Il raggiratore/Atto III
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ATTO TERZO.
SCENA PRIMA.
Camera in casa di don Eraclio.
Carlotta ed il Conte Nestore.
Carlotta. Che cosa volete da me, che mi parlate sì bruscamente? Se fallo, bisogna compatirmi.
Conte. Vi compatisco, ma non vorrei che mi faceste scorgere qui dove siamo, da don Eraclio.
Carlotta. Dovevate lasciarmi in casa, che me ne sarei stata volentierissima colla serva.
Conte. Appunto anche per questo vi ho condotto qui meco, acciò colla serva non usciste con cose tali, che vi facessero conoscere per quella che siete.
Carlotta. Ci potevate restar voi pure.
Conte. Ma io qui ci doveva venire per qualche cosa di maggior premura; e ho voluto condur voi pure, acciò principiate un poco a vedere, a distinguere, ad imparare. Ma voi non volete scordarvi della vostra villa; in ogni discorso vostro c’entra la campagna, i ravanelli, l’aratro. Ora con un pretesto vi ho condotto qui in queste camere, dove vi contenterete di stare sino che si va a desinare.
Carlotta. E a che ora si desina in questa città?
Conte. Per solito tardi assai.
Carlotta. A quest’ora in villa da noi...
Conte. Ma lasciate una volta questa parola indegnissima.
Carlotta. Non la dirò più.
Conte. E regolatevi con prudenza, quando siete con persone di soggezione.
Carlotta. In quanto a questo poi, credetemi, fratello, io non ho soggezion di nessuno1.
Conte. Male, malissimo. Voi non vi prendete soggezion di nessuno, perchè non distinguete le convenienze.
Carlotta. E che cosa sono le convenienze?
Conte. Ora non ho tempo di farvi altre lezioni.
Carlotta. Per esempio, con quella ragazza io ci stava volentierissima.
Conte. Con quale ragazza?
Carlotta. Colla figliuola di quella donna che è padrona di questa casa.
Conte. E a una dama dicesi quella donna?
Carlotta. Che non è2 donna come le altre?
Conte. Convien distinguere il grado.
Carlotta. Basta, vi dico che colla figliuola sua io ci stava volentierissima. Somiglia in tutto alla Menichina, che veniva con me in villa a lavorare nell’orto.
Conte. Sì, questa bellissima cosa ho inteso, che l’avete detta a lei pure, e per questo vi ho levata di là, perchè non diceste di peggio.
Carlotta. Che? è forse male il lavorare nell’orto? Mi ha detto ella pure, che vuole che io le insegni piantare.
Conte. Chi vi ha detto questo?
Carlotta. Metilde.
Conte. Metilde? Donna Metilde si dice.
Carlotta. Perchè donna? se non ha marito.
Conte. Donna è titolo di onore.
Carlotta. Non lo sapeva che fosse cosa onorata l’esser donna senza avere marito.
Conte. Voi non saprete nemmeno di essere quella ignorante che siete.
SCENA II.
Spasimo e detti.
Spasimo. Ecco, signore, la camiscia che mi ha ordinato portare.
Conte. Bene, andiamo m quest’altra camera, che vo’ mutarmi. Venite meco, sorella.
Carlotta. Quante volte il giorno vi volete mutare?
Conte. Venite, non pensate altro.
Carlotta. In villa da noi...
Conte. In villa da voi, e in città da noi... Contessa, andiamo. (parte)
Carlotta. Ha detto a me? (a Spasimo)
Spasimo. A lei.
Carlotta. Sì, sì, non me ne ricordava. Lo sapete voi ch’io sono la signora Contessa? (a Spasimo)
Spasimo. Lo so, per quel che dicono.
Conte. Si viene, o non si viene? (dalla scena, spogliato)
Spasimo. Eccomi. (entra dal Conte)
Conte. Animo. Venite voi pure. (a Carlotta, ed entra)
Carlotta. Vengo. Che voglia ch’io pure mi muti di camiscia? Non crederei, perchè non ho altro che questa. Oh quant’imbrogli! Benedetta la mia campagna! (parte)
SCENA III.
Arlecchino solo, poi Spasimo.
Arlecchino. Me sta sul cor el mio scudo. No gnanca per la perdita del scudo, che a vadagnarlo non ho fatto tanta fadiga; ma me despiase la burla che m’ha dà Giacomina. Se savesse come far a tornarlo a recuperar! Ma sarà difficile.
Spasimo. Buon giorno, amico.
Arlecchino. Te saludo, busiaro.
Spasimo. Perchè mi dici bugiardo?
Arlecchino. Perchè m’astu dito amigo?
Spasimo. Vi sono nemico forse?
Arlecchino. Vualtri servitori sè sempre nemici de quella zente che gh’ha la confidenza dei vostri padroni.
Spasimo. Io sono un servitore onorato.
Arlecchino. Ti fa ben a dirlo; perchè, se no tel disi ti, no gh’è pericolo che nissun lo diga.
Spasimo. Non diranno di me che sono un furbo, come di te si dice.
Arlecchino. Ti gh’ha rason; non ho mai sentio che se diga furbo a un mamalucco co fa ti.
Spasimo. Se non fossimo dove siamo, ti vorrei insegnare a parlare.
Arlecchino. Inségneme a robar, che la xe la to profession.
Spasimo. Senti, Arlecchino, giuro, e possa esser impiccato se non mantengo il giuramento, giuro di farti il viso brutto, ancora più brutto di quel che l’hai.
Arlecchino. Ti, ti me voressi maccar el viso! E mi gh’ho più carità, me contento de romperte i brazzi con un tocco de legno.
Spasimo. Provati.
Arlecchino. Adesso no gh’ho comodo de provar.
Spasimo. Averò comodo io di darti una manata per ora. (fa l’atto di dargli)
Arlecchino. Corpo del diavolo, se ti me darà una manata, mi te darò una gambata.
Spasimo. Hai ragione che sento venire il padrone.
Arlecchino. El vien a tempo; te farò véder chi son.
Spasimo. Sta in cervello, non mi precipitare, che a chi mi levasse il pane, saprei levare la vita.
Arlecchino. (No son Arlecchin, se no ghe la fazzo pagar). (da sè)
SCENA IV.
Il Conte e detti.
Conte. Oh Arlecchino, di te appunto cercava. Ho bisogno di te.
Arlecchino. E mi gh’ho bisogno de vussioria.
