Atto II

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Atto I Atto III

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ATTO SECONDO.

SCENA PRIMA.

Segue la stessa camera.

Jacopina e Arlecchino.

Arlecchino. Mo via, no siè cussì ingrata con chi ve vol ben.

Jacopina. Voi siete qui colle solite seccature.

Arlecchino. Aveu paura che le mie seccature le ve fazza calar la carne?

Jacopina. Ho paura, se mi scappa la pazienza di dosso, avervi da dare qualche cosa nel grugno.

Arlecchino. El grugno el gh’ha i porchi, patrona; no mi, che per soranome i me disc Arlecchin Visobello.

Jacopina. Chi diavolo è stato colui che vi ha posto il nome di Visobello?

Arlecchino. Me xe sta dà sto bel titolo da una congregazion de femene, che cognosse el mio merito. [p. 140 modifica]

Jacopina. L’avranno detto per burlarvi, come si dice, per esempio, bravo ad un asino.

Arlecchino. L’aseno el gh’ave sempre in bocca.

Jacopina. Non me lo ricordo mai, se non quando vi vedo.

Arlecchino. Acciò che el podè veder maggio, un’altra volta vol vegnir con un specchio.

Jacopina. Bricconaccio! credete che non vi capisca? Specchiatevi in una galera, che vedrete il vostro ritratto.

Arlecchino. Giacomina, non andar in collera.

Jacopina. Se verrete più voi in questa casa, me n’anderò io.

Arlecchino. Via, femo pase.

Jacopina. Con voi non voglio aver che fare.

Arlecchino. Anca sì, che femo pase?

Jacopina. Oh, non vi è pericolo.

Arlecchino. Ghe scometto un scudo, che femo pase.

Jacopina. Mi vien da ridere, quando dite di giuocare uno scudo. Se non avete un quattrino!

Arlecchino. Mi no gh’ho bezzi? Come se chiamelo questo? (mostra lo scudo)

Jacopina. Si chiama scudo. Dove l’avete avuto?

Arlecchino. Oe, digo, ve piaselo adesso sto grugno? (s’attacca lo scudo alla fronte)

Jacopina. Ora mi piace; ora vi si può dir veramente Arlecchino Visobello.

Arlecchino. Ghe zogo sto scudo, che tra vu e mi femo pase.

Jacopina. Come intendete voi di giuocare lo scudo? Se si fa la pace, ho da dare uno scudo a voi?

Arlecchino. La scomessa la doverave esser cussì.

Jacopina. Non la facciamo in eterno.

Arlecchino. Femo donca in st’altra maniera. Scometto sto scudo che tra vu e mi no se fa più pase.

Jacopina. Io posso giuocare che si farà.

Arlecchino. Va un scudo.

Jacopina. Depositatelo nelle mie mani.

Arlecchino. E vu cossa metteu su per scomessa? [p. 141 modifica]

Jacopina. La mia parola non vale?

Arlecchino. Via, voggio crederve per el vostro scudo, ma no vorave rischiar el mio malamente.

Jacopina. Come sarebbe a dire?

Arlecchino. No ve fide de mi?

Jacopina. Non signore.

Arlecchino. Femo cussì. Tegnimolo in deposito tutti do. Mezzo per omo.

Jacopina. Bene, date qui.

Arlecchino. Eccolo. Tegnimolo in do. Va sto scudo, che no se fa la pase. (tengono lo scudo in due)

Jacopina. Va lo scudo, che si fa la pace.

Arlecchino. Vu sè una femena ingrata.

Jacopina. Non parliamo più del passato.

Arlecchino. M’ave strapazzà, m’ave dito aseno.

Jacopina. L’ho detto per ischerzo. Siete un uomo di garbo.

Arlecchino. Sto muso xelo un grugno de porco?

Jacopina. No; anzi avete un visino bello, bellissimo.

Arlecchino. Se no me podè veder.

Jacopina. Se siete anzi il mio caro.

Arlecchino. El vostro caro?

Jacopina. È fatta la pace?

Arlecchino. Oibò. Voggio vendicarme delle insolenze che ho ricevesto.

Jacopina. In questa maniera la pace non si farà mai.

Arlecchino. E el scudo el resterà per mi,

Jacopina. (Lo vorrei per me, se potessi). (da sè)

Arlecchino. (Se l’ho da spender, no lo vôi buttar via). (da sè)

Jacopina. Via, caro Arlecchino, amor mio, vita mia.

Arlecchino. Ste parolette dolce no le basta, patrona, per obbligarme1; ghe vol qualcossa de meio.

Jacopina. Poverino! povero Arlecchino! (accarezzandolo modestamente)

Arlecchino. Me principia a passar la collera. [p. 142 modifica]

Jacopina. Datemi la vostra manina, caro.

Arlecchino. Baroncella!

Jacopina. Siete grazioso, amabile, mi fate proprio ardere per vostro amore.

Arlecchino. Vago in acqua de viole.

Jacopina. È fatta la pace?

Arlecchino. Sì. la xe fatta.

Jacopina. lo scudo è mio.

Arlecchino. El scudo xe vostro.

Jacopina. Ora che ho guadagnato lo scudo, andatevi a far squartare.

Arlecchino. Come! sto tradimento? El mio scudo.

Jacopina. La scommessa è stata per far la pace; la pace è fatta, lo scudo è mio. Non ho promesso che la pace duri. E se volete che il vostro viso mi piaccia, copritelo tutto di questa roba; altrimenti, signor Arlecchino, non isperate mai e poi mai che il vostro grugno mi piaccia. (parte)

SCENA II.

Arlecchino, poi donna Metilde.

Arlecchino. Credeva de saverghene assae, ma custìa la ghe ne sa più de mi. La m’ha cuccà el scudo, e de più la m’ha strapazzà. No gh’ho gnanca avù tempo de dirghe gnente per el sior Conte a proposito del scudo, per rason delle do patrone... Qua ghe ne vien giusto una. Adesso, se la me interroga de siora Contessa, posso darghe soddisfazion. L’ho vista, e per dir la verità, ghe vol un gran cuor a creder che la sia contessa.

