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182 ATTO TERZO


della scoperta fatta de’ nuovi fregi della mia casa, si ha da bevere alla salute di Ercole.

Conte. Prima che vadasi alla sboccatura della botteglia, frattanto che si allestisce la tavola, vorrei, don Eraclio, che si tenesse fra noi un breve ragionamento.

Eraclio. In giorno di tanta festa non mi parlate d’affari. (I mille scudi li ha dati?) (piano a donna Claudia)

Claudia. (Non ancora). (piano a don Eraclio)

Eraclio. È venuto l’amico vostro dei mille zecchini? (al Conte)

Conte. Non si è veduto.

Eraclio. (Vuol andar male, io dubito). (da sè) Che volevate voi dirmi? (al Conte)

Conte. Spiacemi che le dame stieno in disagio.

Claudia. Partirò, se il volete.

Conte. Non signora, desidero che restiate, ma accomodata.

Claudia. Sediam dunque; Metilde, andate.

Metilde. (Già me l’aspettava). (da sè)

Conte. Permettetele in grazia mia, ch’ella resti.

Claudia. Resti per compiacervi. Sediamo.

Eraclio. Passate di qua. Conte, che starete meglio. (Ci ho da star io nel mezzo). (da sè)

Conte. (Conosco il superbo). (da sè) Eccomi dove comandate. (siede all’ultimo luogo, e tutti siedono)

Metilde. (Son curiosa di sentire, se mi propongono quel che mi ha detto). (da sè)

Conte. Don Eraclio, non fate che quello che ora vi dico, vi turbi l’animo, poichè alla fine resterete più consolato.

Eraclio. Dite pure. (Se venissero i mille scudi!) (da sè)

Conte. La causa del palazzo è perduta.

Eraclio. Se non la posso perdere.

Conte. Non la dovreste perdere; ma in oggi non si fa caso della nobiltà e del merito. Ve lo dico con dispiacere: questo palazzo non è più vostro.

Eraclio. E dove anderà ad abitare un uomo del mio carattere?

Conte. In una delle trentasette città.