Conte. Sentimi. (lo tira in disparte)
Arlecchino. Sior sì, che colù no senta i nostri secreti. (in modo che Spasimo lo senta)
Spasimo. Ma! ecco chi ha fortuna. I bricconi. (forte)
Conte. Con chi l’hai tu? (a Spasimo)
Arlecchino. (Ve dirò mi con chi el la gh’ha). (piano al Conte)
Spasimo. (Meschino di lui, se mi fa torcere un pelo). (da sè)
Conte. (Tu sai dei manichetti regalatimi da donna Metilde). (piano ad Arlecchino)
Arlecchino. (Per grazia vostra me l’ave dito).
Conte. (La madre sua li ha veduti).
Arlecchino. (E la li ha conossudi?)
Conte. (Sì certo, lo, per salvar la fanciulla, ho detto averli comprati).
Arlecchino. (La crederà che i ghe sia stadi rubadi).
Conte. (Bravissimo, e il sospetto suo cade sulla Jacopina).
Arlecchino. (Gh’ho gusto da galantomo).
Conte. (Ma io non vorrei che la povera disgraziata avesse a patire per cagione mia: tanto più, ch’ella mi ha fatto e mi può fare de’ buoni uffizi colla padrona sua).
Arlecchino. (Se poderave donca...)
Conte. (Ascoltami).
Arlecchino. (La diga pur). El magna l’aggio colù. (verso spasimo)
Spasimo. (Non crederei che gli parlasse di me ora). (da sè)
Conte. (Trova la Jacopina. Dalle questo foglio, in cui vi sono i manichetti che ho staccati ora della camiscia; dille che li rimetta in tempo, se può, nel luogo dov’erano, d’accordo colla ragazza).
Arlecchino. (Ho inteso).
Conte. (E se mai non fosse a tempo; e la padrona volesse...)
Arlecchino. (Lassè far a mi. Ho inteso tutto).
Conte. (Portati bene dunque).
Arlecchino. (Me porterò da par mio. Ma bisogna che anca ela, sior Conte, la me fazza un servizio).
Conte. (Chiedi: che cosa vuoi?)
Arlecchino. (E no bisogna dirme de no).
Conte. (Ti abbisogna denaro?)
Arlecchino. (Sior no; quel che me preme xe questo, che vossignoria manda via subito dal so servizio quel baron de Spasemo).
Conte. (Perchè? che cosa ti ha egli fatto?)
Arlecchino. (L’ha dito cussì che mi son el mezzan del so patron; e l’ha dito de pezo, che el so patron el vien qua a far l’amor colla fia e colla madre).
Conte. (Ha detto?)
Arlecchino. (Sior sì; e po l’ha dito, che per rabbia, che per invidia el vuol dir a tutti, che mi ve fazzo el mezzan con tutte do).
Conte. (Indegno!) Vieni qui. (a Spasimo)
Spasimo. Signore.
Conte. In questo punto vattene dal mio servizio.
Spasimo. Io? che cosa ho fatto, signore?
Conte. Tant’è. Vattene immediatamente, e avverti a non far parola di me, altrimenti ti farò romper le braccia.
Arlecchino. (Ride.)
Spasimo. Lo so perchè mi fa questo tratto.
Conte. Non replicare.
Spasimo. Pazienza. Mi favorisca almeno un mese di salario che avanzo.
Conte. Bene. (mette le mani in tasca)
Arlecchino. (Vustu che la comoda mi sta fazzenda?) (piano a Spasimo)
Spasimo. (Dove ho d’andar ora, povero disgraziato?) (da sè)
Arlecchino. (Se ti vuol, m’impegno de farte restar in casa). (come sopra)
Spasimo. (Fallo dunque, per coscienza almeno). (Quando bisogna, convien dissimulare). (da sè)
Arlecchino. (La senta...) (al Conte, piano)
Conte. (Tieni; dagli questo zecchino). (a Arlecchino)
Arlecchino. (Sior sì, subito). (Vustu spender sto zecchin per restar in casa?) (piano a Spasimo)
Spasimo. (Sì, te lo dono, se mi ritorni in grazia).
Arlecchino. (Sior Conte, cossa vorla far? el xe pentio quel poveromo. Se la lo manda via, la desperazion lo farà parlar. Per mi ghe perdono; la ghe perdona anca vussioria per sta volta). (piano al Conte)
Conte. (Ma se si abusa della mia bontà...)
Arlecchino. (Fazzo mi la sigurtà per elo. Povero diavolo, el me fa peccà). (piano al Conte)
Conte. (Basta, è un servitor che mi comoda; digli che abbia giudizio per l’avvenire).
Arlecchino. (Starò in guardia, e se me n’incorzerò gnente gnente...) (piano al Conte) Senti, a istanza mia, el padron te perdona. Abbi giudizio per l’avegnir. (a Spasimo, forte)
Spasimo. Io non so di aver mancato...
Arlecchino. E circa al salario, ora siete del pari...
Conte. Ho pagato il mese al briccone.
Arlecchino. Sior sì, nol pretende altro.
Spasimo. Per altro, signor padrone...
Arlecchino. Va via, che avemo da descorrer tra lu e mi.
Spasimo. Vorrei almeno...
Conte. Basta così, vattene. (a Spasimo)
Spasimo. (Mi mangia un zecchino con questa bella disinvoltura). (da sè)
Arlecchino. (Va via, caro ti, lasseme col patron; e no t’indubitar, che son qua per ti. Te sarò bon amigo; vustu altro? Se el te volesse licenziar, vien da mi, che te farò un’altra volta la carità senza interesse, de bon cuor). (a Spasimo)
Spasimo. (Birbonaccio. Può essere che quello zecchino ti costi caro un giorno. Faremo a farsela: una volta per uno). (da sè, e parte)
Conte. Che volevi tu dirmi? (ad Arlecchino)
Arlecchino. Gnente altro, se no che vussioria dorma i so sonni sora de mi. Che con Giacomina so come che me ho da regolar; che tutto anderà ben; che i maneghetti i tornerà al so posto, dove che i giera. Che Arlecchin sarà sempre el gran Arlecchin, che vago subito per servirla. (Che ho vadagnà un zecchinetto, e gh’ho speranza de recuperar el mio scudo). (da sè, e parte)
SCENA V.
Il Conte, poi il Dottore.
Conte. È un buon capitale avere costui alla mano. Ora vo’ avvisare, se posso, donna Metilde... Ma veggo il procuratore di don Eraclio. Ho curiosità di sapere, come vada la causa del suo palazzo.
Dottore. Servo del signor Conte.
Conte. Amico, venite voi con qualche novità favorevole per don Eraclio?
Dottore. Io vengo con una novità favorevole per me soltanto.
Conte. Che vale a dire?
Dottore. Vengo a mangiarmi un pezzo di cappone, delle ostriche, e della buona vitella.
Conte. Che credete voi voglia essere di don Eraclio?
Dottore. Io dico che sarà miserabile, senza beni, senza casa, e senza riputazione.
