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libro secondo - capitolo i 203


che nel concilio scoprissero li prelati spagnoli alienazione d’animo da lui e dalla sede apostolica, che ad altri donava quello che a loro apparteneva. Vedeva anco una mala sodisfazione nelli prelati del Regno, a’ quali averebbe parso intollerabile il pagare le decime e insieme stare su le spese nel concilio: giudicava che quelli di Francia si sarebbono accostati con loro e fomentatili, non per caritá, ma per impedire li comodi dell’imperatore. Per il che cominciò voltare l’animo alla translazione, purché non si trattasse di portarlo piú dentro in Germania, come era stato trattato in Vormes; il che non voleva acconsentir mai (diceva egli), se ben s’avesse avuto cento ostaggi e cento pegni: massime che col transferirlo piú dentro in Italia, in luogo piú fertile, comodo e sicuro, li pareva fuggir l’inconveniente di continuare in quello stato e tener il concilio sopra le áncore e tirarlo di stagione in stagione, peggior deliberazione che si potesse fare per infiniti e perpetui pregiudici che potrebbono succedere; oltre che col tempo che la translazione portava, era rimediato al male presente, che era aver un concilio in concorrenzia d’un colloquio e d’una dieta instituita per causa di religione, non sapendo che fine né l’uno né l’altro potessero avere (cosa disonorevole e pericolosa e di mal esempio); e si soddisfaceva alli prelati col partire da Trento. Cosí deliberato, per esser provvisto a far opportunamente l’esecuzione, mandò alli legati la bolla di facoltá per transferirlo, data sotto 22 febbraro, della qual sopra s’è detto.

Non occupavano questi pensieri né tutto né la principal parte dell’animo del pontefice, sí che non pensasse molto piú all’infeudazione di Parma e Piacenza nella persona del figlio, quale aveva a Cesare comunicata: e la mandò ad effetto nel fine d’agosto, senza rispetto all’universal mormorio che, mentre si trattava di reformar il clero, il capo donasse principati ad un figlio di congionzione dannata, e quantonque tutto ’l collegio lo sentisse male, se ben solo Giovan Dominico de Cupis, cardinale de Trani, con l’aderenza di alcuni pochi si opponesse,

e Giovanni Vega ambasciator imperiale ricusasse intervenirvi;