Istoria del Concilio tridentino/Libro primo/Capitolo IV
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CAPITOLO IV
(1530-settembre 1534).
[Inizio della dieta d’Augusta, presenti l’imperatore e il legato Campegio. — I protestanti presentano la loro professione di fede (confessione augustana). Impressioni e discussioni suscitate da essa. — Vano tentativo d’accordo. — Recesso imperiale del 19 novembre, sostanzialmente contrario ai protestanti. — Malcontento del papa per l’ingerenza di Carlo V nelle cose di religione. — Sua lettera ai principi, con promessa di concilio. — Lettera di difesa dei protestanti. — I re di Francia e d’Inghilterra dichiaransi favorevoli al concilio. — Resistenza dei protestanti al recesso imperiale: Carlo V indice una dieta a Ratisbona. — Lotte fra i cantoni svizzeri: morte di Zuinglio. — Insistenze dell’imperatore presso il papa per il concilio. — Esigendo il papa che si faccia in Italia, e generale, le trattative s’interrompono. — Carlo V, necessitandogli la pace interna, concede libertá di religione fino al concilio (transazione di Norimberga). — Nuovo incontro del papa e dell’imperatore a Bologna. — Invio del legato Rangoni in Germania per trattare del concilio: i protestanti convocati a Smalcalda rigettano le sue proposte. — Il papa s’accorda col re di Francia, che si sforza invano di far accettare ai protestanti un concilio secondo i desideri papali.— Enrico VIII e lo scisma d’Inghilterra. — Nuove trattative di concilio, interrotte dalla morte di Clemente VII.]
Partí l’imperator da Bologna con questa ferma risoluzione di operare nella dieta con autoritá e con l’imperio, sí che li principi separati ritornassero all’obedienzia della chiesa romana, e di proibire le prediche e libri della rinnovata dottrina; ed il pontefice li diede in compagnia il Cardinal Campegio come legato, che lo seguisse nella dieta. Mandò ancora Pietro Paulo Vergerio noncio al re Ferdinando, dandoli instruzione di operar con lui che nella dieta non si disputasse né si deliberasse cosa alcuna della religione, né meno si risolvesse di far concilio in Germania a questo effetto; e per aver questo prencipe favorevole, il qual, come fratello di Cesare e che era giá stato tanti anni in Germania, pensava che dovesse poter molto, li concesse di poter cavar una contribuzione dal clero di Germania per la guerra contra i turchi, e di potersi anco valere delli ori e argenti deputati ad ornamento delle chiese.
Alla dieta arrivarono quasi tutti li principi inanzi Cesare, il qual vi gionse a’ 13 di giugno, vigilia della festa del Corpus Domini, ed intervenne alla processione il giorno seguente, non avendo però potuto ottenere che li principi protestanti si contentassero di esser presenti. La qual cosa essendo sentita con estremo dispiacere dal legato per il pregiudicio fatto al pontefice con quella (diceva egli) contumacia, per superar questo passo e far intervenir alle ceremonie della chiesa romana li protestanti, fu autore che Cesare otto giorni dopo, dovendosi dar principio alla radunanza, ordinò all’elettore di Sassonia che portasse la spada inanzi, secondo il suo ufficio, nell’andar e star alla messa. All’elettore pareva di contravvenir alla professione sua se condiscendeva, e di perder la dignitá sua ricusando, avendo presentito che sopra la sua ripugnanza Cesare era per dar l’onore ad un altro. Ma fu consegliato da’ suoi teologi discepoli di Lutero che senza alcun’offesa della sua conscienzia poteva farlo, intervenendo come ad una ceremonia civile, non come a religiosa, con l’esempio del profeta Eliseo, il qual non ebbe per inconveniente che il capitano della milizia di Sona, convertito alla vera religione, s’inchinasse nel tempio dell’idolo quando s’inchinava il re appoggiato sopra il suo braccio. Conseglio che da altri non era approvato, potendosi da quello concludere che a ognuno fosse lecito intervenire a tutti li riti d’altra religione come a ceremonie civili, non mancando a qualsivoglia persona ragione di necessitá o vero utilitá, che l’induca all’intervento. Ma altri, approvando il conseglio e la deliberazione dell’elettore, concludevano appresso che, se li novi dottori avessero usato per il passato ed usassero all’avvenire questa ragione, in molte occasioni non sarebbe aperta la porta a diversi inconvenienti. dovendo con quell’esempio esser lecito a ciascuno, per conservar la dignitá propria o lo stato suo o la grazia del suo signore o di altra persona eminente, non ricusar di prestar assistenza a qualonque azione, in quale, se ben gli altri intervenissero come ad atto religioso, esso vi assistesse come a cosa civile.
In quella messa, inanzi l’offertorio, fece un’orazione latina Vincenzo Pimpinella, arcivescovo di Rossano, noncio apostolico, nella quale non parlò ponto di cosa alcuna spirituale o religiosa, ma solo rimproverò alla Germania i’aver sopportato tanti mali dai turchi senza vindicarsi, e con molti esempi delli capitani antichi della repubblica romana li esortò alla guerra contra loro. Il disvantaggio della Germania disse esser perché li turchi obedivano a un solo prencipe, dove in Germania molti non rendevano obedienzia; che li turchi vivono in una religione e li germani ogni giorno ne fabbricano di nove e si ridono della vecchia come rancida; li riprese che, volendo far mutazione di fede, non n’avessero cercato almeno una piú santa e piú prudente; che imitando Scipion Nasica, Catone, il populo romano e i loro maggiori, averebbono osservato la cattolica religione; li esortò finalmente a lasciar quelle novitá ed attender alla guerra.
Nel primo consesso della dieta il Cardinal Campegio, legato, presentò le lettere della sua legazione e fece un’orazione latina nel convento in presenzia di Cesare; la sostanza della quale fu che delle tante sette, le quali in quel tempo regnavano, la causa era la caritá e benevolenzia estinte; che la mutazione della dottrina e dei riti aveva non solo lacerata la Chiesa, ma orribilmente destrutto ogni polizia. Al qual male per rimediare, li pontefici passati avendo mandato legazioni alle diete e non essendosi fatto frutto, Clemente aveva inviato lui per esortar, consegliar ed operar quel tutto che avesse potuto per restituir la religione. E lodato l’imperatore, esortò tutti ad ubidire quello che ordinerá e resolverá nelle cause della religione e intorno gli articoli della fede. Esortò alla guerra contr’a’ turchi, promettendo che il papa non perdonerá a spesa per aiutarli. Li pregò per amor di Cristo, per la salute della patria e loro propria, che, deposti gli errori, attendessero a liberar la Germania e tutto il cristianesmo: che cosí facendo, il papa, successor di san Pietro, li dava la benedizione.
All’orazione del legato, di ordine dell’imperatore e della dieta, rispose il Magontino che Cesare, per debito di supremo avvocato della Chiesa, tenterá tutti li mezzi per componer le discordie, impiegherá tutte le sue forze nella guerra contr’a’ turchi, e tutti li principi si giongeranno con lui, operando sí fattamente che le loro azioni saranno approvate da Dio e dal papa. Udite dopo questo altre legazioni, l’elettor di Sassonia, con li principi e cittá protestanti congionte seco, presentò all’imperatore la confessione della loro fede scritta in latino e in tedesco, facendo instanzia che fosse letta. Né volendo l’imperator che si leggesse in quel pubblico, fu rimesso questo al giorno seguente; quando il legato, per non ricever qualche pregiudicio, non volle intervenire. Ma congregati li principi inanzi all’imperatore in una sala capace di circa dugento persone, fu ad alta voce letta: e le cittá che seguivano la dottrina di Zuinglio separatamente presentarono la confessione della loro fede, non differente dalla su detta se non nell’articolo dell’eucaristia.