Conte. E la figliuola sua resterà nuda per cagione del padre?
Dottore. Dubito che sarà così.
Conte. Ed io dubito ne sappiate poco, signor Dottore.
Dottore. La ragione de’ creditori prevale a tutto.
Conte. Questa ragione, che prevale nel foro, non mi convince che non vi sia rimedio da salvar la dote della fanciulla.
Dottore. Come mai, se i beni sono liberi in don Eraclio! La moglie sua non ha portato in casa il valore di trenta paoli, e i debiti sono liquidi, e certi, ed indubitati.
Conte. Quanto tempo è che don Eraclio ha ipotecato il palazzo?
Dottore. Sarà un anno incirca.
Conte. E la campagna ultimamente venduta non son sei mesi che l’ha alienata.
Dottore. È vero.
Conte. S’egli con un contratto di nozze anteriore a queste due alienazioni avesse obbligato il palazzo e la villa per dote della figliuola, si potrebbe difendere il palazzo dalle pretese dei creditori, si potrebbono ricuperare i beni dalle mani del compratore?
Dottore. Si potrebbe in tal caso; ma non l’ha fatto.
Conte. E se non l’ha fatto, non si può dar ad intendere che fatto sia?
Dottore. Come?
Conte. Voi mi chiedete il come, fingendo meco di non saperlo; ma lo saprete meglio di me. Un contratto di nozze, figurato prima dei debiti, esclude ogni creditor posteriore; e voi di tali contratti ne averete fatti.
Dottore. Mi maraviglio; sono un galantuomo, signore.
Conte. Siete un galantuomo, lo so benissimo: ma la carità verso una povera figlia...
Dottore. Oh, questo poi...
Conte. E cento zecchini di regalo vi faranno studiar il modo di mettere al coperto con un contratto fittizio le ragioni di una fanciulla innocente.
Dottore. Veramente fa compassione quella ragazza.
Conte. Resterebbe miserabile per cagione del padre.
Dottore. Non è dovere, che le di lui pazzie la riducano a tali estremi.
Conte. Un contratto fatto colle buone regole due anni prima, vi pare che sia sufficiente rimedio?
Dottore. Sì, certo, e per maggiormente qualificarlo basterebbe figurarne un altro anteriore più ancora.
Conte. Bravo, signor Dottore, fate che la carità v’instruisca.
Dottore. Potrebbesi figurare che donna Claudia avesse portato in dote a don Eraclio una somma considerabile, e questa poi venisse assegnata in dote alla figlia.
Conte. Così, con due ragioni alla mano, avrebbesi più agevole la difesa.
Dottore. Certamente virius unita fortior.
Conte. Questi due contratti si potrebbono far nascere prima di domani.
Dottore. Con chi avrebbesi a fare il contratio di nozze della ragazza?
Conte. Con chi? Ardo anch’io di carità come voi: si può fare con me.
Dottore. E vossignoria si piglierà volentieri quel buon bocconcino di donna Metilde.
Conte. Certo, per assicurarle il possedimento del palazzo e della campagna.
Dottore. E la campagna e il palazzo sarà poi del signor conte Nestore, uxorio nomine.
Conte. Così è, il mio caro Dottore.
Dottore. E don Eraclio resterà senza niente.
Conte. Ma la figliuola almeno sarà provveduta.
Dottore. Per effetto dell’amore del signor conte Nestore.
Conte. E della carità del Dottore.
Dottore. Ma facciasi presto quello che s’ha da fare: periculum est in mora.
Conte. I cento zecchini saranno pronti.
Dottore. Ed io son lesto, quando si tratta di far del bene.
Conte. Andiamo dunque...
Dottore. Lo faremo dopo i capponi.
Conte. Sì, caro, come volete.
Dottore. (Gran buona creatura che è questo Conte!) (da sè, e parte)
Conte. (È pur caritatevole questo Dottore!) (da sè, e parte)
SCENA VI.
Camera di donna Claudia.
Donna Claudia e la Jacopina.
Claudia. Tant’è, vattene immediatamente di questa casa.
Jacopina. Perchè, signora, mi discaccia così?
Claudia. La roba mia non ha da essere sicura in casa?
Jacopina. In quattro anni che sono al di lei servizio, ha mai3 mancato niente, signora?
Claudia. I quattro anni passati non servono a giustificare la mancanza dei manichetti.
Jacopina. Ma io lo giuro, che non ne so niente.
Claudia. Ed io so che mi mancano, e tu o li hai rubati, o li hai lasciati rubare per trascuratezza; e sia o in un modo, o nell’altro, ho giusta ragione di licenziarti.
Jacopina. Ha ella guardato ben bene per tutto?
Claudia. Ho guardato dov’erano. E poi, che serve? So che sono stati venduti.
Jacopina. Si saprà dunque chi li ha venduti; e se vi sono de’ ladri in casa, si vedrà ch’io non ne ho colpa.
Claudia. Prima che altro si sappia, tu devi andartene di casa mia. (Mi preme ch’ella sen vada, per poter sostenere col Conte la mancanza delle gioje mie). (da sè)
Jacopina. Ma questa, la mi perdoni, è una crudeltà, un’ingiustizia. Farmi perdere la riputazione così per niente.
Claudia. (Ha ragione, per dirla, ma la riprenderò poi meco, e sarà risarcita). (da sè)
Jacopina. Abbia carità, signora, d’una povera donna, che non ha altro al mondo che un poco di buon concetto. Se perdo questo, ho perduto ogni cosa.
Claudia. Per ora vattene; dappoi4 la discorreremo.
Jacopina. Ma se vado via con questa maschera in viso...
Claudia. Non mi stare a far venire la bile. Ti licenzio con placidezza; ma se non parti subito, saprò farti andare in un modo che ti sarà di eterna vergogna. Vattene, insolente; e fa che questa sera qui non ti vegga, altrimenti sarà peggio per te, te lo giuro sull’onor mio. (parte)
SCENA VII.
La Jacopina, poi Arlecchino.
Jacopina. Meschina di me! Ecco il bel guadagno che ho fatto in quattr’anni per poco salario, e a soffrire le stravaganze di una famiglia di gente pazza. Pazienza! L’andarmene sarebbe il meno; spiacemi la reputazione che posso perdere; e senza colpa, povera me, senza colpa.
Arlecchino. Quella zovene, ve saludo.
Jacopina. (Ci mancava costui ora). (da sè)
Arlecchino. Cossa gh’aveu, che me pare stralunada?
Jacopina. Ho quel che ho; e voi lasciatemi stare.
Arlecchino. Cossa ghe vorria per rallegrarve? un altro scudo?
