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184 ATTO TERZO


Metilde. Il signor Conte mi prenderebbe soltanto per far piacere a mio padre?

Conte. Anzi la mia inclinazione...

Claudia. Acchetatevi, sfacciatella; voi non meritate che il Conte s’induca a desiderarvi che in grazia nostra, e son sicura che il suo talento ritroverà qualche via migliore per preservare i beni di questa casa, senza il sagrificio del cuore.

Conte. Non vi è strada migliore di questa, signora.

Eraclio. Ah Conte, sapete voi chi sono?

Conte. Lo so benissimo; ed io, malgrado lo stato vostro infelice...

Eraclio. Sapete voi che ho il sangue degli Eraclidi nelle mie vene?

Conte. Che vorreste dire perciò?

Eraclio. Siete Conte, siete nobile, e voglio credere lo siate ancora più di quello che siete; ma la vostra nobiltà non averà poi l’origine sì lontana da paragonarsi alla nostra.

Conte. Non ho trentasette città ne’ miei titoli; ma posso avere trentasette migliaia di scudi, che mi rendono in istato di migliorare le cose vostre.

Metilde. È un bel feudo trentasette migliaia di scudi.

Claudia. (Morirei dall’invidia, se ciò accadesse). (da sè)

Eraclio. Caro amico, non vi è altro rampollo del sangue d’Ercole, che quest’unica figlia. (accennando donna Metilde) Sperava io collocarla con qualche illustre prosapia dei primi secoli. Non intendo oltraggiarvi se dubito darla a voi, quando anche foste discendente da Carlo Magno.

Conte. Vi compatisco; la mia nobiltà non eccede tre secoli. Ma qual vergogna per voi sarebbe veder un giorno il sangue d’Ercole nell’estrema miseria? Vedere una figlia degli Eraclidi obbligata dalla necessità sposare un cittadino, un mercante, e forse un bottegaio ancora?

Eraclio. Morirei disperato.

Conte. Risolvetevi dunque di abbassarvi tre gradi meco, per non precipitare più al fondo.

Eraclio. Nobilissima dama, che dite voi? (a donna Claudia)

Claudia. Dico io, che piuttosto... (Ah, non so che mi dire)-(da sè)