facilitá, esortando tutti con efficaci parole a venirne alla pratica. Questa sentenzia fu ben da tutti lodata, ma non fu seguita, dicendo molti che la riforma doveva esser universale, e non si doveva perder tempo in quella particolare: per il che fu concluso da tutti, eccettuati doi soli, che li articoli della religione e della reformazione fossero trattati di pari, sì come di pari sono desiderati da tutto il mondo e giudicati necessari, e insieme proposti nelle bolle di Sua Santitá. Restarono contenti li legati di quella resoluzione, se ben averebbono desiderato piuttosto trattar della sola fede, tralasciata la riforma. Ma tanto era il timore che avevano di esser costretti a trattar della reformazione sola, che reputavano total vittoria il mandarle ambedue insieme, pensando anco che finalmente la loro opinione di tralasciar la riforma era pericolosa, volendo resister a tutti li prelati e a tutti li stati di cristianitá che la dimandavano, e non potendosi fare senza molto scandolo e infamia. Il qual partito, preso da loro costretti da mera necessitá, quando a Roma non fosse piaciuto, non averebbono potuto lamentarsi d’altri che di loro stessi, tante volte sollecitati a rispondere alle lettere e mandar le instruzioni necessarie.
Fu poi deliberato di scriver al pontefice, ringraziandolo della convocazione e apertura del concilio, supplicandolo a mantenerlo e favorirlo, e ad interporsi appresso li principi cristiani per il mantenimento della pace tra loro, ed eccitargli a mandar ambasciatori al concilio. Ordinarono anco di scrivere all’imperatore, al re di Francia, de’ romani, di Portogallo e altri re cattolici per la conservazione della pace, per la missione delli ambasciatori, per l’assicurazione delle strade, e perché eccitassero li loro prelati a comparir personalmente in concilio: e la cura di scriver queste lettere fu data al vescovo di San Marco, per esser lette e fermate nella futura congregazione.
Diedero fuori li legati due ponti, sopra quali dovessero li padri aver considerazione e dire il voto loro: il primo, se nella sessione prossima si doveva pronunciar il decreto che sempre fossero trattati insieme li capi della fede e quelli della riforma correspondenti; il secondo, in che modo si ha da procedere in eleggere li due capi e in trattarli ed esaminarli. Pensarono li legati con queste proposizioni aversi scaricato dalla importuna richiesta di alcuni di stabilire in ogni congregazione qualche cosa di sustanziale, e insieme d’avere mostrato di tenir conto delli prelati.
La congregazione seguente si consumò nel leggere le molte lettere formate e nel disputare del sigillo con che serrarle, proponendo alcuni che fossero sigillate in piombo con bolla propria della sinodo; nella quale chi voleva che da una parte fosse impressa l’immagine dello Spirito Santo in forma di colomba, dall’altra il nome della sinodo, e chi raccordava altre forme, che tutte tenevano del specioso. Ma li legati, che avevano altro ordine da Roma, lasciato disputar alli padri sopra questo, divertirono la proposta con dire che aveva del fastoso e che protraeva il tempo, poiché averebbe convenuto mandar a Venezia per farne la forma, non essendo in Trento artefice sufficiente per un’opera tale; soggiongendo che s’averebbe pensato meglio dopo, e che era necessario spedir le lettere allora; che si poteva fare col nome e sigillo del primo legato. Il rimanente fu rimesso alla seguente congregazione.
Nella quale parlandosi sopra li due ponti giá proposti, per il primo essendo due opinioni: una, che il decreto fosse formato e pubblicato, l’altra, che non era ben ubligarsi con decreto, ma conservarsi in libertá per poter deliberar secondo le opportunitá, si prese la via di mezzo di far menzione solamente che la sinodo era congregata principalmente per quelle due cause, senza passar più inanzi. Ma quanto al secondo ponto, sentiva la maggior parte che, essendo congregati per dannar l’eresia luterana, conveniva seguir l’ordine della loro confessione; il qual parere fu da altri contradetto, perché sarebbe un seguire li colloqui tenuti in Germania, che era un abbassar la dignitá del concilio; e perché essendo li doi primi doi capi della confessione augustana, uno della Trinitá, l’altro dell’Incarnazione, nelli quali vi era concordia in sostanza, ma espressi con novo modo e inusitato nelle scuole, quando fossero approvati quelli, se gli sarebbe data riputazione e fatto pregiudicio al condannar li seguenti; e quando s’avesse voluto, non approvandoli né dannandoli, parlarne non con li termini di quella confessione, ma con li scolastici o con altri, portava pericolo d’introdur nove dispute e novi scismi. Alli legati, che non miravano se non di portar il tempo inanzi, piaceva sentir le difficoltá, e studiosamente le nodrivano, dando destramente fomento ora all’uno ora all’altro.