Jacopina. Nemmeno cento basterebbono a consolarmi.
Arlecchino. Tornème a dar el mio scudo, che mi ve consolo subito subito.
Jacopina. Invece di consolarmi, voi mi recate più noia.
Arlecchino. No me lo volè dar el mio scudo?
Jacopina. No; andate al diavolo.
Arlecchino. Eppur vorave far un’altra scomessa con vu.
Jacopina. Di che?
Arlecchino. Che me tornerè a dar el mio scudo.
Jacopina. Non vi renderò niente. Andate via, e lasciatemi stare. Ho altro in capo che le vostre buffonerie.
Arlecchino. Mi el so quel che ve fa sbacchettar la luna.
Jacopina. (Che lo avesse già detto la padrona, non crederei). (da sè)
Arlecchino. Anca sì, che i ve manda via de sta casa?
Jacopina. Perchè?
Arlecchino. Per un per de maneghetti. Ah? l’oggio indovinada?
Jacopina. (Povera me! la riputazione è perduta). (da sè)
Arlecchino. Ma mi so dove i xe quei maneghetti.
Jacopina. Caro Arlecchino, aiutatemi.
Arlecchino. Ah, ah! caro Arlecchino adesso?
Jacopina. Per carità, ditemi dove sono.
Arlecchino. Tolè, veli qua. (li fa vedere)
Jacopina. Sono quelli poi?
Arlecchino. I conosseu?
Jacopina. Li conosco.
Arlecchino. Vardèli ben. (li mostra spiegati)
Jacopina. Sì, sono quelli. Ora vado a dirlo alla padrona mia.
Arlecchino. Cossa gha voleu dir? Che vu li ave tolti per donarmeli a mi?
Jacopina. Sono pazza io da dir questo?
Arlecchino. Se no la dirè vu la cossa, la dirò mi.
Jacopina. Mi volete dunque precipitare.
Arlecchino. Anzi voggio farve del ben.
Jacopina. Ma come?
Arlecchino. Se mi ve dago sti manichetti, se vu disè d’averli trovadi in qualche altro logo, la padrona i gh’ha avanti sera, la lo crede, la se comoda, e per vu no ghe xe gnente de mal.
Jacopina. Datemeli dunque.
Arlecchino. Oh, questo xe el ponto dove che ve voleva.
Jacopina. Sta in vostra mano il rendermi la riputazione.
Arlecchino. Recipe un scudo.
Jacopina. Il vostro scudo vorreste?
Arlecchino. Se volè i maneghetti.
Jacopina. (Converrà poi darglielo). (da sè)
Arlecchino. E cussì, cossa resolvemio?
Jacopina. Lo scudo me lo avete donato.
Arlecchino. Donà, o barà; se volè i maneghetti, fora el scudo.
Jacopina. Eccolo.
Arlecchino. Dèmelo qua.
Jacopina. Tenete. (glielo dà)
Arlecchino. Caro el mio caro scudo, te baso, te torno a basar. Poveretto! t’aveva speso pur mal! Ma se la mia bontà t’aveva perso, la mia bona testa t’ha savesto recuperar.
Jacopina. Via, datemi i manichetti. Non mi fareste già la mal’azione di negarmeli ora.
Arlecchino. Meriteressi adesso che no ve i dasse, per refarme della minchionada che m’ave dà. Ma son galantomo, tolè i maneghetti, tegnili; sappiè per mia gloria, e per vostra mortificazion, che sti maneghetti i xe stadi tolti da donna Metilde; che ela li ha donadi al sior Conte; che sior Conte m’ha ordenà de darveli a vu, perchè vu i mette dove i giera; e mi, servindome de sta bona occasion, v’ho restituido la burla, ho recuperà el mio scudo, e vi son profondissimo servitor. (parte)
Jacopina. Ah galeottaccio! me l’ha fatta... Pazienza! Sento gente. Vado a riporli. Ma no! dirò d’averli trovati. Brava la signorina: li ha presi per regalare l’amante, ed io poveraccia... quante volte così succede! Viene rubato in casa da chi meno si crede, e poi s’incolpa la povera servitù. (parte)
SCENA VIII.
Altra camera.
Donna Claudia ed il Conte Nestore.
Claudia. Credetemi, son disperata.
Conte. Eppure il cuore mi dice, che le gioje vostre non sieno state rubate.
Claudia. Ma nel mio burrò non ci sono.
Conte. Credo benissimo che non ci sieno.
Claudia. Dunque mi sono state rubate.
Conte. Non potrebbono essere, per esempio, in un altro luogo sicuro?
Claudia. Dove mai?
Conte. Se fossero per accidente sul Monte pubblico, non sarebbono in salvo?
Claudia. Lo sapete anche voi dunque, che sono al Monte?
Conte. Parmi averlo sentito dire.
Claudia. Ma mio marito non ne sa niente.
Conte. Può essere. (Se l’ha egli stesso impegnate). (da sè)
Claudia. Ecco, mi sono state rubate ed impegnate sul Monte.
Conte. Chi mai può aver commesso un tal furto?
Claudia. La Jacopina.
Conte. Dov’è la Jacopina? Interroghiamola un poco.
Claudia. Non c’è quella indegna; l’ho discacciata di casa.
Conte. Male; prima di assicurarsi del suo delitto?
Claudia. Ne sono certa. L’ho licenziata; ma le farò tener dietro, perchè non fugga.
Conte. Qual fondamento avete, signora, per giudicarla rea di tal furto?
Claudia. Quello de’ manichetti.
Conte. Siete poi certa che questi sieno dei vostri? (le fa vedere i suoi manichetti)
Claudia. Questi? non mi pare. Non sono quelli che avevate quand’io era da voi.
Conte. Perdonatemi; volete voi che a quest’ora mi sia levata la camiscia di dosso per iscambiarla? Sono gli stessi. (Si assomigliano almeno). (da sè)
Claudia. Saranno dessi adunque, e mi pare sieno de’ miei; e lo saranno, poichè nel solito cassettino non li ho trovati.
Conte. E ve li ha rubati la Jacopina?
Claudia. Senz’altro, e chi mi ha rubato i manichetti, mi avrà rubato le gioje; e sono al Monte, e a me preme ricuperarle senza un rimprovero di mio marito; e altri che voi. Conte, mi può far la finezza di darmi il modo di poterle ricuperare.
Conte. (Già lo sapeva, che qui doveva finire; ma non fa niente). (da sè)
Claudia. Voglio credere che non diffiderete della pontualità mia.
Conte. Oh pensate; ma prima sarebbe cosa ben fatta assicurarsi del furto, e della mano che lo ha commesso. Fatemi un piacere, signora, riguardate un po’ meglio nel cassettino, e altrove, se si trovassero i manichetti.