La confessione dei prencipi, che poi, da questo comizio dove fu letta, si chiamò augustana, conteneva due parti. Nella prima erano esposti gli articoli della loro fede in numero ventuno: della unitá divina, del peccato originale, dell’incarnazione, della giustificazione, del ministerio evangelico, della Chiesa, del ministerio dei sacramenti, del battesimo, dell’eucaristia, della confessione, della penitenzia, dell’uso dei sacramenti, dell’ordine ecclesiastico, delli riti della Chiesa, della repubblica civile, del giudicio finale, del libero arbitrio, della causa del peccato, della fede, delle buone opere, del culto dei santi. Nella seconda erano esplicati li dogmi differenti della chiesa romana e gli abusi che li confessionisti reprobavano; e questi erano esplicati in articoli sette assai longamente distesi: della santa comunione, del matrimonio dei preti, della messa, della confessione, della distinzione de’ cibi, dei voti monacali e della giurisdizione ecclesiastica. Si offerivano in fine, bisognando, di presentar ancora informazione piú ampia. Ma nel proemio di essa esposero aver messo in scritto la sua confessione per obedir alla proposta di Sua Maestá che tutti dovessero presentarli la loro opinione; e però se anco gli altri principi daranno in scritto le loro, sono apparecchiati di conferir amicabilmente per venir ad una concordia. Alla quale quando non si possi pervenire, avendo la Sua Maestá in tutte le precedenti diete fatto intendere di non poter determinare e concludere alcuna cosa in materia di religione per diversi rispetti allora allegati, ma ben esser per operare col pontefice romano che sia congregato un concilio generale; e finalmente avendo fatto dir nel convento di Spira che, essendo vicino a componersi le differenzie tra Sua Maestá e l’istesso pontefice, non si poteva piú dubitare che il papa non fosse per acconsentir al concilio, si offerivano di comparire e di render ragione e difender la loro causa in un tal general, libero e cristiano consesso, del qual si è sempre trattato nelle diete celebrate gli anni del suo imperio. Al qual concilio anco, ed a Sua Maestá insieme, hanno in debita forma di ragione appellato; alla qual appellazione ancora aderiscono, non intendendo né per questo trattato né per alcun altro abbandonarla, se la defferenzia non sará prima in caritá redotta a concordia cristiana.
In quel giorno non si passò ad altro atto. Ma l’imperatore, prima che far risoluzione alcuna, volle aver l’avviso del legato; il quale, letta e considerata, con li teologi d’Italia condotti, la confessione, se ben il giudicio loro fu che si dovesse oppugnare e pubblicare sotto nome di lui una censura, con tutto ciò egli, prevedendo che avrebbe dato occasione di maggiori tumulti e dicendo chiaramente che, quanto alla dottrina, in buona parte la differenza gli pareva verbale e poco importava dire piú ad un modo che all’altro, e non esser ragionevole che la sede apostolica entri in parte nelle dispute o delle scole, non consentí che il suo nome fosse posto nelle contenzioni. E all’imperatore fece risposta che non faceva bisogno per allora entrar in stretto esamine della dottrina, ma considerare l’esempio che s’averebbe dato a tutti li spiriti inquieti e sottili, a’ quali non averebbono mancato infinite altre novitá da proporre con non minore verisimilitudine, le quali avidamente sarebbono state udite, per il prurito d’orecchie che eccitano nel mondo le novitá. E quanto agli abusi notati, il correggerli causerebbe maggiori inconvenienti di quelli che si pensa rimediare. Il suo parere esser che, essendo letta la dottrina de’ luterani, per levare il pregiudicio fosse letta una confutazione parimente, la quale non si pubblicasse in copie per non aprir strada alle dispute, e s’attendesse col mezzo del negozio ad operare che li protestanti ancora s’astenessero dal camminar piú inanzi, proponendo favori e minacce. Ma la confessione letta, negli animi de’ cattolici che l’udirono fece diversi effetti: alcuni ebbero li protestanti per piú empi di quello che si erano persuasi prima che fossero informati delle loro particolari opinioni; altri in contrario remisero molto del cattivo concetto in che li avevano, riputando li loro sensi non tanto assurdi quanto avevano stimato: anzi, quanto a gran parte degli abusi, confessavano che con ragione erano ripresi. Non è da tralasciare che il Cardinal Matteo Langi, arcivescovo di Salzburg, a tutti diceva esser onesta la riforma della messa, e conveniente la libertá nei cibi, e giusta la dimanda d’esser sgravati di tanti precetti umani; ma che un misero monaco riformi tutti, non esser cosa da sopportare. E Cornelio Sceppero, secretario dell’imperatore, disse che se li predicatori protestanti avessero denari, facilmente comprerebbono dagl’italiani qual religione piú li piacesse; ma senza oro non potevano sperare che la loro potesse rilucere nel mondo.
Cesare, conforme al conseglio del legato, approvato dalli conseglieri propri ancora, desideroso di componer il tutto con la negoziazione, cercò prima di separar gli ambasciatori delle cittá dalla congionzione con li principi; il che non essendo riuscito, fece fare una confutazione della scrittura dei protestanti ed un’altra a parte di quella che produssero le cittá: e convocata tutta la dieta, disse alli protestanti d’aver considerato la confessione presentatali e dato ordine ad alcuni pii ed eruditi di doverne far il loro giudicio. E qui fece leggere una confutazione di essa, nella quale, tassate molte delle opinioni loro, nel fine si confessava nella chiesa romana esser alcune cose che meritavano emendazione, alle quali Cesare prometteva che sarebbe provveduto; e però dovessero li protestanti rimettersi a lui e ritornar alla Chiesa, certificandoli che ottenirebbono ogni loro giusta dimanda: ma, altrimenti facendo, egli non mancherebbe di mostrarsi protettore e defensore di quella.
Li prencipi protestanti si offerirono pronti per far tutto quello che si poteva, salva la conscienzia, e, se con la Scrittura divina in mano li fosse mostrato esser qualche errore nella loro dottrina, di correggerlo; o se vi fosse bisogno di maggior dechiarazione, dechiararla. E perché, delli capi proposti da loro, alcuni nella confutazione gli erano concessi, altri rifiutati, se della confutazione li fosse data copia, si esplicherebbono piú chiaramente.
Dopo molte trattazioni, finalmente furono eletti sette delli cattolici e sette delli protestanti, i quali conferissero insieme per trovar modo di composizione; né potendo convenire, il numero fu restretto a tre per parte; e se ben furono accordati alcuni pochi ponti di dottrina meno importanti e altre cose leggieri appartenenti ad alcuni riti, finalmente si vide che la conferenza non poteva in modo alcuno terminar a concordia, perché nessuna delle parti si disponeva a conceder le cose importanti all’altra. Consumati molti giorni in questa trattazione, fu letta la confutazione della confessione presentata dalle cittá; la qual udita, gli ambasciatori di quelle risposero che erano recitati molti articoli della loro scrittura altrimenti che da loro erano stati scritti, e tirate a cattivo senso molte altre delle cose da loro proposte, per renderli odiosi: alle qual obiezioni tutte averebbono risposto, se li fosse data copia della confutazione; tra tanto pregare che non si vogli credere alla calunnia, ma aspettare d’udire la loro difesa. Fu negato di darli copia, con dire che Cesare non vuole permettere che le cose della religione siano poste in disputa.
Tentò l’imperatore, per via della pratica, di persuader li principi, massime con dire che essi erano pochi e la loro dottrina era nova; che era stata sufficientemente confutata in questa dieta; esser grande l’ardire loro di voler dannar d’errore ed eresia e falsa religione l’imperial Maestá, tanti prencipi e stati di Germania, co’ quali comparati essi non fanno numero; e quello che è peggio, aver anco per eretici i loro propri padri e maggiori, e dimandar concilio, ma nondimeno tra tanto volendo camminar inanzi negli errori. Le qual persuasioni non giovando, poiché negavano la loro dottrina esser nova e li riti della romana chiesa essere antichi, Cesare, mettendo in opera li altri rimedi consegliati dal legato Campegio, fece trattar con ciascuno a parte, proponendo qualche sodisfazione nelle cose di loro interesse molto desiderate, ed anco mettendo loro inanzi diverse opposizioni e attraversamenti che egli averebbe eccitati alle cose loro, mentre persistessero fermi nella risoluzione di non riunirsi alla Chiesa. Ma, o perché quei principi pensassero di far bene i fatti loro perseverando, o pur perché anteponessero ad ogni altro interesse il conservar la religione appresa, gli uffici, se ben potenti, non partorirono effetto. Né meno potè ottener Cesare da loro che si contentassero di conceder nelle loro terre l’esercizio della religione romana sino al concilio, che egli prometteva doversi intimar fra sei mesi, avendo li protestanti penetrato ciò esser invenzione del legato pontificio, il quale, non potendo ottener di presente il suo intento, giudicava far assai se, con stabilir in ogni luogo l’uso della dottrina romana, mettesse confusione nelli populi giá alienati, onde restasse la via aperta alli accidenti che potessero dar occasione di estirpar la nuova; perché, quanto alla promessa d’intimar il concilio fra sei mesi, sapeva bene che molti impedimenti s’averebbono potuto alla giornata pretendere per metter dilazione, e finalmente per deluder ogni espettazione.