Metilde. Ehi, galantuomo.

Arlecchino. Obbligatissimo. Questo xe el mio titolo che me vien; ma no gh’è nissun che mel voggia dar.

Metilde. Ditemi un poco: il signor Conte vi ha detto di dare a me quell’astuccio?

Arlecchino. Siora sì, el stucchio me l’ha dà sior Conte.

Metilde. Per dare a me? [p. 143 modifica]

Arlecchino. Se no avesse fallà; ma no crederla.

Metilde. Non vi disse di darmi una scatoluccia d’avorio?

Arlecchino. Per dir la verità, gh’aveva da dar anca la scatola.

Metilde. Una scatola quadrata.

Arlecchino. Quadrata.

Metilde. Bassina.

Arlecchino. Bassina.

Metilde. Con il coperchio miniato.

Arlecchino. Miniato.

Metilde. Questa l’ha nelle mani mia madre.

Arlecchino. Oh cospetto del diavolo! la gh’ha so siora madre?

Metilde. Senz’altro. L’ho veduta poco fa nelle di lei mani: e quando se n’è accorta ch’io la vedeva, l’ha rimpiattata.

Arlecchino. Vardè, quando che i dise dei accidenti del mondo!

Metilde. Ma come può essere questo sbaglio accaduto?

Arlecchino. Siora, bisogna che confessa la verità.

Metilde. C’è qualche inganno qui sotto.

Arlecchino. No ghe xe gnente d’inganno. La xe stada una mia loccaggine. La scatola... La me compatissa, per amor del cielo.

Metilde. Via, non mi fate penare.

Arlecchino. (Intanto penso quel che ho da dir). (da sè) La scatola l’ho persa, e bisogna che l’abbia persa in sta casa, e che so siora madre l’abbia trovada.

Metilde. Può essere ch’ella sia così. Per altro l’astucchio mi è caro più della scatola. Viene a me, non è vero?

Arlecchino. Seguro.

Metilde. Mandava a me l’uno e l’altro.

Arlecchino. Tutto a ela.

Metilde. Questo cerchio che lo contorna, crediamo noi che sia d’oro? (va mostrando l’astuccio ad Arlecchino)

Arlecchino. D’oro, d’orissimo. [p. 144 modifica]

SCENA III.

Donna Claudia e detti.

Metilde. E lo stuzzicadenti che vi è dentro, sarà d’oro esso pure? (aprendo l’astuccio)

Claudia. (Osserva in disparte.)

Arlecchino. Oro fin, oro antigo. De quello che se usava al tempo de Otton imperator.

Metilde. È una bella galanteria.

Arlecchino. Bella!... (Oe, vardè che xe qua vostra siora madre). (piano a donna Metilde)

Metilde. (Povera me! che non me lo veda). (vuol rimpiattarlo)

Claudia. Che ha di bello la signora figliuola?

Metilde. Niente, signora.

Claudia. Niente eh? Favorisca lasciarmi vedere.

Metilde. Che cosa?

Claudia. Quel bell’astuccio che ha rimpiattato.

Metilde. È una cosa ch’io...

Arlecchino. (Adesso la va ben). (da sè)

Claudia. Presto, vi dico.

Metilde. Eccolo.

Claudia. Bellino!

Metilde. (Mi mangerei dalla rabbia). (da sè)

Claudia. D’onde l’ha avuto, signora?

Metilde. Posso averlo avuto ancor io, com’ella ha avuto la tabacchiera d’avorio.

Arlecchino. (Pezo). (da sè)

Claudia. Quello che ha mandato a me questa scatola, ha mandato a voi questo astuccio?

Metilde. Non l’ha ritrovata per terra la scatola?

Claudia. Non signora, non l’ho ritrovata per terra. (bruscamente)

Arlecchino. L’ha ben trova ela el stucchio per terra. (a donna Claudia)

Metilde. (Costui mi mette delle pulci in capo). (da sè)

Claudia. Andate nella vostra camera. (a donna Metilde) [p. 145 modifica]

Arlecchino. (Xe meggio che me la batta). (da sè) Patrone, con so bona grazia. (in atto di partire)

Claudia. Trattenetevi, che vi ho da parlare.

Metilde. Signora...

Claudia. Che cosa vorreste?

Metilde. L’astuccio.

Claudia. Sta bene nelle mie mani.

Metilde. E io niente?

Claudia. Qualche cosa avrete anche voi.

Metilde. La scatola forse?

Claudia. Una mano nel viso.

Metilde. Di queste finezze me ne ha fatte abbastanza la signora madre.

Claudia. Posso farvene delle altre ancora. (con finta placidezza)

Metilde. Sono un poco grandetta, ora. (scherzosamente)

Claudia. A misura dell’età, può crescere il peso degli schiaffi. (come sopra)

Metilde. Mi consolo di una cosa.

Claudia. Di che?

Metilde. Che gli anni crescono per tutti, che gli schiaffi della signora madre non dovrebbono più avere tanta forza.

Claudia. Sfacciata, insolente! Credi tu, perchè ti vedi crescere come fa la mal’erba, ch’io abbia perduto la forza, lo spirito e la gioventù? La tua temerità ti può far credere di trent’anni, ma non ne hai che sedici; ed io di quattordici ho preso marito. E una donna di trent’anni vale qualche cosa di più di una fraschetta di sedici; e queste mani ti possono far provare, se per l’età ho perduto la forza... (s’avanza minacciandola)

Metilde. La non s’incomodi, che ne son persuasa. (fugge via)

SCENA IV.

Donna Claudia ed Arlecchino.

Arlecchino. (Sta scena me l’ho godesta da galantomo. Adesso ghe ne aspetto un’altra). (da sè)

Claudia. Che cosa fate qui voi? (ad Arlecchino) l [p. 146 modifica]

Arlecchino. Bisognava che ghe vegnisse.