Claudia. Ci ho guardato, vi dico; e poi, che ho da guardare? Se sono quelli che avete voi alle mani.
Conte. Ecco la Jacopina. Sentiamo un poco da lei...
Claudia. Ancora qui la sfacciata?
SCENA IX.
La Jacopina e detti.
Jacopina. Signora, i suoi manichetti...
Claudia. Eccoli lì dove sono. (accenna quelli del Conte) E tu li averai rubati e venduti.
Jacopina. Io non sono capace, e però le dico...
Claudia. E chi averà rubato i manichetti, averà rubato le gioje.
Jacopina. Sì, signora, chi averà rubato i manichetti, averà rubato le gioje. I manichetti eccoli qui. Le gioje, vada al Monte, che le troverà quando vuole.
Claudia. Quai manichetti sono questi?
Jacopina. Quelli che erano nel cassettino.
Claudia. Non è vero, ne avrai ritrovato un paio di simili per accomodarla meco; nel cassettino non c’erano. E tu vattene tosto di questa casa.
SCENA X.
Donna Metilde e detti.
Metilde. Signora, non istia a gridare alla Jacopina per i manichetti, poichè io li ho levati dal cassettino, e posti nel mio armadio.
Claudia. Per qual ragione far questo?
Metilde. Per attaccarli ad una camiscia del signor padre.
Claudia. Spetta a voi di farlo? (adirata)
Metilde. Compatisca. (Se l’è creduta). (da sè)
Claudia. Riponeteli. (alla Jacopina)
Jacopina. Sì, signora. (Se l’è bevuta...) (da sè)
Claudia. Nascono di quei casi... (al Conte)
Conte. Sono accidenti. (L’è andata bene). (da sè)
Claudia. Tocca a voi custodire la biancheria. Andate, (alla Jacopina)
Jacopina. Dove, signora?
Claudia. A far quel che occorre nella mia camera.
Jacopina. (Via via, lo scudo l’ho speso bene). (da sè, e parte)
SCENA XI.
Donna Claudia, il Conte, donna Metilde.
Claudia. (Non so come azzardarmi ora a sostenere la favola delle gioje). (da sè)
Conte. Ho piacere che siate certificata dell’onoratezza della cameriera. (a donna Claudia)
Claudia. Sì, per ora... (Sono mortificata). (da sè)
Conte. (Vi ringrazio de’ manichetti). (piano a donna Metilde)
Metilde. (Accettate il buon animo). (piano al Conte)
Claudia. Conte, sentite. (Delle gioje, che vogliamo dire sia stato?) (piano al Conte)
Conte.(Ritorneranno per quella strada medesima, per cui sono andate). (piano a donna Claudia)
Claudia. (Dubito ch’egli lo sappia quanto lo so io, che don Eraclio me l’ha impegnate). (da sè)
Conte. (Se vi si propone di maritarvi, dite di sì)... (piano a donna Metilde)
Metilde. (Se fosse con voi). (piano al Conte)
Conte. (Può essere che sia con me...) (piano a donna Metilde)
Claudia. Parlate con me. Conte, non date pascolo alle scioccherie di Metilde.
Conte. Sono ai vostri comandi. (a donna Claudia)
Metilde. (Ne imparo tante da lei delle sciocchezze). (da sè)
SCENA XII.
Don Eraclio e detti.
Eraclio. Conte, ho ordinato in tavola.
Conte. Son qui a ricevere le grazie vostre.
Eraclio. Dov’è la Contessina vostra, che non la veggo?
Conte. Si è ritirata un poco, perchè ancora è stanca dal viaggio. Anderò a chiamarla quando sia in tavola.
Eraclio. Ho una botteglia di Canarie vecchio di dodici anni. L’ho sempre serbata per un’occasione d’impegno; oggi, in occasione della scoperta fatta de’ nuovi fregi della mia casa, si ha da bevere alla salute di Ercole.
Conte. Prima che vadasi alla sboccatura della botteglia, frattanto che si allestisce la tavola, vorrei, don Eraclio, che si tenesse fra noi un breve ragionamento.
Eraclio. In giorno di tanta festa non mi parlate d’affari. (I mille scudi li ha dati?) (piano a donna Claudia)
Claudia. (Non ancora). (piano a don Eraclio)
Eraclio. È venuto l’amico vostro dei mille zecchini? (al Conte)
Conte. Non si è veduto.
Eraclio. (Vuol andar male, io dubito). (da sè) Che volevate voi dirmi? (al Conte)
Conte. Spiacemi che le dame stieno in disagio.
Claudia. Partirò, se il volete.
Conte. Non signora, desidero che restiate, ma accomodata.
Claudia. Sediam dunque; Metilde, andate.
Metilde. (Già me l’aspettava). (da sè)
Conte. Permettetele in grazia mia, ch’ella resti.
Claudia. Resti per compiacervi. Sediamo.
Eraclio. Passate di qua. Conte, che starete meglio. (Ci ho da star io nel mezzo). (da sè)
Conte. (Conosco il superbo). (da sè) Eccomi dove comandate. (siede all’ultimo luogo, e tutti siedono)
Metilde. (Son curiosa di sentire, se mi propongono quel che mi ha detto). (da sè)
Conte. Don Eraclio, non fate che quello che ora vi dico, vi turbi l’animo, poichè alla fine resterete più consolato.
Eraclio. Dite pure. (Se venissero i mille scudi!) (da sè)
Conte. La causa del palazzo è perduta.
Eraclio. Se non la posso perdere.
Conte. Non la dovreste perdere; ma in oggi non si fa caso della nobiltà e del merito. Ve lo dico con dispiacere: questo palazzo non è più vostro.
Eraclio. E dove anderà ad abitare un uomo del mio carattere?
Conte. In una delle trentasette città.
Eraclio. Ma perchè darmi una sì trista nuova a quest’ora? Perchè non lasciarmi almeno desinare con gusto?
Conte. Voglio anzi che mangiate con maggior quiete, con maggior piacere.
Eraclio. Consolatemi, amico. Fate che non paiano amari quei due capponi.
Claudia. Già lo prevedeva io il precipizio nostro.
Conte. Il precipizio è grande, ma vi può essere il suo rimedio.
Eraclio. Voi ci potete aiutare. (al Conte)
Claudia. Voi, Conte, colla vostra mente, coll’assistenza vostra.
Conte. Sapete chi può essere il vostro risorgimento? Quella fanciulla, quella damina, quell’unica vostra figliuola.
Eraclio. Come?
Claudia. In qual modo?