Non avendosi potuto concludere alcuna cosa, partirono li protestanti in fine di ottobre, e Cesare fece un editto per stabilimento delli antichi riti della religione cattolica romana: il quale in somma conteneva che non si mutasse cosa alcuna nella messa, nel sacramento della confirmazione e dell’estrema onzione; che le immagini non fossero levate da alcun luogo, e le levate fossero riposte; che non fosse lecito negar il libero arbitrio, né meno tener opinione che la sola fede giustifica; che si conservassero li sacramenti, le ceremonie, li riti, le esequie de’ morti nel medesimo modo. Che li benefici si dessero a persone idonee, e che li preti maritati o lascino le mogli o siano soggetti al bando; tutte le vendite delli beni della Chiesa e altre usurpazioni siano irritate; nell’insegnare e predicare non si possi uscir di questi termini, ma si esorti il popolo a udir la messa, invocar la Vergine Maria e li altri santi, osservar le feste e digiuni; dove li monasteri e altri sacri edifici sono stati destrutti, siano reedificati; e sia ricercato il pontefice di far il concilio e inanzi sei mesi intimarlo in luoco idoneo; e dopo, fra un anno al piú longo, darli principio; che tutte queste cose siano ferme e stabili, e nessuna appellazione o eccezione, che se gli faccia contra, abbia luoco; e che per conservar questo decreto ognuno debbia metterci tutte le sue forze e facoltá, e la vita ancora ed il sangue; e la camera proceda contra chi si opponerá.
Il pontefice, avuta notizia delle cose nella dieta successe per avviso del suo legato, fu toccato d’un interno dispiacere d’animo, scoprendo che, se ben Carlo aveva ricevuto il suo conseglio usando imperio e minacciando la forza, però non aveva proceduto come avvocato della chiesa romana, al quale non appartiene prender cognizione della causa, ma esser mero esecutore delli decreti del pontefice: a che era a fatto contrario l’aver ricevuto e fatto legger le confessioni e l’aver instituito colloquio per accordar le differenze. Si doleva sopra modo che alcuni ponti fossero accordati, e maggiormente che avesse acconsentito l’abolizione d’alcuni riti, parendogli che l’autoritá pontificia fosse violata, quando cose di tanto momento sono trattate senza participazione sua; se almeno l’autoritá del suo legato fosse intervenuta, s’averebbe potuto tollerare. Considerava appresso che l’aver a ciò consentito li prelati era con sommo suo pregiudicio, e sopra tutto gli premeva la promessa del concilio, tanto abborrito da lui: nella quale se ben pareva fatta onorevole menzione dell’autoritá sua, però l’aver prescritto il tempo di sei mesi a convocarlo e d’un anno a principiarlo era metter mano in quello che è proprio del pontefice, e far l’imperatore principale e il papa ministro. Osservando questi principii, concluse che poco buona speranza poteva avere nelle cose di Germania, ma che conveniva pensare ad un defensivo, a ciò il male non passasse alle altre parti del corpo della Chiesa. E poiché non si poteva rifar altrimenti il passato, era prudenza non mostrar che fosse contra suo volere, ma farsene esso autore, dovendo in tal modo ricever minor percossa nella riputazione.
Pertanto diede conto delle cose passate a tutti li re e principi, spedendo sue lettere sotto il primo decembre, tutte dello stesso tenore: che sperava potersi estinguer l’eresia luterana con la presenzia di Cesare, e che per tal causa principalmente era andato a Bologna per fargliene instanzia, se ben lo conosceva in ciò da se stesso assai animato; ma avendo inteso per avvisi dell’imperatore e del Campegio suo legato che li protestanti si sono fatti piú ostinati, esso, avendo comunicato il tutto con li cardinali e insieme con loro avendo chiaramente veduto che non vi resta altro rimedio se non l’usato dalli maggiori, cioè un general concilio, per tanto gli esorta ad aiutar con la presenzia loro, o veramente per mezzo de ambasciatori, nel concilio che si convocherá, una causa cosí santa, che egli, quanto prima si potrá, ha deliberato metter in effetto, intimando un generale e libero concilio in qualche luoco comodo d’Italia.
Le lettere del pontefice furono a tutto il mondo note, facendo opera li ministri pontifici in ogni luogo, che passassero a notizia di tutti; non perché né il papa né la corte desiderassero o volessero applicar l’animo a concilio dal quale erano alienissimi, ma per trattener gli uomini, acciò con l’aspettazione che gli abusi ed inconvenienti sarebbono presto rimediati restassero fermi nell’obedienza. Però pochi restarono ingannati, non essendo difficile scoprire che l’instanza fatta a’ principi di mandar ambasciatori ad un concilio, de quale non era determinato né tempo né luoco né modo, era troppo affettata prevenzione.
Ma li protestanti da quelle lettere presero essi ancora occasione di scrivere medesimamente alli re e principi; e l’anno seguente, nel mese di febbraro, per nome comune di tutti formarono una lettera a ciascuno di questo tenore: esser nota alle Maestá loro la vecchia querimonia fatta dagli uomini pii contra li vizi ecclesiastici, notati da Giovanni Gersone, Nicolò Clemangis e altri in Francia, e da Giovanni Coletto in Inghilterra, e da altri altrove: il che anco era avvenuto in questi prossimi anni in Germania, nata occasione per il detestabile e infame guadagno che alcuni monaci facevano pubblicando indulgenze. E da questo passando a narrar tutte le cose dopo successe sino all’ultima dieta, seguirono dicendo che li loro avversari erano intenti ad eccitar Cesare e altri re contra loro, usando varie calunnie; le quali sí come hanno ributtate nella Germania, cosí piú facilmente le confuterebbono in un concilio generale di tutto ’l mondo: al quale si rimetteranno, pur che sia tale che in lui non abbiano luoco li pregiudici e gli affetti. Che tra le calunnie date loro questa è la principale, che dannino i magistrati e sminuiscano la dignitá delle leggi; il che non solo non è vero, ma, sí come hanno mostrato nella dieta d’Augusta, la loro dottrina onora li magistrati, defende il valor delle leggi piú che sia stato mai fatto nelle altre etá, insegnando alli magistrati che lo stato loro e quel genere di vita è gratissimo a Dio, e predicando alli populi che sono tenuti a prestar onore e obedienzia al magistrato per comandamento di Dio, il quale non lascierá senza punizione li disubedienti, poiché il magistrato ha il governo per ordinazione divina. Che hanno voluto scriver queste cose ad essi re e principi di tanta autoritá per scolparsi appresso loro, pregandoli a non dar fede alle calunnie e servar il loro giudicio intiero, sin che gl’imputati abbiano luoco di scolparsi pubblicamente. E perciò vogliono pregare Cesare che per utilitá della Chiesa congreghi quanto prima un concilio pio e libero in Germania, e non voglia proceder con la forza, sin che la causa non sia disputata e difinita legittimamente.
Rispose il re di Francia con littere molto ufficiose, in sostanza rendendo grazie della comunicazione di un affare di tanto momento; mostrò esserli stato molto grato intender la loro discolpazione, approvare l’instanza che li vizi siano emendati, nel che troveranno congionta anco la volontá sua con la loro. La richiesta del concilio esser giusta e santa, anzi necessaria, non solo per i bisogni di Germania, ma per tutta la Chiesa; non essere cosa onesta venir alle armi, dove si può con la trattazione metter fine alle controversie. Del medesmo tenore furono anco le lettere del re d’Inghilterra, oltre che in particolare si dechiarò desiderare esso ancora il concilio e volersi interporre con Carlo per trovar modo di concordia.