Claudia. Ma perchè ci siete venuto?

Arlecchino. Questo xe el ponto della causa. Ghe son vegnù, perchè bisognava che ghe vegnisse.

Claudia. La ragione di questa necessità?

Arlecchino. La rason la ghe la domanda a quel stucchio.

Claudia. Per regalarlo forse a Metilde?

Arlecchino. Mi l’aveva da dar a vussoria.

Claudia. E come l’ha avuto Metilde?

Arlecchino. La l’ha avudo perchè... Mi lo portava a vussoria... e cussì... ho domandà de ela... ma xe vegnù la signora, come se chiamela... certo la me l’ha visto, e la me l’ha tolto de man. (Alla fin l’ho trovada). (da sè)

Claudia. E lo voleva per lei?

Arlecchino. Mi po no so altro. Quel che ho dito ho dito, e servitor umilissimo.. (in atto di partire)

Claudia. Aspettate. Il Conte manda a me quest’astuccio?

Arlecchino. Siora sì.

Claudia. E la scatola?

Arlecchino. Anca quella, mi credo.

Claudia. Perchè dite credo? Chi ve l’ha data la tabacchiera?

Arlecchino. Me l’ha dada sior Conte, certo, certissimo, e qua no gh’è gnente da batter; perchè, se nol me l’avesse dada, mi no l’averave avuda.

Claudia. Va bene; ma a chi vi ha detto di darla?

Arlecchino. El m’ha dito: prendi, e porta alla signora donna Claudia.

Claudia. L’astuccio?

Arlecchino. El stucchio.

Claudia. E la scatola.

Arlecchino. E la scatola.

Claudia. Tutto dunque?

Arlecchino. Tutto.

Claudia. E perchè mi hai dato solamente la scatola?

Arlecchino. (Adesso vegnimo all’articolo della difficoltà). [p. 147 modifica]

Claudia. Perchè non darmi l’astuccio?

Arlecchino. Perchè, signora, la memoria dei omeni la xe tanto debole, quanto la fedeltà delle donne.

Claudia. A proposito, chi si è scordato, tu o il Conte?

Arlecchino. O mi, o el Conte.

SCENA V.

Don Eraclio e detti.

Eraclio. Vi cerco e non vi ritrovo.

Claudia. Chi cerca, trova. Eccomi, se mi volete.

Eraclio. Che cosa vuole costui?

Claudia. È venuto a dirmi per parte del Conte che la Contessa... sta bene, ed ha riposato, ed è in grado di ricevere, non è vero? (ad Arlecchino)

Arlecchino. Siora sì, xe verissimo.

Claudia. Ed io voglio andare ora a farle una visita.

Eraclio. Piano con questa visita. Non so se si convenga di faria.

Claudia. Una dama venuta ora per la prima volta in città, non dovrà essere visitata? Andate a dirle che sarò a riverirla... (ad Arlecchino)

Arlecchino. Vago subito.

Eraclio. Aspettate. (ad Arlecchino)

Arlecchino. Aspetto.

Eraclio. Tutte le regole patiscono la loro eccezione. Non so se ad una moglie di don Eraclio convenga visitar per la prima una Contessa, che è qualche cosa di meno.

Claudia. Il Conte è nobile quanto noi. Andate. (ad Arlecchino)

Arlecchino. Gnora sì.

Eraclio. Fermatevi. (ad Arlecchino)

Arlecchino. No me movo.

Eraclio. Piano con questo nobile quanto noi, che la nobiltà di don Eraclio non si può impattar2 con nessuno; e voglio che si sostenga la reputazione degli Eraclidi. [p. 148 modifica]

Claudio. Ma il Conte è pur vostro amico.

Eraclio. Amico usque ad baram, che vuol dire sino alla morte; ma l’amicizia non ha da oltraggiare la delicatezza di un sangue che è più puro, e più netto, e più purgato, e più nobile di quello che ho creduto fosse finora.

Claudia. Sarà vero tutto quello che dite: ma l’umiltà per altro è sempre apprezzabile. (Mi preme di vedere il Conte). (da sè) Andate alla casa del conte Nestore. (ad Arlecchino)

Eraclio. Andate, e ditegli che se verrà la Contessa a favorire la moglie di don Eraclio... (ad Arlecchino)

Claudia. Ditegli che la moglie di don Eraclio sa il suo dovere. (ad Arlecchino)

Eraclio. Fermatevi. (ad Arlecchino) E voi, prima di discendere ad un atto di viltà, sappiate meglio chi siete.

Claudia. Lo so benissimo...

Eraclio. No, non lo sapete ancora. Credei finora che il sangue mio derivasse dagl’imperatori romani. Mi disse certo dottore, che Eraclio fu imperatore di Costantinopoli. Andai a leggere la storia in un dizionario, e trovai che gli Eraclidi sono discendenti da Ercole.

Claudia. Questa per altro è una notizia che mi sorprende.

Arlecchino. Se sarà vero che sior don Eraclito sarà discendente da Ercole, lo vederemo.

Eraclio. Come si vedrà?

Arlecchino. Ho sentito dir da mia nonna, che Ercole avanti de morir xe deventà matto.

Eraclio. Vattene via di qua, temerario. Non insultar la memoria di quell’eroe.

Arlecchino. E che el filava colla rocca e col fuso.

Eraclio. Parti, ti dico.

Arlecchino. E che l’ha fatto i pugni con una bestia.

Eraclio. Vattene, o ti rompo il capo.

Arlecchino. L’è discendente da Ercole; el deventa matto. (dicendo forte, e timoroso parte) [p. 149 modifica]

SCENA VI.

Donna Claudia e don ERACLIO.

Eraclio. Da qui innanzi voglio farmi portare maggior rispetto.

Claudia. E poi vera questa cosa?

Eraclio. Verissima.