Metilde. (Se fosse vero, non mi sgriderebbe più la signora madre). (da sè)
Conte. Maritandola, assegnandole in dote il palazzo e la campagna ultimamente venduta: con un contratto anteriore ai debiti ed alla vendita respettiva. (piano, guardando che alcuno non senta) Tutto si salva, si dà stato alla figlia, e si patteggia col genero l’utile, il decoro, e la convenienza.
Metilde. Il consiglio non può essere più bello.
Claudia. Tacete voi. (a donna Metilde)
Eraclio. Non mi dispiace il progetto; ma dove ritrovare un partito, che degno sia del mio sangue?
Conte. Se l’affare non si conclude dentro di oggi, domani non siamo in tempo, per il palazzo almeno.
Eraclio. Non vorrei che mi si facesse un affronto.
Conte. L’amicizia mia vi esibisce quanto vi può esibire. Il Dottore stenderà il contratto qui sul momento, ed io vi offerisco di essere, per assicurare il vostro interesse, il fortunato sposo di vostra figlia.
Claudia. (Ah, questa sua esibizione mi desta un’orribile gelosia). (da sè)
Metilde. Il signor Conte mi prenderebbe soltanto per far piacere a mio padre?
Conte. Anzi la mia inclinazione...
Claudia. Acchetatevi, sfacciatella; voi non meritate che il Conte s’induca a desiderarvi che in grazia nostra, e son sicura che il suo talento ritroverà qualche via migliore per preservare i beni di questa casa, senza il sagrificio del cuore.
Conte. Non vi è strada migliore di questa, signora.
Eraclio. Ah Conte, sapete voi chi sono?
Conte. Lo so benissimo; ed io, malgrado lo stato vostro infelice...
Eraclio. Sapete voi che ho il sangue degli Eraclidi nelle mie vene?
Conte. Che vorreste dire perciò?
Eraclio. Siete Conte, siete nobile, e voglio credere lo siate ancora più di quello che siete; ma la vostra nobiltà non averà poi l’origine sì lontana da paragonarsi alla nostra.
Conte. Non ho trentasette città ne’ miei titoli; ma posso avere trentasette migliaia di scudi, che mi rendono in istato di migliorare le cose vostre.
Metilde. È un bel feudo trentasette migliaia di scudi.
Claudia. (Morirei dall’invidia, se ciò accadesse). (da sè)
Eraclio. Caro amico, non vi è altro rampollo del sangue d’Ercole, che quest’unica figlia. (accennando donna Metilde) Sperava io collocarla con qualche illustre prosapia dei primi secoli. Non intendo oltraggiarvi se dubito darla a voi, quando anche foste discendente da Carlo Magno.
Conte. Vi compatisco; la mia nobiltà non eccede tre secoli. Ma qual vergogna per voi sarebbe veder un giorno il sangue d’Ercole nell’estrema miseria? Vedere una figlia degli Eraclidi obbligata dalla necessità sposare un cittadino, un mercante, e forse un bottegaio ancora?
Eraclio. Morirei disperato.
Conte. Risolvetevi dunque di abbassarvi tre gradi meco, per non precipitare più al fondo.
Eraclio. Nobilissima dama, che dite voi? (a donna Claudia)
Claudia. Dico io, che piuttosto... (Ah, non so che mi dire)-(da sè)
Conte. (Signora, non perdete di vista le gioje vostre). (a donna Claudia)
Claudia. (Come si potrebbon ricuperare?) (al Conte)
Conte. Coli l’accasamento di vostra figlia, avendo luogo il divisato contratto.
Claudia. Cavaliere, che risolvete? (a don Eraclio)
Eraclio. Non saprei... Son confuso.
Conte. Ricordatevi che le trentasette città che vi onorano, non vi daranno un tetto per ricoverarvi, nè un pane per satollarvi. (a don Eraclio)
Eraclio. Ah, la nobiltà è un gran bene! ma una buona tavola è la mia passione.
Claudia. Costei non merita che a lei si pensi; ma lo stato nostro è infelice.
Eraclio. Orsù, facciasi un’eroica risoluzione. (s’alza) Conte, il merito vostro è sì grande, che vi rende degno del sangue nostro. Soffri, Ercole, in pace la lieve macchia del grado illustre de’ tuoi figliuoli. Sì, Conte, si stipuli il gran contratto. Si salvi più che si può l’onore della famiglia; Metilde è vostra, e andiamo a solennizzare le nozze in un festoso convito. (parte)
Conte. Potrò chiamarmi ben fortunato...
Claudia. Non mi credeva mai, conte Nestore, che le attenzioni vostre usate alla madre, tendessero al possedimento della figliuola.
Conte. Donna Claudia, se la presente disgrazia vostra non mi obbligasse...
Claudia. Sì, c’intendiamo. Andate innanzi voi. (a donna Metilde)
Metilde. Signora, se deve essere mio sposo...
Claudia. Ei non lo è per anche.
Metilde. Ma lo sarà.. (parte)
Claudia. Se ciò ha da essere, non vi lasciate mai più vedere dagli occhi miei. (al Conte)
Conte. Mi credete indegno d’imparentarmi con voi?
Claudia. Finora vi ho creduto degno della mia stima; ora sarete degno dell’odio mio.
Conte. Signora, confidatemi l’arcano delle gioje vostre.
Claudia. Ah! non so che dire, Conte, compatitemi. Alfin son donna, e non vi dico di più. (parte)
Conte. Ora vedesi chiaramente, che la miseria avvilisce gli altieri, che l’ambizione può più dell’amore, e che una testa come la mia sa fabbricar da se stessa la sua fortuna. (parte)
SCENA XIII.
La Jacopina ed Arlecchino.
Jacopina. Che mi andate voi dicendo di questo vecchio?
Arlecchino. Ve digo che la xe la più bella cossa del mondo. L’è arriva in Cremona el padre del conte Nestore.
Jacopina. Che importa a me del padre del conte Nestore?
Arlecchino. V’importerà co lo vedere, perchè l’ha da esser una bella scena.
Jacopina. È un cavaliere di garbo?
Arlecchino. E come!
Jacopina. Si vede che sia veramente di quella nobiltà che conta il di lui figliuolo?
Arlecchino. Anzi, a vardarlo, se ghe cognosse in lu una nobiltà strepitosa.
Jacopina. Ricco?
Arlecchino. Ricchissimo.
Jacopina. Vestito bene?
Arlecchino. Magnificamente.
Jacopina. E dove si trova?
Arlecchino. L’è qua, che el vorave veder i so do fioli.
Jacopina. Lo sanno eglino ch’ei sia arrivato?
Arlecchino. No i lo sa gnancora. El ghe vol comparir all’improvviso. Per far che la burla sia più bella, lo podè condur co i xe a tola.
