Pagina:Goldoni - Opere complete, Venezia 1911, XIII.djvu/176

170 ATTO TERZO


Arlecchino. (Ho inteso).

Conte. (E se mai non fosse a tempo; e la padrona volesse...)

Arlecchino. (Lassè far a mi. Ho inteso tutto).

Conte. (Portati bene dunque).

Arlecchino. (Me porterò da par mio. Ma bisogna che anca ela, sior Conte, la me fazza un servizio).

Conte. (Chiedi: che cosa vuoi?)

Arlecchino. (E no bisogna dirme de no).

Conte. (Ti abbisogna denaro?)

Arlecchino. (Sior no; quel che me preme xe questo, che vossignoria manda via subito dal so servizio quel baron de Spasemo).

Conte. (Perchè? che cosa ti ha egli fatto?)

Arlecchino. (L’ha dito cussì che mi son el mezzan del so patron; e l’ha dito de pezo, che el so patron el vien qua a far l’amor colla fia e colla madre).

Conte. (Ha detto?)

Arlecchino. (Sior sì; e po l’ha dito, che per rabbia, che per invidia el vuol dir a tutti, che mi ve fazzo el mezzan con tutte do).

Conte. (Indegno!) Vieni qui. (a Spasimo)

Spasimo. Signore.

Conte. In questo punto vattene dal mio servizio.

Spasimo. Io? che cosa ho fatto, signore?

Conte. Tant’è. Vattene immediatamente, e avverti a non far parola di me, altrimenti ti farò romper le braccia.

Arlecchino. (Ride.)

Spasimo. Lo so perchè mi fa questo tratto.

Conte. Non replicare.

Spasimo. Pazienza. Mi favorisca almeno un mese di salario che avanzo.

Conte. Bene. (mette le mani in tasca)

Arlecchino. (Vustu che la comoda mi sta fazzenda?) (piano a Spasimo)

Spasimo. (Dove ho d’andar ora, povero disgraziato?) (da sè)

Arlecchino. (Se ti vuol, m’impegno de farte restar in casa). (come sopra)