Claudia. Si può dire liberamente nelle conversazioni?

Eraclio. Si può dire, e si può dire di più. Ho trovato nell’autore isterico trentasette città col nome di Eraclia; e siccome si vedono tanti che fra i loro titoli e giurisdizioni incastrano il nome di più paesi, voglio in avvenire chiamarmi don Eraclio degli Eraclidi, signore delle trentasette città.

Claudia. E chi è quest’autore istorico da cui avete ricavate queste belle notizie?

Eraclio. Il dizionario. (con serietà)

Claudia. È autor greco o latino?

Eraclio. È francese, signora. Io l’intendo bene il francese.

Claudia. Ho piacere che mi abbiate partecipato questo novello fregio della vostra casa.

Eraclio. Voi avete un marito che ha nelle vene il sangue di un re di Tebe.

Claudia. Era re di Tebe Ercole?

Eraclio. Certo.

Claudia. Me ne consolo infinitamente. Anch’io per altro sono di casa illustre.

Eraclio. Sì certo; vostro padre, don Anselmo Vesuvi, credo sia stato ne’ primi secoli signor del Vesuvio.

Claudia. In fatti noi veniam da Pozzuolo.

Eraclio. È così senz’altro. Conviene riformare le nostre armi; nella mia voglio aggiunger la clava, e nella vostra le fiamme.

Claudia. Convien crescere il trattamento ancora.

Eraclio. Sì certo; almeno il numero della servitù.

Claudia. E le gioje mie non corrispondono ad un tal grado.

Eraclio. Ancora quelle si aumenteranno.

Claudia. Principiamo almeno a riscuotere quelle che sono al Monte. [p. 150 modifica]

Eraclio. Sì, dite bene.

Claudia. E non ho altro che questo vestito solo per comparire.

Eraclio. Io pure sono nello stesso caso; ma si farà quel che occorre.

Claudia. Denari ne avete?

Eraclio. Ora non ne ho, per dirla.

Claudia. L’entrate di quest’anno mi pare si sieno già consumate.

Eraclio. Sì, e anche quelle dell’anno venturo.

Claudia. E la causa del palazzo, come va?

Eraclio. Non si può perdere. Tanto più ora che il nuovo grado scoperto della mia antichità porrà in soggezione i creditori ed il giudice.

Claudia. Ma, caro don Eraclio, dove troveremo denari da far le belle cose che avete detto di fare?

Eraclio. Non si potrebbe trovare un migliaio di scudi in prestito?

Claudia. Da chi mai?

Eraclio. Ho il mio gabinetto che mi costa tanto; ma il decoro vuole che non si tocchi.

Claudia. E poi sono cose che non si trovano da vendere sì facilmente.

Eraclio. Ci sarebbe il Conte che potrebbe aiutarmi.

Claudia. Certamente il Conte non è di cattivo cuore. Potete dirglielo...

Eraclio. Sarebbe meglio che glielo diceste voi.

Claudia. Perchè io, e non voi?

Eraclio. A un cavaliere del mio sangue non è lecito l’abbassarsi.

Claudia. A vostra moglie nemmeno.

Eraclio. Come donna, perchè no?

Claudia. A che titolo glieli averei da chiedere?

Eraclio. Per imprestito.

Claudia. Con qual sicurezza?

Eraclio. Con quella della parola nostra.

Claudia. E se si manca?

Eraclio. Non si mancherà mai per mala volontà di pagare.

Claudia. Si può mancare per difetto del modo di soddisfare.

Eraclio. Con quella cortesia con cui ci farà l’imprestito, avrà la bontà di aspettare ancora. [p. 151 modifica]

Claudia. Attenderò dunque ch’egli venga da noi.

Eraclio. Non sarebbe mal fatto che faceste una visita a sua sorella.

Claudia. Ma il decoro dalia nobiltà nostra?

Eraclio. Ho pensato a quel che diceste poc’anzi. La modestia è sempre lodabile.

Claudia. Anderò dunque.

Eraclio. Sì, andate; e procurate, chiedendogli i mille scudi, di salvare il decoro, senza mostrare di averne certo bisogno.

Claudia. Senza bisogno non si domanda.

Eraclio. Dite per fare una spesa capricciosa per voi, che non volete ch’io la sappia; che pagherete del vostro colle mesate che vi si danno per le spille.

Claudia. Colle rendite del Vesuvio.

Eraclio. Eh, non è tempo di barzellette.

Claudia. Potreste voi assicurarli sulle trentasette città.

Eraclio. Andate, se volete; se non volete, lasciate.

Claudia. Vado, vado. (Mi preme di parlare al Conte sul proposito dell’astuccio). (Ja sè)

Eraclio. Vi raccomando a far presto.

Claudia. Converrà poi trattarla la sorella del Conte, invitarla a pranzo da noi.

Eraclio. Sì, certo; quando ci avrà prestati egli li mille scudi.

Claudia. Buono, gli daremo da desinare coi denari suoi.

Eraclio. Non perdiamo il tempo. Ciascheduno cooperi al lustro della famiglia.

Claudia. Vado a procurare li mille scudi.

Eraclio. Vado a far inquartare le armi. (partono)

SCENA VII.

Camera in casa del Conte.

Il Conte Nestore, Carlotta vestita nobilmente, poi Spasimo servitore.

Carlotta. Fratello mio, voi mi volete veder crepare.

Conte. Anzi desidero che stiate bene; e ho in traccia a quest’ora delle cose buone per voi. [p. 152 modifica]

Carlotta. Non ci durerò a far questa vita.

Conte. Pare a voi di aver fatto una gran fatica a lasciarvi vestire con un poco di proprietà?

Carlotta. Due ore d’orologio mi ha tenuta sotto quel maledetto boia che m’ha rovinato la testa. Ho pianto come una bambina a vedermi a tagliare i miei capelli, che erano così belli, che tutta la villa soleva dirmi la Carlotta dai bei capelli.