Andata per tutta Germania la notizia del decreto imperiale, immediate fu dato principio ad accusar nella camera di Spira quelli che seguivano la nova religione, da chi per zelo e da altri per vendetta di proprie inimicizie, e da alcuni ancora per occupar li beni delli avversari; furono fatte molte sentenzie, molte dechiarazioni e molte confiscazioni contra principi, cittá e privati; e nessuna ebbe luogo, se non qualcuna contra quelli privati, li beni de’ quali erano nel dominio de cattolici. Dagli altri le sentenzie erano sprezzate, con gran diminuzione non solo della reputazione della camera, ma anco di quella di Cesare. Il quale si avvidde presto che la medicina non era appropriata al male, che quotidianamente andava facendosi maggiore; perché li prencipi e cittá protestanti, oltre il tenir poco conto delli giudicii camerali, si erano restrette tra loro e preparate alla difesa e fortificatesi anco con le intelligenze forestiere; sí che camminando le cose inanzi, si vedeva nascere una guerra pericolosa per ambe le parti e, in qualonque modo l’esito succedesse, perniciosa alla Germania. Per il che concesse che alcuni principi s’interponessero e trovassero modo di concordia. Per questo effetto anco si negoziarono molti capi e condizioni di convenzione per tutto quest’anno del 1531. E per darli qualche conclusione fu ordinato una dieta in Ratisbona per l’anno seguente.
Tra tanto le cose restavano piene di suspizioni, onde le diffidenzie tra l’una parte e l’altra piú tosto crescevano. Ed occorse quest’anno anco in svizzeri un notabile evento, il quale fu causa di componer le cose tra loro. Imperocché, quantonque la controversia, nata per causa della religione tra quei di Zurich, Berna e Basilea da una parte contra li cantoni pontifici, fosse stata piú volte per interposizione di diversi sopita per allora, gli animi però restavano esulcerati, e nascendo quotidianamente qualche nova occasione di disgusti, spesso le controversie si rinnovavano. Quest’anno furono grandissime, avendo tentato quei di Zurich e di Berna impedir le vettovaglie alli cinque cantoni: per il che l’una parte e l’altra s’armarono. Nel campo de’ zuricani uscí con loro Zuinglio, se ben da molti amici esortato a rimaner a casa e lasciar che un altro andasse a quel carico; il che egli non volse a nessun modo, per non parer che solo nella chiesa dasse animo al populo e li mancasse in occasione pericolosa. Vennero a giornata alli n ottobre, nella quale quei di Zurich ebbero il peggio e restò anco Zuinglio morto: di che ebbero piú allegrezza li cattolici che della vittoria; anzi per questo fecero diversi insulti e ignominie a quel cadavero. E quella morte fu potissima causa che, per interposizione d’altri, di nuovo s’accomodarono insieme, ritenendo tutte due le parti la propria religione; tenendo per fermo li cinque cantoni cattolici che, levato di mezzo quello che stimavano con le sue prediche esser stato autore della mutazione di religione nel paese, tutti dovessero ritornar alla vecchia. Nella qual speranza si confermarono tanto piú, perché Ecolampadio, ministro in Basilea, unanime con Zuinglio, morí pochi giorni dopo per afflizione d’animo contratta per la perdita dell’amico, attribuendo li cattolici l’una e l’altra morte alla divina provvidenza, che, compassionando la nazione elvetica, avesse punito e levato li ministri della discordia. E certamente è pio e religioso pensiero l’attribuir alla divina provvidenza la disposizione d’ogni evenimento; ma il determinar a che fine siano da quella somma sapienza gli eventi inviati è poco lontano dalla presunzione. Gli uomini tanto strettamente e religiosamente sposano le opinioni proprie, che si persuadono quelle esser altrettanto amate e favorite da Dio come da loro. Ma le cose succedute nelli seguenti tempi hanno mostrato che, dopo la morte di questi due, li cantoni chiamati evangelici hanno fatto maggior progresso nella dottrina da loro ricevuta: argomento manifesto che da piú alta causa venne che dall’opera di Zuinglio.
In Germania si negoziò la concordia delli protestanti con gli altri dagli elettori di Magonza e palatino, e molte scritture furono fatte e mutate, perché non davano intiera sodisfazione né all’una né all’altra parte. Il che fece venir Cesare in resoluzione che il concilio fosse sommamente necessario; e conferita la sua deliberazione col re di Francia, mandò uomo in posta a Roma per trattarne col pontefice e col collegio de’ cardinali. Non faceva l’imperatore capitale di luoco prescritto né di altra condizione speciale, purché la Germania restasse sodisfatta, sí che protestanti v’intervenissero e si sottomettessero; la qual sodisfazione il re ancora diceva esser giusta, e s’offeriva per coadiuvare. Fu esposta l’ambasciata al pontefice in questi termini: che avendo tentato l’imperatore ogni altra via per riunire li protestanti alla Chiesa, avendo adoperato l’imperio, le minacce, gli uffici e il mezzo della giustizia ancora, non restando piú se non o la guerra od il concilio, né potendo venir alle arme, poiché le preparazioni che faceva il Turco contra di lui lo proibivano, era necessitato ricorrer all’altro partito. E però pregare la Sua Santitá che, imitando i suoi predecessori, si contentasse di conceder un concilio al quale protestanti non facessero difficoltá di sottomettersi, avendosi loro piú volte offerto di star alla determinazione d’uno libero, nel quale debbiano esser giudici persone non interessate.
Il papa, che in modo alcuno non voleva concilio, udita la richiesta, non potendo darvi aperta negativa, acconsentì, ma in modo che sapeva che non sarebbe accetto. Propose per luoco una delle cittá dello stato ecclesiastico, nominando Bologna, Parma o vero Piacenza, cittá capaci di ricever una moltitudine e opulente per nodrirla, e d’aria salubre e con territorio ampio circonstante, dove protestanti non dovevano far difficoltá di andare per dover esser uditi; a’ quali egli averebbe dato pieno ed ampio salvocondotto, e si sarebbe trovato anco in persona, acciò le cose fussero trattate con pace cristiana, e non fusse fatto torto ad alcuno. Non poter in alcun modo consentire alla dimanda di celebrarlo in Germania, perché l’Italia non comporterebbe di esser posposta; e la Spagna e Francia, che nelle cose ecclesiastiche cedono all’Italia per la prerogativa del pontificato che è proprio di quella, non vorrebbono ceder alla Germania; e sarebbe poco stimata l’autoritá di quel concilio dove vi fossero soli tedeschi e pochi di altra nazione, perché indubitatamente italiani, francesi e spagnoli non s’indurrebbono ad andarvi. La medicina non si mette in potestá dell’infermo, ma del medico: per il che la Germania, corrotta per la moltiplicitá e varietá delle nove opinioni, non potrebbe dare in questa materia buon giudicio come l’Italia, Francia e Spagna, che sono ancora incorrotte e perseverano tutte intiere nella soggezione della sede apostolica, la qual è madre e maestra di tutti li cristiani. Quanto al modo di difinire le cose in concilio, diceva il pontefice non esser necessario trattar altro, non potendo in questo nascere difficoltá, se non si voleva far una nova forma di concilio non piú nella Chiesa usata. Esser cosa chiara che nel concilio non hanno voto se non li vescovi per dritto delli canoni, e gli abbati per consuetudine, ed alcuni altri per privilegio pontificio: gli altri che pretendono esser uditi debbono sottomettersi alla determinazione di questi, facendosi ogni decreto per nome della sinodo, se il papa non interviene in persona; ché essendovi la sua presenza, ogni decreto si spedisce sotto suo nome, con la sola approbazione dei padri della sinodo. Li cardinali ancora parlavano nell’istesso tenore, sempre però interponendo qualche ragione a mostrare che il concilio non era necessario, stante la determinazione di Leone, la qual esequendo, tutto sarebbe rimediato. E chi ricusa di rimettersi alla determinazione del papa, massime seguita col conseglio de’ cardinali, maggiormente sprezzará ogni decreto conciliare. Vedersi chiaro che protestanti non chiamano concilio, se non per interpor tempo all’esecuzione dell’editto di Vormazia; perché sanno bene che il concilio non potrá far altro che approvare quello che Leone ha determinato, se non vorrá esser conciliabulo, come tutti quelli che si sono scostati dalla dottrina e obedienzia pontificia.