Jacopina. Fatelo venire innanzi, che ho curiosità di vederlo.
Arlecchino. Vederè el fior della nobiltà.
Jacopina. Mi metterà in soggezione.
Arlecchino. Gnente, el xe un agneletto. La favorissa, patron, la vegna avanti.
SCENA XIV.
Messer Nibio e detti.
Nibio. Dove sono questi figliuoli?
Jacopina. Chi è costui? (ad Arlecchino)
Arlecchino. El padre del conte Minestra.
Jacopina. Voi mi burlate. (ad Arlecchino)
Arlecchino. Domandeghelo a elo.
Jacopina. Voi siete il padre del conte Nestore? (a Nibio)
Nibio. Sì, io sono il padre di quello che si fa creder Conte. La mia sincerità non soffre di secondare la sua impostura; e stimo più l’onore di essere un galantuomo, quantunque povero, di quello sia i titoli, le ricchezze, e la vanità.
Jacopina. Oh bella, oh bella davvero!
Arlecchino. No ve l’oggio dito? (alla Jacopina)
Jacopina. Come si chiama vostro figliuolo? (a Nibio)
Nibio. Pasquale.
Jacopina. E la figlia?
Nibio. Carlotta.
Jacopina. La contessa Carlotta?
Nibio. Ella è da me fuggita per rintracciare il fratello. L’ho seguitata sulle tracce avute della sua fuga. Li ho ritrovati ambedue, grazie al cielo, per via di quest’uomo dabbene... (accenna Arlecchino)
Arlecchino. Ma gh’ha volesto del bello e del bon de capir chi al domandava. Se no el nominava el nome de Carlotta, giera impossibile che mi me insuniasse, che el conte Manestra fusse missier Pasqual.
Nibio. Dove son eglino questi pazzi de’ miei figliuoli?
Jacopina. Saranno a tavola coi miei padroni.
Nibio. Dite loro che è qui suo padre.
Jacopina. Venite con me, galantuomo. Come vi chiamate?
Arlecchino. El m’ha dito che el gh’ha nome Nibio.
Jacopina. Andiamo. (Diceste bene che la scena voleva esser graziosa). (ad Arlecchino)
Arlecchino. (A vu mo tocca a farla ancora più bella). (a Jacopina)
Jacopina. (Lasciate fare a me, che la vo’ condire). (ad Arlecchino) (Mi vo’ godere le mie padrone, che si credevano essere servite dall’illustrissimo signor Conte). (da sè, e parte)
Nibio. Non vo’ che i miei figliuoli si arricchiscano colla bugia: sono un uomo d’onore, e tal sarò fin che io viva. (parte)
Arlecchino. Voggio andarmelo a goder anca mi sior Conte. Oh, quanti de sti Conti incogniti, se se podesse veder de chi i xe fioli, i deventerave tanti Pasquali. (parte)
SCENA XV.
Sala con tavola apparecchiata.
Don Eraclio, il Dottore, poi donna Claudia e donna Metilde.
Eraclio. Già il Conte mi ha detto ogni cosa. Si parlerà dopo desinare.
Dottore. Dopo desinare? Si potrebbe dir dopo cena. Poco manca alla sera, ed io, per dirla, ho lo stomaco rovinato.
Eraclio. Avrete modo di confortarlo. Voi altri siete avvezzi a mangiare per tempo. So che gli antichi cenavano solamente, ed io mangio sempre coi lumi.
Claudia. Ecco a che siamo ridotti, per cagione delle vostre pazzie.
Eraclio. Non mi guastate ora il piacer della tavola.
Metilde. Finalmente il signor Conte non è un villano.
Eraclio. Mi farò dir meglio le cose della casa sua, e chi sa, se noi discendiamo da Ercole, ch’ei non discenda da Deianira?
SCENA XVI.
Il Conte, Carlotta e detti.
Conte. Eccoci qui a godere delle vostre finezze.
Carlotta. A quest’ora si desina? A quest’ora, in villa da noi...
Conte. In campagna si fan le cose diversamente. (Finitela con questa villa). (piano a Carlotta)
Eraclio. Venite qui, Contessina, sedete presso di me.
Conte. Non vi prendete incomodo. (a don Eraclio)
Eraclio. La voglio qui, vi dico.
Carlotta. Mettetemi dove volete; ma datemi da mangiare, che non posso più. (siedono don Eraclio e Carlotta vicino)
Claudia. (Andiamo a mangiare tanto veleno). (siede presso don Eraclio)
Metilde. (Non ci vorrei stare vicino alla signora madre). (da sè)
Claudia. Venite qui, voi. (a donna Metilde)
Metilde. Starò qui, signora. (un poco lontana)
Claudia. Venga qui il Conte dunque.
Metilde. Ci verrò io, dunque. (Non lo voglio vicino a lei). (da sè, e siede)
Eraclio. Conte, vicino alla sposa.
Conte. Starò qui presso mia sorella. (Non vorrei che mi facesse delle male grazie). (da sè)
Metilde. Pazienza! Vedo il bell’amore che ha per me il signor Conte.
Conte. (Ha ragione). (da sè) Son qui, signora; perdonate se non ardiva... (siede vicino a donna Metilde)
Dottore. Ed io qui, dunque. (siede vicino a Carlotta)
Carlotta. Chi siete voi, signore?
Dottore. Sono il dottore Melanzana per obbedida.
Carlotta. Ho piacere di stare vicina al Dottore: ce n’era uno che mi voleva bene, in villa da noi.
Conte. Via, Contessina. Non parlate ora del Dottor della villa.
Eraclio. In principio di tavola non si parla. Tenete di questa zuppa. (dà un tondino di zuppa a Carlotta)
Carlotta. Così poca me ne date? (a don Eraclio)
Conte. (Oh povero me!) (da sè)
Claudia. Ne volete dell’altra? («3 Carlotta)
Carlotta. Sono avvezza a mangiarmene sei volte tanta.
Conte. Contessina! (ironico)
Eraclio. Eccovi dell’altra zuppa.
Carlotta. Questa pappa si dà ai bambini in villa da noi... (mangia velocemente)
Eraclio. Qual è la minestra che più vi piace?
Carlotta. Maccheroni, fagiuoli, cose di più sostanza.
Conte. (Mi vuol far disperare costei). (da sè)
Claudia. È molto delicata di gusto. (ironico)
Carlotta. Quando ho mangiata una buona minestra, non ci penso di altro.
Conte. Le avvezzano così nel ritiro.
Carlotta. Datemi da bevere.
Dottore. Così presto?
Carlotta. Si beve quando si ha sete, in villa da noi.
Conte. (Non ce la conduco più per un pezzo). (da sè) (servitore porta i capponi)
Eraclio. Ecco i capponi; Conte, ecco i capponi. Eccoli, signor Dottore.