Conte. Guardatevi nello specchio, e vedrete quanto meglio ora state.

Carlotta. Sto meglio, eh? con questa farina sul capo, che pare sia stata ora al mulino? Mi ricordo, quando faceva il pane, mi copriva con un cencio i capelli per non imbrattarli, e ora qui mi convien soffrire di essere infarinata.

Conte. Vi avvezzerete col tempo, e non saprete star senza.

Carlotta. Oh, non mi avvezzerò mai a sentirmi torcere i capelli nelle cartuccie, e poi con un ferro rovente sentirmi aggrinzar la pelle. Che facciano queste cose per comparire le vecchie, le brutte; non una giovane come me, che non faccio per dire, ma tutti mi correvano dietro.

Conte. Colà, dov’eravate, vi conevano dietro i villani; qui dovete comparire tra i cavalieri, e conviene uniformarsi al costume.

Carlotta. Bel costume! Coprir il capello nero colla polvere bianca; sporcare il viso bianco colla terra rossa. Stringer la vita che non si può respirare; tenere le gambe al fresco; stroppiarsi i piedi. Volete che ve la dica? Voglio il mio busto largo, le mie scarpe comode, e un secchio d’acqua da lavarmi questi maledetti empiastri dal viso.

Conte. Sì, tutto quel che volete, e un calesse di ritorno per la campagna, e una falce in mano per tagliar il fieno, e un villanaccio che vi sposi e vi faccia faticar come meritate.

Carlotta. Ma io non voglio partire da voi.

Conte. Ma qui non si sta meco senza adattarsi alla civiltà, al piacer mio, alla situazione in cui mi ritrovo.

Carlotta. E ho da stroppiarmi?

Conte. Vi avvezzerete.

Carlotta. E le mie povere carni hanno da essere tormentate così? [p. 153 modifica]

Conte. Ci troverete gusto col tempo.

Carlotta. Può essere, ma non lo credo.

Conte. Animo, coraggio. Su quella vita. Dritta, disinvolta, gaiosa. Quella testa snodata un poco più, ma con buona grazia. Che gli occhi girino. Ricordatevi quel che vi ho detto. Un poco di gravità, mista a tempo colla galanteria. Colle dame qualche riverenza gentile, qualche complimento conciso, per non imbrogliarvi. Coi cavalieri qualche sorriso vezzoso, qualche guardatina furbetta. Cogli inferiori serietà, gravità, disprezzo. Tutti vi crederanno sorella del conte Nestore; e voi medesima non passano due mesi che vi scordate la campagna, l’aratro, i bovi, e direte, e sosterrete, e giurerete di esser nata una dama.

Carlotta. Non saprei. Tutte le cose a principio paiono difficili. Mi proverò per riuscire.

Conte. Soprattutto non vi lasciate mai escir di bocca parole basse.

Carlotta. Sempre parole alte ho da dire?

Conte. Oh alte! non facciamo delle ariecchinate. M’intendo parole proprie, non vili.

Carlotta. Io dirò quello che mi verrà alla bocca di dire.

Conte. Basta, vi starò da vicino.

Spasimo. Signore, manda a vedere la signora donna Claudia, se c’è la signora contessa Carlotta.

Carlotta. Che non ci sono io? non mi vedi?

Conte. Piano, signora Contessa, potrebbe darsi che non ci voleste essere.

Carlotta. Per dir la verità, non ci vorrei essere.

Conte. Senti? Ella non ci vuol essere. (a Spasimo)

Carlotta. Ma però ci sono.

Spasimo. Ho da dir che ci è, dunque?

Carlotta. Che bestia! se ci sono.

Conte. Via, la signora Contessa ci vuol essere. (a Spasimo)

Spasimo. Le dirò che è padrona, dunque.

Carlotta. Sono padrona certo. Son sorella di mio fratello.

Conte. Dice, che dirà a donna Claudia, che è padrona.

Carlotta. Padrona di che? [p. 154 modifica]

Conte. Padrona di venire. (a Carlotta, mezzo arrabbiato) Dille che, se comanda, è padrona, (a Spasimo) (Conviene rompere questo ghiaccio). (da sè)

Spasimo. (Mi pare quella commedia che dicono: l’Ortolana finta Contessa). (da sè, e parte)

Conte. Imparerete un po’ per volta il costume.

Carlotta. Mi pare non ci voglia molto per dire ci sono, quando ci sono.

Conte. Ma quando non si ha comodo, o non si ha volontà di ricevere, si fa dir: non ci sono.

Carlotta. In villa da noi questa si direbbe una mala creanza.

Conte. Ma scordatevi della villa.

Carlotta. Se volete che me la scordi, insegnatemi qui delle cose buone, e non a dire delle bugie.

Conte. Con questa dama contenetevi con prudenza. Ella merita la mia stima, e poi ha una figliuola che merita ancora più della madre.

Carlotta. A voi chi preme più?

Conte. Tutte due, per ora.

Carlotta. Tutte due. Bravo. In villa poi...

Conte. Con questa villa mi volete far dar al diavolo. Ecco la dama.

Carlotta. (Il cielo me la mandi buona. Anderò regolandomi con mio fratello, per non isbagliare). (da sè)

SCENA VIII.

Donna Claudia e detti.

Claudia. Serva divota di lor signori.

Conte. M’inchino a donna Claudia.

Carlotta. M’inchino a donna Claudia.

Claudia. Mi rallegro del felice arrivo della signora Contessa.

Conte. Questo è un effetto della vostra bontà.

Carlotta. È un effetto della vostra bontà.

Conte. (Diavolo! non sapete dir altro che quello che dico io?) (piano a Carlotta). [p. 155 modifica]

Carlotta. (Credeva di far bene).

Claudia. Avete fatto buon viaggio, signora?

Carlotta. Oh, cattivo assai.

Conte. Le strade sono un poco disastrose.

Carlotta. Mi sono rovinata, con riverenza, i piedi.