L’ambasciator cesareo, per trovar temperamento, ebbe molti congressi col pontefice e con li cardinali da quello sopra ciò deputati. Considerò che non l’Italia, né la Francia, né la Spagna avevano il bisogno di concilio, né lo richiedevano; però non era in proposito metter in conto li loro rispetti; che per medicar li mali di Germania era ricercato; a’ quali dovendo esser proporzionato, conveniva eleggere luoco dove tutta quella nazione potesse intervenire; che quanto alle altre bastavano li soggetti principali, poiché di quelle non si trattava; che le cittá proposte erano dotate di ottime qualitá, ma lontane da Germania; e quantunque la fede di Sua Santitá dovesse assicurar ognuno, però li protestanti essere insospettiti per diverse ragioni e vecchie e nove, tra quali riputavano la minima che Leone X suo cugino giá gli aveva condannati e dechiarati eretici. E se ben tutte le ragioni si risolvono con questo solo, che sopra la fede del pontefice ognuno debbe acquetarsi, nondimeno la Santitá sua, per la molta prudenza e maneggio delle cose, poteva conoscer esser necessario condescendere all’imperfezione degli altri, e compassionando accomodarsi a quello che, quantunque secondo il rigore non è debito, però secondo l’equitá è conveniente. E quanto alli voti deliberativi del concilio, discorreva che, essendo introdotti per consuetudine, e parte per privilegio, s’apriva un gran campo a lui di esercitar la sua benignitá, introducendo altra consuetudine piú propria a’ presenti tempi. Perché se giá gli abbati per consuetudine furono ammessi per essere li piú dotti e intendenti della religione, la ragione vuole che al presente si faccia l’istesso con persone d’ugual o maggior dottrina, se ben senza titolo abbaciale. Ma il privilegio dar materia di sodisfar ognuno; perché, concedendo simile privilegio a qualunque persona che possi far il servizio di Dio in quella congregazione, si fará appunto un concilio pio e cristiano come il mondo desidera.
A queste ragioni essendo risposto con li motivi detti di sopra, non potè Cesare ottener altro dal pontefice; onde restò per allora il negoziato imperfetto, e attese l’imperatore a sollecitar il trattato di concordia incominciato. Il quale redutto a buon termine, instando la guerra turchesca, fu pubblicata finalmente la composizione alli 23 di luglio: che fosse pace comune e pubblica tra la cesarea Maestá e tutti li stati dell’Imperio di Germania, cosí ecclesiastici come secolari, sino ad un generale, libero e cristiano concilio; e fra tanto nissuno per causa di religione possi mover guerra all’altro, né prenderlo o spogliarlo o assediarlo, ma tra tutti sia vera amicizia e unitá cristiana. Che Cesare debbi procurar che il concilio sia intimato fra sei mesi, e fra un anno incominciato: il che se non si potesse fare, tutti li stati dell’Imperio siano chiamati e adunati per deliberare quello che si doverá fare, cosí nella materia del concilio come nelle altre cose necessarie. Che Cesare debbia suspendere tutti i processi giudiciali in causa di religione fatti dal suo fiscale o da altri contra l’elettore di Sassonia e suoi congionti, sino al futuro concilio, o vero alla deliberazione suddetta delli stati. Dall’altra parte l’elettore di Sassonia e li altri principi e cittá promettessero di servare questa pubblica pace con buona fede, e render a Cesare la debita obedienzia e conveniente aiuto contra il Turco. La qual pace Cesare con sue lettere date alli 2 d’agosto ratificò e confirmò. Sospese anco tutti li processi, promettendo di dar opera per la convocazione del concilio fra sei mesi, e per il principio fra un anno. Diede anco conto alli principi cattolici della legazione mandata a Roma per la celebrazione del concilio, soggiongendo che per ancora non si erano potute accordar alcune difficultá molto grandi circa il modo e luoco. Però continuerebbe operando che si risolvessero e che il pontefice venisse alla convocazione, sperando che non sarebbe per mancar al bisogno della repubblica ed al suo officio: ma quando ciò non riuscisse, intimerebbe un’altra dieta per trovarvi rimedio.
Fu questa la prima libertá di religione che li aderenti alla confessione di Lutero, chiamata augustana, ottennero con pubblico decreto; del quale variamente si parlava per il mondo. A Roma era ripreso l’imperatore d’aver messo (dicevano) la falce nel seminato d’altri, essendo ogni principe obbligato, con strettissimi legami di censure, all’estirpazione delli condannati dal pontefice romano, in che debbono esponere l’avere, lo stato e la vita; e tanto piú gl’imperatori, che fanno di ciò giuramenti tanto solenni; a’ quali avendo contravvenuto Carlo con inudito esempio, doversi temere di vederne presto la celeste vendetta. Ma altri commendavano la pietá e la prudenza dell’imperatore, il qual avesse anteposto il pericolo imminente al nome cristiano per le armi de’ turchi, che di diretto oppugnano la religione; a’ quali non avrebbe potuto resistere senza assicurar li protestanti, cristiani essi ancora, se ben differenti dagli altri in qualche riti particolari: differenzia tollerabile. La massima tanto decantata in Roma, che convenga piú perseguitar gli eretici che li infedeli, essere ben accomodata al dominio pontificio, non però al beneficio della cristianitá. Alcuni anco, senza considerare a’ turchi, dicevano li regni e principati non doversi governare con le leggi e interessi delli preti, piú d’ogni altro interessati nella propria grandezza e comodi, ma secondo l’esigenza del pubblico bene, quale alle volte ricerca la tolleranza di qualche difetto. Esser debito d’ogni principe cristiano l’operare ugualmente che li soggetti suoi tengano la vera fede, come anco che osservino tutti li comandamenti divini, e non piú quello che questo; con tutto ciò, quando un vicio non si può estirpare senza ruina dello stato, esser grato alla Maestá divina che sia permesso; né esser maggior l’obbligo di punir gli eretici che li fornicatori; quali se si permettono per pubblica quiete, non esser maggior inconveniente se si permetteranno quelli che non tengono tutte le nostre opinioni. E quantunque non sia facile allegare esempio de principi che abbiano ciò fatto da ottocento anni in qua, chi risguarderá però li tempi inanzi, lo vederá fatto da tutti e lodevolmente, quando la necessitá ha costretto. Se Carlo, dopo aver tentato per undici anni di rimediare alle dissensioni della religione con ogni mezzo, non ha potuto ottenerlo, chi potrá riprenderlo che, per esperimentare anco quello che si può far col concilio, abbia tra tanto stabilita la pace in Germania, per non vederla andar in rovina? Non saper governar un prencipato altri che il proprio prencipe, il qual solo vede tutte le necessitá. Distruggerá sempre lo stato suo qualunque lo governerá risguardando gl’interessi d’altri: tanto riuscirebbe male il governar la Germania secondo che li romani desiderano, come governar Roma a gusto de’ tedeschi.
A nessuno che leggerá questo successo doverá esser maraviglia se questi e molti altri discorsi passavano per mente degli uomini, essendo cosa che a tutti tocca nell’interno; poiché si tratta se ciascuna delle regioni cristiane debbino esser governate come il loro bisogno e utilitá ricercano, o se siano serve di una sola cittá, per mantener le comoditá della quale debbino le altre spendere se stesse, ed anco desolarsi. Li tempi seguenti hanno dato e daranno in perpetuo documenti che la risoluzione dell’imperatore fu conforme a tutte le leggi divine ed umane. Il pontefice, che di questo ne fu piú di tutti turbato, come quello che di governar di stato era intendentissimo, vidde bene di non avere ragione di querelarsi, ma insieme anco concluse che gli interessi suoi non potevano convenire con quei dell’imperatore; e però nell’animo s’alienò totalmente da lui.
