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172 | ATTO TERZO |
Conte. Che volevi tu dirmi? (ad Arlecchino)
Arlecchino. Gnente altro, se no che vussioria dorma i so sonni sora de mi. Che con Giacomina so come che me ho da regolar; che tutto anderà ben; che i maneghetti i tornerà al so posto, dove che i giera. Che Arlecchin sarà sempre el gran Arlecchin, che vago subito per servirla. (Che ho vadagnà un zecchinetto, e gh’ho speranza de recuperar el mio scudo). (da sè, e parte)
SCENA V.
Il Conte, poi il Dottore.
Conte. È un buon capitale avere costui alla mano. Ora vo’ avvisare, se posso, donna Metilde... Ma veggo il procuratore di don Eraclio. Ho curiosità di sapere, come vada la causa del suo palazzo.
Dottore. Servo del signor Conte.
Conte. Amico, venite voi con qualche novità favorevole per don Eraclio?
Dottore. Io vengo con una novità favorevole per me soltanto.
Conte. Che vale a dire?
Dottore. Vengo a mangiarmi un pezzo di cappone, delle ostriche, e della buona vitella.
Conte. Che credete voi voglia essere di don Eraclio?
Dottore. Io dico che sarà miserabile, senza beni, senza casa, e senza riputazione.
Conte. E la figliuola sua resterà nuda per cagione del padre?
Dottore. Dubito che sarà così.
Conte. Ed io dubito ne sappiate poco, signor Dottore.
Dottore. La ragione de’ creditori prevale a tutto.
Conte. Questa ragione, che prevale nel foro, non mi convince che non vi sia rimedio da salvar la dote della fanciulla.
Dottore. Come mai, se i beni sono liberi in don Eraclio! La moglie sua non ha portato in casa il valore di trenta paoli, e i debiti sono liquidi, e certi, ed indubitati.