Conte. (Maledetta! ) (da sè)

Carlotta. Ed ora con queste scarpe....

Conte. Guardate a che condizione siamo noi, venendo dal nostro feudo. La strada è rovinosa a segno, che convien camminare più di due miglia. (a donna Claudia)

Carlotta. Ho ben camminato più di sedici.

Conte. E di più si è rotto il calesse alla povera mia sorella, in luogo che non si potea rassettare; non dico sedici miglia, ma quattro e più ne averà fatte a piedi. A chi non è avvezzo, pare la strada lunga. (Ma giudizio, se ce n’è). (piano a Carlotta)

Carlotta. (Sta fresco mio fratello). (da sè)

Claudia. Non è più stata in città la signora Contessa?

Carlotta. Ci sono stata, o non ci sono stata? (al Conte)

Conte. (Spropositi). (piano a Carlotta) Da bambina c’è stata; ma non se ne ricorda.

Carlotta. (Che so io quando s’abbia da dir la verità?) (da sè)

Claudia. Dove è stata sinora la signora Contessa?

Carlotta. In villa, signora.

Conte. In villa, cioè in un ritiro, sotto l’educazione di una sua zia. (a donna Claudia)

Carlotta. (Ecco, ora non si ha da dire la verità). (da sè)

Conte. Accomodatevi, donna Claudia. Tocca a voi, sorella, a far il vostro dovere.

Carlotta. Se tocca a me, sederò dunque. (siede)

Conte. Alzatevi. Tocca a voi a far sedere la dama. (a Carlotta) Compatitela; nel ritiro non ha imparato a vivere la povera figliuola; l’ho levata di là per questo, e spero che donna Claudia si prenderà ella la pena amorosa di renderla un poco meno selvaggia.

Claudia. S’ella si contenterà della mia compagnia... [p. 156 modifica]

Conte. Favorite d’accomodarvi. (a donna Claudia)

Claudia. (Siede.)

Conte. Avete voluto sollecitare con eccesso di gentilezza le vostre grazie. (a donna Claudia)

Claudia. Ho fatto il mio dovere in questo. E poi ho necessità di parlarvi.

Conte. E voi non sedete? (a Carlotta che si era alzata)

Carlotta. Che so io quando mi tocca a sedere?

Conte. (Povero me!) Sedete.

Carlotta. (Mi paiono burattinate queste). (da sè)

Conte. Vedete come allevano, colà dov’era, le povere ragazze?

Claudia. E non è più bambina la signora Contessa.

Carlotta. Quanti anni crede vossignoria ch’io abbia?

Claudia. Non saprei. Non vorrei dire uno sproposito. Fra i ventitré e i ventiquattro.

Carlotta. Non ne ho che diciannove, signora. Vedete? se ve lo dico io. Questa conciatura, quest’abito mi fa parere più vecchia. (al Conte)

Conte. Conviene adattarsi all’uso comune. Ora non siete più nel ritiro.

Carlotta. Non sono mai stata ritirata quanto ora. Oh benedetta la campagna aperta!

Conte. Campagna aperta chiamate un orto, in cui vi conducevano a passeggiare? Qui degli orti non ne mancano, e di più belli, e di più grandi ancora. (Giudizio). (piano a Carlotta)

Claudia. Nel nostro palazzo ne abbiamo uno degli orti, che veramente è magnifico. La signora Contessa potrà venirvi a piacer suo, quando vuole.

Conte. Via, ringraziatela delle sue esibizioni. Datele un segno di aggradimento almeno. (a Carlotta)

Carlotta. Sì signora, vi ringrazio; verrò a ricevere le sue grazie, e per segno di aggradimento, farò qualche cosa nell’orto. Vedrà che so piantare l’insalata, i ravanelli...

Conte. Solito divertimento delle ragazze in ritiro. Sorella, è necessario che andiate a terminare di consegnare alle cameriere il vostro bagaglio. [p. 157 modifica]

Carlotta. Non ho bagaglio io.

Conte. La roba dei bavuli. Andate, con licenza di donna Claudia. (Carlotta s’alza)

Claudia. Volete privarmi della sua compagnia? (Ho piacere per altro di restar sola). (da sè)

Conte. Tornerà poi a far il suo debito.

Carlotta. (Ho da tornare, o non ho da tornare?) (al Conte)

Conte. (Vi chiamerò. Andate). (a Carlotta) (Se va bene, è un prodigio). (da sè)

Carlotta. Serva sua. (a donna Claudia)

Claudia. Ho piacere di aver avuto la fortuna di conoscere una dama sì gentile.

Conte. Generose espressioni d’una padrona nostra.

Claudia. Dove vale la mia insufficienza, vi prego di non risparmiarmi.

Conte. Si farà capitale di tanta bontà... Non rispondete niente, voi? (a Carlotta)

Carlotta. Sì signora. All’onore di riverirla. (parte correndo)

SCENA IX.

Donna Claudia ed il Conte

Conte. (Sono in un brutto impegno con costei. Temo che la mia disinvoltura non basti). (da sè)

Claudia. (È stata molto male allevata questa signora Contessa). (da sè)

Conte. Ho fatto bene, cred’io, a levar di dov’era la povera mia sorella.

Claudia. Per dir il vero, così non vi consiglio produrla, se non acquista prima un poco di mondo.

Conte. Ha dello spirito. Mi lusingo non sarà difficile il rimediarvi, e poi colla scorta di una dama così gentile....

Claudia. Per voi farò quanto mi sarà permesso di fare. Ma giacchè l’accidente ci fa restar soli, varie cose ho da dirvi, Conte mio. [p. 158 modifica]

Conte. Son qui per ascoltarvi, signora.

Claudia. Voglio prima ringraziarvi delle vostre finezze...

Conte. Risparmiatemi i complimenti. Avete ricevuto l’astuccio?

Claudia. Sì, ma per accidente.

Conte. Come per accidente?

Claudia. Lo trovai di Metilde in mano.