Scacciato il Turco dall’Austria, Cesare passò in Italia, e in Bologna venne in colloquio col pontefice, dove trattarono di tutte le cose comuni: e se ben tra loro fu renovata la confederazione, dal canto però del pontefice non vi era intiera sodisfazione, per la libertá di religione concessa in Germania, come s’è detto, e perché non erano concordi nella materia del concilio. Perseverava l’imperator, conforme alla proposizione dell’ambasciator suo l’anno inanzi, richiedendo concilio tale che potesse medicar i mali di Germania: il che non poteva esser, se li protestanti non vi avevano dentro parte. Il pontefice insisteva nella deliberazione d’allora, che non averebbe voluto concilio di sorte alcuna; ma pure, quando vi fosse stato necessitá di farlo, che non si celebrasse fuori d’Italia, e che non vi avessero voto deliberativo se non quelli che le leggi pontificie determinano. Alla volontá del pontefice Cesare si sarebbe accomodato, quando si fosse trovato via di operare che li protestanti si fossero contentati; e per certificar di ciò il pontefice, propose che mandasse in Germania un noncio, ed egli un ambasciatore, per trovar forma e temperamento a queste difficoltá, promettendo che l’ambasciator suo si reggerebbe secondo la volontá del noncio. Il pontefice ricevette il partito, non però pienamente sodisfatto dell’imperatore, tenendo per fermo che, quando l’ufficio di ambidue li ministri non avesse sortito effetto, Carlo averebbe cercato che la Germania avesse sodisfazione; e d’allora risolvè Clemente di restringersi col re di Francia, per poter con quel mezzo metter sempre impedimento a quello che l’imperator proponesse.
In esecuzione del partito proposto e accettato, dopo la Pasca del ’33 mandò il pontefice Ugo Rangone vescovo di Reggio; il quale, andato con un ambasciator di Cesare a Giovanni Federico elettore di Sassonia, che pochi mesi inanzi era successo al morto padre, come principale dei protestanti, espose la sua commissione. Che Clemente dal principio del suo pontificato sempre aveva sopra le altre cose desiderato che le differenzie della religione nate in Germania si componessero, e perciò vi aveva mandato molte persone eruditissime; e se ben la fatica loro non era riuscita, ebbe il pontefice nondimeno speranza che all’andata di Cesare, dopo la sua coronazione, il tutto si perfezionasse: né avendo sortito il fine desiderato, Cesare, ritornato in Italia, li aveva dimostrato che non vi era rimedio piú comodo che per un concilio generale, desiderato ancora dalli principi di Germania. La qual cosa essendo piaciuta al pontefice, cosí per bene pubblico come per far cosa grata a Cesare, aveva mandato lui per pigliar appuntamento del modo del futuro concilio, e del tempo e del luogo; e che quanto al modo e ordine proponeva il pontefice alcune condizioni necessarie.
La prima, che dovesse essere libero e generale, sí come per il passato li padri sono stati soliti di celebrare; poi, che quelli da chi è ricercato il concilio promettino e assicurino di dover ricevere li decreti che saranno fatti, imperocché altrimenti la fatica sarebbe presa in vano, non giovando fare leggi che non si voglino osservare; poi ancora, che chi non potrá esser presente vi mandi ambasciatori per fare la promessa e dare la cauzione. Appresso di questo, esser necessario che tra tanto tutte le cose restino nello stato che si ritrovano, e non si faccia nessuna novitá inanzi il concilio. Aggionse il nuncio che quanto al luoco il pontefice aveva avuta longa, frequente e grande considerazione, imperocché bisognava provvederlo fertile che potesse supplire di vettovaglie ad un tanto celebre concorso, e di aria salutifero ancora, acciocché dalle infirinitá non fosse impedito il progresso. E finalmente li pareva molto comodo Piacenza, Bologna o vero Mantova, lasciando che la Germania eleggesse qual luogo piú le piaceva di questi. Ma aggiongendo che se alcun principe non venirá, o non manderá legati al concilio e recuserá di obedir alli decreti, sará giusto che tutti gli altri difendano la Chiesa. Infine concluse che se dalla Germania sará risposto a queste proposte convenientemente, il pontefice immediate tratterá con gli altri re, e tra sei mesi intimerá il concilio, da principiarsi un anno dopo, acciocché si possi fare provvisione di vettovaglie, e tutti, massime li piú lontani, si possino preparar al viaggio.
Diede il nuncio la sua proposizione anco in scrittura, e l’ambasciatore dell’imperatore fece l’istesso officio coll’elettore. Il quale avendo richiesto spacio per rispondere, sentí di ciò il noncio piacere inestimabile, non desiderando egli altro che dilazione, ed ebbe la risposta per presagio che il suo negozio dovesse sortire riuscita felice, e non si potè contenere di non lodarlo che interponesse spacio in una deliberazione che lo meritava. Rispose nondimeno dopo pochi giorni l’elettore, avere sentito molta allegrezza che Cesare ed il pontefice siano venuti in deliberazione di far il concilio, dove, secondo la promessa fatta piú volte alla Germania, si trattino legittimamente le controversie con la regola della parola divina. Che egli, quanto a sé, volentieri risponderebbe allora alle cose proposte; ma, perché sono molti principi e cittá che nella dieta di Augusta hanno ricevuta la medesima confessione che lui, non essere conveniente che egli risponda senza loro, né meno utile alla causa; ma essendo intimato un convento per li 24 di giugno, si contenti di concedere questa poca dilazione, per aver conclusione piú comune e risoluta. Tanto maggiore fu il piacere e la speranza del noncio, il quale averebbe desiderato che la dilazione fosse piú tosto di anni che di mesi.
Ma li protestanti, redutti in Sinalcalda al su detto tempo, fecero risposta ringraziando Cesare che per gloria di Dio e salute della repubblica abbi preso questa fatica di far celebrar un concilio; la qual fatica vana riuscirebbe quando fosse celebrato senza le condizioni necessarie per risanar li mali di Germania, la quale desidera che in esso le cose controverse siano definite col debito ordine; e spera d’ottenerlo, avendo anco Cesare in molte diete imperiali promessone un tale, quale con matura deliberazione delli principi e stati è stato risoluto che si celebrasse in Germania; attesoché, essendo con occasione delle indulgenze predicate scopertosi molti errori, il pontefice Leone condannò la dottrina e li dottori che manifestarono gli abusi: nondimeno quella condanna fu oppugnata con li testimoni delli profeti e degli apostoli. Onde è nata la controversia, la quale non può essere terminata se non in un concilio, dove la sentenzia del pontefice e la potenza di qualsisia non possa pregiudicar alla causa, e dove ii giudicio si faccia non secondo le leggi de’ pontefici o le opinioni delle scole, ma secondo la sacra Scrittura. Il che quando non si facesse, vanamente sarebbe presa una tanta fatica, come si può vedere per gli esempi di qualche altri concili celebrati per inanzi. Ora le proposizioni del pontefice essere contrarie a questo fine, alle richieste delle diete e alle promesse dell’imperatore. Perché quantunque il papa proponga un libero concilio in parole, in fatti però lo vuole legato, sí che non possino essere ripresi li vizi né gli errori, ed egli possa defender la sua potenzia. Non essere dimanda ragionevole che alcuno si obblighi a servar li decreti prima che si sappia che ordine e che modo e forma si debbi tenere in farli; se il papa sia per volere che la suprema autoritá sia appresso di lui e delli suoi; se vorrá che le controversie siano discusse secondo le sacre lettere, o vero secondo le leggi e tradizioni umane. Parergli anco cavillosa quella clausula che il concilio debbia essere fatto secondo il costume vecchio, perché intendendosi di quell’antico, quando si determinava conforme alle sacre lettere, non lo ricusarebbono; ma li concili dell’etá superiore essere molto differenti da quei piú vecchi, dove troppo è stato attribuito alli decreti umani e pontifici. Essere speciosa la proposta, ma levar affatto la libertá dimandata e necessaria alla causa. Pregar Cesare che voglia operare sí che il tutto passi legittimamente. Tutti li popoli esser attenti e star in speranza del concilio e dimandarlo con voti e preghiere, che si volterebbono in gran mestizia e cruccio di mente, quando questa espettazione fosse delusa con dar concilio sí, ma non quale è desiderato e promesso. Non esser da dubitare che tutti gli ordini dell’Imperio, e li altri re e principi ancora, non siano nel medesmo parer di rifiutar quei lacci e legami con che il pontefice pensa di stringerli in un novo concilio; all’arbitrio del quale se sará permesso maneggiar le cose, rimetteranno il tutto a Dio e penseranno quello che doveranno fare. E con tutto ciò, se fossero citati con sicurezza certa e legittima, quando vedessero di poter operare alcuna cosa in servizio divino, non tralascierebbono di comparire, con condizione però di non consentire alle dimande del pontefice né a concilio non conforme alli decreti delle diete imperiali. In fine pregavano Cesare di non ricevere la loro risoluzione in sinistra parte, e operare che non sia confermata la potenza de quelli che giá molti anni incrudeliscono contra gl’innocenti.