Carlotta. Anche da noi se ne mangiano di questi.
Eraclio. Sapete trinciare voi? (al Conte)
Conte. Non ho grande abilità, per dirla.
Eraclio. Voi, Dottore, sapete trinciare?
Dottore. Non signore, dispensatemi.
Carlotta. Che vuol dir trinciare?
Eraclio. Tagliare, far le parti, spezzare.
Carlotta. Nessuno sa far le parti, nessuno sa spezzare di voi? Siete bene ignoranti; taglierò io.
Conte. Eh via, non fate di queste scene...
Carlotta. Sentite che caro signor fratello! Pare ch’io non sappia far niente. Ci vuol tanto a spezzare un cappone? Si fa così da noi. (prende il cappone per romperlo colle mani)
Conte. Fermatevi, dico.
Eraclio. Non me lo rovinate. (leva il piatto)
Claudia. Che sorta di educazione ha avuto vostra sorella?
Conte. La Contessa sua madre ha creduto far bene a porla sotto la direzione di alcune vecchie sue zie; ecco il profitto che ne ha ricavato.
Claudia. Par impossibile ch’ella sia nata con civiltà.
Metilde. Quando sarà mia cognata, le insegnerò io il costume civile.
Carlotta. Ho da essere vostra cognata?
Conte. Sì, certo. Non ve l’ho detto che io averò la fortuna di dar la mano a donna Metilde?
Claudia. Don Eraclio, pensateci bene prima di farlo.
Eraclio. Lasciatemi mangiare per ora.
Conte. Signora, porreste in dubbio la nobiltà della mia famiglia? (a donna Claudia)
Dottore. Il contratto è steso, e dopo avere mangiato, noi lo stipuleremo.
Metilde. Spicciamoci presto, dunque.
SCENA XVII.
La Jacopina e detti; poi messer Nibio.
Jacopina. C’è uno che domanda del signor Conte.
Conte. E chi è che mi vuole?
Eraclio. Sarà quello dei mille zecchini. Fatelo venire innanzi.
Conte. Si può sapere chi sia?
Jacopina. Non lo conosco. (Non gli vo’ dire chi sia, per godere la bella scena). (da sè)
Eraclio. Vediamolo chi è, fatelo venire.
Jacopina. Subito. (Oh come vuol restar brutto il signor Conte! Ma se lo merita, che voleva ingannare la povera padroncina). (da sè, e parte)
Eraclio. Se fosse quello che vi porta il denaro, non abbiate soggezione di noi; dopo che averemo mangiato, potrà contarlo qui sulla tavola.
Conte. Ohimè! chi vedo mai?
Nibio. Con licenza di lor signori.
Carlotta. Mio padre.
Eraclio. Un villano? che vuoi tu qui? (adirato)
Nibio. Vengo in traccia de’ miei figliuoli.
Eraclio. E dove sono i figliuoli tuoi?
Nibio. Eccoli qui: Pasquale e Carlotta.
Eraclio. Come! (tututi si alzano)
Claudia. Che dice?
Conte. (Son perduto). (da sè) Sarà un pazzo costui, non gli badate, signori.
Nibio. Hai tanto ardir, temerario, di dir pazzo a tuo padre?
Carlotta. Mi meraviglio di voi, fratello, che strapazzate così nostro padre. Sì signore, egli è messer Nibio, io sono Carlotta sua figlia, e il conte Nestore è Pasquale suo figlio.
Eraclio. Ercole, Ercole, dove sei?
Conte. (Ah, che ad un colpo simile non so resistere. La natura tradisce la consueta mia intrepidezza; sento avvilirmi. Arrossisco in faccia di chi mi vede). (da sè) Signori... io sono... Mi meraviglio di chi non crede... Ora ora... Vi farò conoscere chi sono. (parte)
Eraclio. Sangue degli Eraclidi assassinato!
Nibio. E tu, tristarella che sei, abbandonasti questo povero vecchio padre, per seguire il pazzo di tuo fratello? Torna meco; deponi quegli abiti che ti stanno d’intorno; e vieni a riprendere la tua rocca, il tuo aratro, e la servitù di tuo padre.
Carlotta. Signori, la contessa Carlotta vi fa umilissima riverenza, e in ricompensa del desinare che le avete dato, vi invita in campagna, a mangiare un piatto di ravanelli. (parte)
Eraclio. Ercole, Ercole, dove sei?
SCENA ULTIMA.
Arlecchino e detti.
Arlecchino. Ercole fa umilissima riverenza a lor signori, e el ghe fa saver, che sior Conte bona testa in sto ponto l’ha trovà el cavallo del conte Nibio so padre, el gh’ha montà suso; l’è andà fora della porta della città, el va via de galoppo per paura de esser fermà.
Nibio. Povero me! il temerario mi fugge; ma lo raggiungerò da per tutto, e almeno avrò ricuperato la figlia. Signori, compatite un pazzo; ma da quello che intesi dire di voi, prima d’entrar qui dentro, credo che siate pazzi voi pure, niente meno di lui.
Arlecchino. L’ha dito una sentenza da Ciceron.
Claudia. (Resto attonita, non so parlare). (da sè)
Arlecchino. Lustrissima, me esebisso mi de esser e! so cavalier. (a donna Claudia)
Metilde. Povera me! sono rovinata. Se non posso averlo come il conte Nestore, mi contenterei di averlo anche come Pasquale.
Arlecchino. Co l’è cussì, la fazza capital de Arlecchin. (a donna Metilde)
Claudia. Ecco il frutto della vostra condotta. (a don Eraclio)
Eraclio. A me rimproveri? Chi faceva le grazie al Conte, io, o voi?
Claudia. Avete ragione; non so che dire. Fra le vostre e le mie pazzie ci siamo entrambi precipitati.
Eraclio. Signor Dottore, che sarà di me povero cavaliere?
Dottore. Male assai, il palazzo è perduto.
Eraclio. Dove andrò a ricoverarmi?
Arlecchino. V’insegnerò mi un logo seguro, un logo comodo.
Eraclio. Dove mai?
Arlecchino. All’ospeal dei matti.
Eraclio. Ah sì, mi rimprovera ognuno con ragione. L’ospedale de’ pazzi è luogo degno di me; luogo degno di un povero prosontuoso, che cercando nobilitarsi colla vanità del passato, si è rovinato in presente, e lo sarà peggio ancora nell’avvenire. Prendano esempio da me i pazzi gloriosi, che chi si crede di essere più di quello ch’egli è, si riduce alla fine nella dispezione in cui sono, ridicolo, miserabile, maltrattato e schernito.
Fine della Commedia.