Conte. (Quel briccone di Arlecchino! ) (da sè)

Claudia. E vorrei sentire dalla vostra sincerità il principio di questa cosa che non intendo.

Conte. (Conviene indovinare, per accomodarla se fia possibile). (da sè) Io so certo, che mi son preso l’ardire d’inviarvi per Arlecchino un astuccio.

Claudia. E non altro?

Conte. E una scatola ancora.

Claudia. La scatola me l’ha recata.

Conte. (Questa l’ho indovinata). (da sè)

Claudia. Ma l’astuccio era in mano della figliuola.

Conte. Chi sa che diamine possa aver fatto colui? È uno sciocco da non valersene. Pure me ne vaglio, perchè ha l’accesso libero in casa vostra; ed è poi anche fedele, ma delle castronerie me ne ha fatte ancora. L’ho veduto ritornare da me pallido e confuso. Dubitai quasi, che qualche cosa avesse perduta.

Claudia. Dissemi appunto, che l’avea perduto l’astuccio.

Conte. Ecco, la cosa è così. Egli l’avrà perduto, e la figliuola L’averà ritrovato.

Claudia. Questo ancora può darsi.

Conte. Ora l’avete voi l’astuccio?

Claudia. L’ho io.

Conte. La scatola ancora?

Claudia. Ancora.

Conte. Ho piacere. (Come l’aggiusterò con donna Metilde?) (da sè)

Claudia. Vi ringrazio dunque....

Conte. Non parliamo altro. Vi supplico d’aggradire. [p. 159 modifica]

Claudia. Tant’è vero ch’io l’aggradisco, che della vostra scatola ne faccio uso. Eccola qui con del rapè, che non è cattivo. (tira fuori la scatola)

Conte. Sentiamolo, se vi contentate.

Claudia. Mi fate onore, (apre la scatola; il Conte prende tabacco. Donna Claudia osserva i manichetti del Conte.)

Claudia. (Questo manichetto mi par di conoscerlo). (da sè)

Conte. Il tabacco è prezioso. Merita una tabacchiera migliore.

Claudia. Conte, favoritemi lasciarmi vedere quel bel ricamo. (accenna il manichetto)

Conte. (Diavolo! è il regalo della figliuola: non vorrei che lo conoscesse). (finge di seguitare a prender tabacco)

Claudia. Si può vedere?

Conte. Ora, subito. (Me li ho fatti attaccare alla camicia per mostrar d’aggradirli, ma dubito aver fatto male. Vi vuol giudizio). (da sè, fingendo gustare il tabacco)

Claudia. (Questa renitenza m’insospettisce). (da sè)

Conte. Compatite, ho voluto gustare sino all’ultima polvere il vostro tabacco. Eccomi da voi. Vi piace questo ricamo?

Claudia. Non mi dispiace. Anzi, se devo dirvi il vero, somiglia tanto a certi manichetti che ho comperati per don Eraclio, che paiono quelli stessi.

Conte. Possono essere fatti dalla stessa mano.

Claudia. Favorite. (li osserva bene)

Conte. Accomodatevi pure. (In ogni modo si ha da salvar la ragazza). (da sè)

Claudia. Questo segno non falla. Un taglio accomodato mi assicura che sono quelli: per ragione di un tal difetto, li ho avuti per meno di quello valerebbono, se non ci fosse.

Conte. Quanto li avete pagati, signora?

Claudia. Ventisei paoli.

Conte. Ed io li ho avuti per dodici. In fatti un tal prezzo mi ha fatto dubitare che sieno stati rubati, ed ora mi confermo nell’opinione.

Claudia. Li avranno rubati a me dunque. [p. 160 modifica]

Conte. Potrebbe darsi; e se vostri sono, ve li manderò sino a casa.

Claudia. No, no, teneteli pure. Ho piacere che voi li abbiate; ma vo’ ben sapere da chi mi sieno stati involati. Nella mia camera altri non viene, per ordinario, che la figliuola e la cameriera.

Conte. Il sospetto non può cadere che sopra la cameriera.

Claudia. Disgraziata! mi sentirà or ora.

Conte. Non fate strepito per così poco, signora.

Claudia. Non è il valore, ma l’azione, l’infedeltà, il pericolo, che mi fa riscaldare.

Conte. Si licenzia la cameriera, e non vi è necessità di scaldarsi.

Claudia. La licenzierò come merita.

Conte. (Povera diavola! me ne dispiace; ma non so che farle). (da sè)

Claudia. Sa il cielo, che cosa mi può avere rubato.

Conte. Non v’inquietate ora fuor di proposito.

Claudia. Le mie gioje, povera me!

Conte. (Non vi è pericolo. Sono al Monte; ma non crede ch’io lo sappia). (da sè)

Claudia. E se mio marito giungesse a sapere che mi mancassero gioje o altro, farebbe il diavolo contro me!

Conte. (Don Eraclio ha mangiato la parte sua). (da sè)

Claudia. (Può essere questo un pretesto buono per chiedergli i mille scudi in imprestito, per ricuperare le gioje. Convien differire per ora). (da sè)

Conte. (Converrà ch’io veda d’informare donna Metilde). (da sè)

Claudia. Conte, se mai quella ladraccia della Jacopina mi avesse rubato le gioje, per amor del cielo, che non lo sappia don Eraclio: aiutatemi voi a ricuperarle.

Conte. Non pensate ora a simili malinconie.

Claudia. Ma dato il caso fossi presaga del vero, mi aiuterete voi, Conte?

Conte. Se la Jacopina vi averà rubato le gioje, m’impegno da cavaliere di ricuperarle io. [p. 161 modifica]

Claudia. Calmo le mie agitazioni sulla vostra parola. Permettetemi che vada ad assicurarmene.

Conte. Vi servirò, signora. (Mi preme farlo sapere alla figlia). (da sè)

Claudia. Ecco mio marito. Non diamo ombra a lui dei nostri sospetti.