Deliberarono li protestanti non solo di mandare la resposta al papa e a Cesare, ma di stamparla ancora insieme con la proposizione del noncio, la quale dal medesmo pontefice fu giudicata imprudente e troppo scoperta. Per il che, sotto colore che fosse vecchio e impotente a sostener il carico, lo richiamò; e scrisse al Vergerio, noncio al re Ferdinando, che dovesse ricevere quel carico con la medesma instruzione, avvertendo ben d’aver sempre a mente di non si partire in conto alcuno dalla sua volontá né ascoltar alcun temperamento, ancoraché il re lo ricercasse, acciocché imprudentemente non lo gettasse in qualche angustia e in necessitá di venir all’atto del concilio, il quale non era utile per la Chiesa né per la sede apostolica.
Mentre che queste cose si trattavano, il pontefice, che prevedeva la risposta che sarebbe venuta di Germania e che giá in Bologna aveva concetto poca confidenza con Cesare, si alienò totalmente dall’amicizia, perché nella causa del dominio di Modena e Reggio, vertente tra Sua Santitá e il duca di Ferrara, rimessa dalle parti al giudicio dell’imperatore, egli prononciò per il duca. Per tutte le qual cause il papa negoziò confederazione col re di Francia, la quale si concluse e stabilí anco col matrimonio di Enrico, secondogenito regio, e di Caterina de’ Medici, pronepote di Sua Santitá. E per dar perfetto compimento al tutto, Clemente andò personalmente a Marsiglia per abboccarsi col re. Il qual viaggio intendendo essere dall’universale ripreso, come non indrizzato ad alcun rispetto pubblico, ma alla sola grandezza della casa, egli giustificava, dicendo esser intrapreso a fine di persuader il re a favorir il concilio per abolire l’eresia luterana. Ed è vero che in quel luoco, oltre le altre trattazioni, fece ufficio con la Maestá cristianissima, acciocché si adoperasse con li protestanti, e massime col langravio d’Assia che doveva andar a trovarlo in Francia, per farli desistere dal dimandare concilio, proponendo loro che trovassero ogn’altra via per accomodare le differenzie, e promettendo che esso ancora averebbe coadiuvato con buona fede e opere efficaci al suo tempo.
Fu l’officio fatto dal re; né però potè ottenere, allegando il langravio che nessun altro modo era per ovviare alla desolazione di Germania, e tanto era non parlare di concilio quanto dare spontaneamente nella guerra civile. Trattò in secondo luoco il re che si contentassero del concilio in Italia. Né a questo fu acconsentito, dicendo li tedeschi che questo partito era peggiore del primo, il quale solamente li metteva in guerra, ma questo in manifesta servitú corporale e spirituale, a quale non si poteva ovviare se non col concilio e luoco libero: onde, condescendendo in grazia di Sua Maestá a tutto quello che si poteva, averebbono cessato d’insistere nella dimanda che si celebrasse in Germania, purché si deputasse altro luogo fuori d’Italia e libero, eziandio che fosse all’Italia vicino.
Diede il re, nel principio dell’anno 1534, conto al pontefice di quello che aveva operato, e s’offerí di fare che si contentassero li protestanti del luoco di Genéva. Il pontefice, ricevuto l’avviso, fu incerto se il re, quantunque confederato e parente, avesse caro di vederlo in travagli, o pur se in questo particolare mancasse della prudenza che usava in tutti gli affari: ben concluse che non era utile adoperarlo in questa materia, e li scrisse ringraziandolo dell’opera fatta, senza rispondergli al particolare di Genéva; ed a molti della corte, che perciò erano entrati in sollecitudine, fece buon animo, accertandoli che per niente (diceva egli) era per consentir a tal pazzia.
Ma in questo anno, in luoco di racquistar la Germania, perdette il pontefice l’obedienza d’Inghilterra, per aver in una causa proceduto piú con collera e con affetto che con la prudenzia necessaria ai gran maneggi. Fu l’accidente di grand’importanza e di maggiore conseguenza; quale per narrare distintamente, bisogna cominciare dalle prime cause di onde ebbe origine.
Era maritata al re Enrico VIII d’Inghilterra Caterina infanta di Spagna, sorella della madre di Carlo imperatore. Questa era stata in primo matrimonio moglie di Arturo, prencipe di Galles, fratello maggiore di Enrico; dopo la morte del quale, con dispensa di papa Giulio II, il padre loro la diede in matrimonio ad Enrico VIII, rimasto successore. Questa regina molte volte era stata gravida e sempre aveva partorito o vero aborto o vero creatura di breve vita, se non una sola figlia. Enrico, o per ira conceputa contra l’imperatore, o per desiderio di figliuoli, o per qual causa si sia, si lasciò entrare nella mente scrupolo che il matrimonio non fosse valido; e conferito questo con li suoi vescovi, si separò da se stesso dal congresso della moglie. Li vescovi fecero ufficio con la regina che si contentasse di divorzio, dicendo che la dispensa pontificia non era valida né vera: la regina non volse dar orecchie, anzi di questo ebbe ricorso al papa, al quale il re ancora mandò a richiedere il repudio. Il papa, che si ritrovava ancora ritirato in Orvieto e sperava buone condizioni per le sue cose, se da Francia e Inghilterra fossero continuati li favori che tuttavia gli prestavano col molestare l’imperatore nel regno di Napoli, mandò in Inghilterra il cardinale Campegio, delegando a lui e al Cardinal eboracense insieme la causa. Da questi e da Roma fu dato speranza al re che in fine sarebbe stato giudicato a suo favore; anzi per facilitare la risoluzione, acciò le solennitá del giudicio non portassero la causa in longo, fu ancora formato il breve nel quale si dechiarava libero da quel matrimonio, con clausole le piú ampie che fossero mai poste in alcuna bolla pontificia, e mandato in Inghilterra al cardinale, con ordine di presentarlo, quando fossero fatte alcune poche prove, che certo era doversi facilmente fare. E questo fu del 1528. Ma poiché Clemente giudicò piú a proposito, per effettuare li disegni suoi sopra Fiorenza (come al suo luogo s’è narrato), di congiongersi coll’imperatore che perseverare nell’amicizia di Francia e Inghilterra, del 1529 mandò Francesco Campana al Campegio, con ordine che abbruggiasse il breve e procedesse ritenutamente nella causa. Campegio incominciò prima a portar il negozio in longo, e poi a mettere difficoltá nell’esecuzione delle promesse fatte al re. Onde egli, tenendo per ferma la collusione del giudice con li avversari suoi, mandò a consultare la causa sua nelle universitá d’Italia, Germania e Francia, dove trovò teologi parte contrari, parte favorevoli alla pretensione sua. La maggior parte de’ parisini furono da quella parte; e fu anco creduto da alcuni che ciò avessero fatto, persuasi piú dalli doni del re che dalla ragione.
Ma il pontefice, o per gratificare Cesare, o perché temesse che in Inghilterra, per opera del Cardinal eboracense, potesse nascer qualche atto non secondo la mente sua, e per dar anco occasione al Campegio di partirsi, avocò la causa a sé. Il re, impaziente della longhezza, o conosciute le arti, o per qual altra causa si fosse, dechiarato il divorzio con la moglie, si maritò in Anna Bolena, che fu nell’anno 1533; però continuava la causa inanzi al pontefice, nella quale egli era risoluto di procedere lentamente, per dar sodisfazione all’imperatore e non offender il re. Per il che si trattava piú tosto articoli che il merito della causa. E si fermò la disputa nell’articolo degli attentati; nel quale sentenziò il pontefice contra il re, prononciando che non li fosse stato lecito di propria autoritá, senza il giudice ecclesiastico, separarsi dal commercio coniugale della moglie. La qual cosa udita dal re nel principio di quest’anno 1534, levò l’obedienzia al pontefice, comandando a tutti li suoi di non portar danari a Roma e di non pagar il solito denaro di san Pietro. Questo turbò grandissimamente la corte romana, e quotidianamente si pensava di porgerli qualche rimedio. Pensavano di procedere contra il re con censure e con interdire a tutte le nazioni cristiane il commercio con l’Inghilterra; ma piacque piú il conseglio moderato di andare temporeggiando col re, e per mezzo del re di Francia far ufficio di qualche componimento. Il re Francesco accettò il carico, e mandò a Roma il vescovo di Parigi per negoziare col pontefice la composizione: nondimeno tuttavia in Roma si procedeva nella causa, lentamente però e con resoluzione di non venir a censure, se Cesare non procedeva prima o insieme con le arme. Avevano diviso la causa in ventitré articoli, e trattavano allora se il prencipe Arturo aveva avuto congionzione carnale con la regina Catarina. E in questo si consumò sino passata la mezza quadragesima; quando alli 19 di marzo andò nova che in Inghilterra era stato pubblicato un libello famoso contra il pontefice e tutta la corte romana, ed era ancora stata fatta una comedia in presenzia del re e di tutta la corte, in grandissimo vituperio ed opprobrio contra il papa e tutti li cardinali in particolare. Per il che accesa la bile in tutti, si precipitò alla sentenza, la quale fu prononciata in concistorio li 24 dello stesso mese: che il matrimonio tra Enrico e la regina Catarina era valido, ed egli era tenuto averla per moglie; e che non lo facendo, fosse scomunicato.
Fu il pontefice presto mal contento della precipitazione usata, perché sei giorni dopo arrivarono lettere del re di Francia che quello d’Inghilterra si contentava di accettare la sentenzia sopra gli attentati e rendere l’obedienza; con questo, che li cardinali sospetti a lui non s’intromettessero nella causa, e si mandasse a Cambrai persone non sospette per pigliare l’informazione; e giá aveva inviato il re procuratori suoi per intervenire nella causa in Roma. Per questo il pontefice andava pensando qualche pretesto, col quale potesse suspendere la sentenza precipitata e ritornar in piedi la causa.
Ma Enrico, subito veduta la sentenza, disse importare poco, perché il papa sarebbe vescovo di Roma ed egli unico patrone del suo regno; che l’averebbe fatta al modo antico della chiesa orientale, non restando di essere buon cristiano né lasciando introdurre nel suo regno l’eresia luterana o altra: e cosí esequi. Pubblicò un editto dove si dechiarò capo della chiesa anglicana, pose pena capitale a chi dicesse che il pontefice romano avesse alcuna autoritá in Inghilterra, scacciò il collettore del denaro di san Pietro e fece approvare tutte queste cose dal parlamento; dove anco fu determinato che tutti li vescovati fossero conferiti dall’arcivescovo cantuariense, senza trattare niente con Roma; e che dal clero fosse pagato al re cento cinquantamila lire sterlinghe all’anno per defensione del regno contra qualunque.
Questa azione del re fu variamente sentita. Altri la reputavano prudente, che si fosse liberato dalla soggezione romana senza nessuna novitá nelle cose della religione e senza metter in pericolo di sedizione li suoi popoli e senza rimettersi a concilio; cosa che si vedeva difficile da poter effettuare e pericolosa anco a lui, non sapendosi vedere come un concilio composto di persone ecclesiastiche non fosse sempre per sostentare la potenzia pontificia, essendo quella il sostentamento dell’ordine loro. Poiché quello, col pontificato, è sopraposto ad ogni re ed imperatore; che senza quello bisogna che resti soggetto, non essendovi altro ecclesiastico che abbia principato con superioritá, se non il pontefice romano. Ma la corte romana defendeva che non si poteva dire non essere fatta mutazione nella religione, essendo mutato il primo e principale articolo romano, che è la superioritá del pontefice; e dover nascere le medesme sedizioni per questo solo che per tutti gli altri. Il che anco l’evento comprobò, essendo stato necessitato il re, per conservazione dell’editto suo, di proceder ad esecuzioni severe contra persone del suo regno, amate e stimate da lui. Non si può esplicar il dispiacere sentito in Roma e da tutto l’ordine ecclesiastico per l’alienazione d’un tanto regno dalla soggezione pontificia; e diede materia per far conoscer la imbecillitá delle cose umane, nelle quali il piú delle volte s’incorre in estremi detrimenti, donde furono prima ricevuti supremi benefici. Imperocché per le dispense matrimoniali e per le sentenzie di divorzio, cosí concesse come negate, il pontificato romano in tempi passati ha molto acquistato, facendo ombra col nome di vicario di Cristo alli prencipi, a’ quali metteva conto, con qualche matrimonio incesto o col discioglier uno per contraerne un altro, unir al suo qualche altro principato o sopire ragioni di diversi pretendenti, restringendosi per ciò con loro e interessando la loro potestá a defender quell’autoritá, senza quale le azioni loro sarebbono state dannate e impedite: anzi interessando non quei prencipi soli, ma tutta la posteritá loro per sostentamento della legittimitá delli suoi natali. Se bene forsi l’infortunio nato quella volta si potrebbe ascrivere alla precipitazione di Clemente, che non seppe maneggiar in questo caso la sua autoritá, e che, se a Dio fosse piaciuto lasciarli in questo fatto l’uso della solita sua prudenza, poteva fare grand’acquisto, dove fece molta perdita.
Ma tornando in Germania, Cesare, quando ebbe avviso del negoziato dal noncio Rangone in Germania nella materia del concilio, scrisse a Roma dolendosi che, avendo egli promesso il concilio alla Germania e trattato col pontefice in Bologna del modo che conveniva tenere con li principi di Germania in questo proposito, nondimeno dalli nonci di Sua Santitá non fosse stato negoziato nella maniera convenuta, ma s’avesse trattato in modo che li protestanti riputavano essere stati delusi: pregando in fine di voler trovare qualche modo per dar sodisfazione alla Germania. Furono lette in concistoro il dí 8 giugno le lettere dell’imperatore; e perché poco inanzi era venuto avviso che il langravio d’Assia aveva con le arme levato il ducato di Virtemberg al re Ferdinando e restituitolo al duca Ulrico legittimo patrone (per il che anco Ferdinando era stato sforzato a far pace con loro), per questa causa molti delli cardinali dissero che, avendo li luterani avuta una tal vittoria, era necessario darli qualche sodisfazione e non procedere piú con arti, ma venendo all’esecuzione, fare qualche demostrazione d’effetti; massime che, avendo Cesare promesso il concilio, finalmente bisognava che la promessa fosse attesa; e se dal pontefice non fosse trovato il modo, era pericolo che Cesare non fosse costretto condescender a qualch’altro di maggiore pregiudicio e danno alla Chiesa. Ma il pontefice e la maggior parte dei cardinali, vedendo che non era possibile far condescendere li luterani ad accettar il concilio nella maniera che era servizio della corte romana, e risoluti di non voler sentir parlare di farlo altrimenti, vennero in deliberazione di risponder a Cesare che molto ben conoscevano l’importanza de’ tempi e quanto bisogno vi era d’un concilio universale; quale erano prontissimi d’intimare, purché si potesse celebrare in modo che producesse li buoni effetti, come il bisogno ricerca; ma vedendosi nascer nuove discordie tra lui e il re di Francia, e varie dissensioni aperte tra altri prencipi cristiani, era necessario che quelle cessassero e li animi si reconciliassero, prima che il concilio si convocasse. Perché duranti le discordie non farebbe nessun buon effetto, e meno in questo tempo presente, essendo li luterani in arme e insuperbiti per la vittoria di Virtemberg.
Ma fu necessario metter in silenzio li ragionamenti del concilio col pontefice, perché egli cadette in una infirmitá longa e mortale, della quale anco, in fine di settembre, passò ad altra vita, con allegrezza non mediocre della corte, la quale, se ben ammirava le virtú di quello, che erano una gravitá naturale ed esemplare parsimonia e dissimulazione, odiava però maggiormente l’avarizia, durezza e crudeltá, accresciute o manifestate piú del solito, dopo che restò dall’infermitá oppresso.