Conte. No, niente. Sforzatevi a dissimulare la tema. (Capisco che mi vorrebbe frezzare, ma non fa niente). (da sè)

SCENA X.

Don Eraclio e detti.

Eraclio. Conte, sono venuto ad invitarvi a desinare con noi.

Conte. Sarò a ricevere le grazie vostre.

Eraclio. Condurrete la Contessina ancora, che Metilde desidera di vederla.

Conte. Verremo entrambi a recarvi incomodo.

Eraclio. (Li ha dati?) (piano a donna Claudia)

Claudia. (Non ancora). (piano a don Eraclio)

Eraclio. (Sollecitate). (come sopra)

Claudia. (A casa, con più comodo). (come sopra)

Eraclio. (Vuol essere bella, se non le dà i mille scudi, ora che ho impegnato l’orologio per pagare i capponi e le ostriche di Venezia). (da sè)

Conte. Prima del desinare, sarebbe necessario che spicciassi un affar di premura. Ho da riscuotere mille zecchini.

Eraclio. Andate subito, non perdete tempo.

Conte. Possiamo andare. Vi servirò alla carrozza.

Eraclio. Ho mandato a prendere col servitore due amici miei, che bevono bene, perchè ci facciano stare allegri.

Claudia. Dal mio servitore? senza dirmi niente?

Eraclio. Possono tardar poco. Tratteniamoci qui un momento, se si contenta l’amico.

Conte. Siete padrone d’accomodarvi.

Eraclio. Ehi! avete detto al Conte la scoperta mia degli Eraclidi? (a donna Claudia) [p. 162 modifica]

Claudia. Non ancora.

Eraclio. Sentirete. (al Conte)

Conte. Qualche novità della causa?

Eraclio. Sì, altro che causa! Io discendo dal sangue d’Ercole... Ma andate a riscuotere i mille zecchini; parleremo con comodo.

Conte. Sì, a desinare. Con permissione. (Vo anticipare, per avvisare donna Metilde. Povera figliuola, non vorrei vederla in angustie per mia cagione). (da sè, e parte)

SCENA XI.

Donna Claudia, don Eraclio, poi Carlotta.

Eraclio. Non avete avuto tempo di dirglielo?

Claudia. Non ho trovato la via d’introdurmi. Ma a casa spero d’avermi aperto l’adito per poterlo fare.

Eraclio. Fatelo presto. Ma avvertite, salvo sempre il decoro.

Claudia. Questo mi sta a cuore quanto a voi, e forse più ancora.

Eraclio. Non degeneriamo dal nostro sangue. Avete veduto ancora la sorella del Conte?

Claudia. L’ho veduta, e mi ha sorpreso trovarla così male istrutta nella vita civile.... Eccola, osservatela, se pare mai una dama.

Carlotta. Non è più qui mio fratello?

Claudia. Non signora; è partito per un affare.

Eraclio. Ho il piacere anch’io di riverire e conoscere la signora Contessa, sorella del conte Nestore mio buon amico.

Carlotta. Serva sua. (Ora sono imbrogliata, che non c’è mio fratello). (da sè)

Claudia. Questi è mio marito. (o Carlotta)

Carlotta. Sì? come si chiama?

Eraclio. Sì! mi chiamo don Eraclio degli Eraclidi, signore delle trentasette città.

Carlotta. Me ne consolo.

Eraclio. Oggi verrete a desinare con noi.

Carlotta. Non so niente io.

Claudia. Il Conte vostro fratello ha detto che seco lui ci favorirete. [p. 163 modifica]

Carlotta. Appunto cercava di mio fratello, per domandargli che minestra voleva questa mattina.

Eraclio. Questo non tocca a voi, tocca alla servitù. La damina nostra figliuola, dacchè è nata al mondo, non ha veduto le soglie della cucina.

Carlotta. Oh, io poi ho sempre fatto di tutto in casa mia.

Claudia. In casa vostra? Non siete stata voi in ritiro?

Carlotta. È vero; ma.... (Mi confondo). (da sè)

SCENA XII.

Il Conte e detti.

Conte. (L’ho detto, che l’ho fatto lo sproposito. Non me la ricordava costei). (da sè, in disparte)

Carlotta. Eccolo mio fratello.

Conte. Signora, è ritornato il servitore vostro. Possiamo andare, se comandate.

Eraclio. Avete riscossi li mille zecchini?

Conte. Ho ritrovato nell’escir della porta chi mi ha avvisato, che sarà qui da me dopo desinare.

Eraclio. Fatelo venire da noi.

Conte. Vedremo.

Eraclio. No, no, con libertà, vi dico; fatelo venir da noi.

Conte. Vi supplico sollecitare.

Eraclio. Subito. Andiamo.

Conte. (Non vo’ lasciare Carlotta senza di me. Coglierò un momento per avvisare donna Matilde). (da sè) Permettetemi ch’io vi serva. (a donna Claudia)

Claudia. Ricevo le vostre grazie. (gli dà la mano)

Eraclio. Io servirò questa giovanotta.

Carlotta. Grazie. (gli dà la mano)

Conte. Sorella, ricordatevi quel che vi ho detto. (parte con donna Claudia)

Carlotta. Sì, sì. (Un’occhiata vezzosa). (guarda con caricatura don Eraclio) [p. 164 modifica]

Eraclio. Mi guardate In un modo... Siete losca?

Carlotta. Mi maraviglio di voi. (sì stacca da don Eraclio)

Eraclio. Favorite. (le offre nuovamente la mano)

Carlotta. Signor no; non sono nè losca, nè zoppa.

Eraclio. È una bella caricatura! (parte)

Carlotta. Oh benedetti i miei contadini! (parte)

Fine dell’Atto Secondo.


Note

  1. Così l’ed. Pitteri. Le altre edizioni hanno il punto e virgola dopo patrona.
  2. Guibert-Orgeas, Zatta ecc.: paragonar.