Giulia Turco Turcati Lazzari

1903 Indice:Rivista d'Italia, Anno VI, Fasc. VI.djvu novelle Il passo Intestazione 10 ottobre 2022 75% Da definire

Questo testo fa parte della raccolta Rivista d'Italia


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IL PASSO1

(NOVELLA)

Il convoglio si mosse: Giovanna lo accompagnò alcuni secondi, diede un’ultima stretta di mano a suo marito che partiva, seguì con lo sguardo il vagone di terza classe finchè fu scomparso in una svolta, poi, uscendo rapidamente dalla piccola stazione, riprese la via del paesuccio di montagna dove abitava. Era lunga e faticosa quella via, ma ella s’era risolta di farla a piedi perchè il carro sul quale era stata condotta la sdruscita valigia dell’emigrante andava adagio e la diligenza costava troppi quattrini. Il paesaggio, nell’ora mattutina, era tutto velato di foschi vapori autunnali: la borgata vi scomparve coi suoi due campanili, come una nave che affondasse nel mare.

Giovanna cominciò a salire verso i monti. I suoi grandi occhi intelligenti e dolci, d’un colore vago fra l’azzurro e il verde adesso non davano più lagrime; un senso di ristoro, di quiete improvvisa le era sceso, dopo le angustie del distacco, nel cuore esulcerato.

Ella camminava senza fermarsi, col passo cadenzato degli alpigiani, anelando all’umile casa ove, sotto la custodia d’una vicina compiacente, l’aspettavano due figlioletti, ove l’aspettava forse quella pace che in cinque anni di matrimonio non aveva conosciuta mai.

S’era sposata giovanissima, senz’amore, senza saperne il perchè. Era orfana e sola e nella sua piccola anima perdurava l’amarezza d’un affetto non corrisposto che le rendeva indifferenti tutte le altre cose. Forse aveva sperato trovare, se non l’interno! [p. 925 modifica] appagamento, un appoggio, un amichevole conforto alle sofferte sventure.

Difatti, Maurizio Lella, detto il Ciuffo per una ciocca ribelle di capelli neri che gl’ingombrava la fronte, era allora abbastanza considerato in paese. Egli possedeva alcuni prati; Giovanna aveva ereditato una casuccia circondata da un orto: questi modesti beni riuniti, favorendo lo sviluppo materiale della famiglia, dove- vano fornire almeno uno dei tanti elementi necessari alla tranquillità della vita, ma l’umile sogno era ben presto svanito. Renitente alla fatica e incline alle più fantastiche speculazioni, Maurizio non aveva tardato a gravare le sue terre d’ipoteche e la povertà s’era fatta innanzi con le più torbide minaccie, ridestando nel giovane gl’impeti volgari d’un temperamento rissoso e caparbio. Poi era venuta la mala abitudine di rincasare a tarda notte, e col vizio la brutalità. Quand’era alticcio il Lella batteva la moglie senza ragione e senza misericordia.

Giovanna non amava di palesare i suoi patimenti, nè d’effondersi con nessuno: piangeva di nascosto, stringendosi al petto le sue creature come una difesa, come uno scudo contro la ribellione. Era una donna buona, gentile e lievemente altera, come se ne trovano qualche volta fra gli abitanti primitivi della montagna; fiori agresti e incolti ma delicati ch’esalano il loro profumo nel silenzio delle ignorate solitudini.

Una sera Maurizio era tornato a casa un po’ meno alterato del solito e le aveva detto:

— Ho stabilito di andarmene in Germania in cerca di lavoro, tanto qui non vi è più da mangiare.

— Buono Iddio! e la famiglia?

— Se ne guadagno ne mando, altrimenti ingegnati un poco anche tu. Domani vado in città a farmi dare il passo e mio fratello mi presterà i denari del viaggio se tu mi starai garante per l’obbligazione...

— Ho firmato già tante volte! — s’era lamentata Giovanna — la casa andrà all’asta!

— Eh! che importa, se questi pochi quattrini possono darmi la fortuna? Ne compreremo un’altra, più bella e più grande. Via, Giovanna, non farmi storie che già non ne ho voglia, lo sai.

La giovane aveva ceduto, sospirando, e il Ciuffo se n’era andato in cerca di fortuna. [p. 926 modifica]

Ora, ella risaliva sola al suo paese, verso la pace e anche verso la miseria, ma aveva le mani abili, una volontà di madre sviscerata per lottare contro le avversità della sorte e una fede sicura nel divino aiuto. Soltanto si doleva di non poter provare nell’anima un rimpianto più sincero per la partenza del suo compagno, di sentirsi così rassegnata alla nuova vita e all’isolamento a cui doveva votarsi ormai la sua giovinezza infelice.

Aveva già camminato due ore, le nebbie si diradavano sul l’orizzonte di zaffiro e una grande allegrezza di sole s’era diffusa nelle deserte campagne.

Giovanna passò da un altro borgo e sotto le volte massiccie d’una fortezza austriaca, e una larga valle tutta viva di casolari e di paesucci sparsi le si aperse dinanzi; varcò, sull’arditissimo ponte, il torrente selvaggio che la taglia nel mezzo con una spaccatura paurosa e profonda della roccia e non smise di salire, sorridendo, con atto involontario, al paesaggio amico. Come tutta la gente montanina, ella amava, d’una tenerezza appassionata, le linee e i colori della terra nativa, che quel giorno le apparivano ancor più belli dinanzi alla visione ripugnante della grande città straniera che attendeva Maurizio nell’ignoto del destino.

Quelle linee e quei colori si facevano sempre più alpestri: alla gloria dei tralci di porpora morente nei vigneti scomposti dalla vendemmia, succedeva il verde tranquillo dei prati, al giallo sfacciato delle foglie caduche sui colli vestiti di boschi cedui la nerezza immutabile delle abetine che si stendono come lunghe fascie sui fianchi delle montagne.

Qua e là sorgevano sopra i villaggi, dall’ombra cupa delle conifere secolari, i castelli eleganti dei signorotti medioevali o le loro fiere rovine; una torre romana, mezza sfasciata dominava ancora dall’alto la via antica e le dolomiti eccelse della terra irredenta parevano sfidare, con le loro cime capricciose, aguzze come freccie o bianche di nevi eterne, l’impenetrabile mistero del cielo.

Giovanna s’era inoltrata in un fitto bosco di pini, aveva fatto una breve sosta presso una rozza croce di pietra perduta fra gli alberi, ma un rumore di passi subito la distolse dalla preghiera Era Vigilio Argenti soprannominato il Messicano per il suo lungo e fortunato soggiorno nell’America settentrionale, era il compagno d’infanzia ch’ella aveva amato in segreto e senza speranza. [p. 927 modifica]

Il giovinetto esile e sparuto dei suoi sogni d’’adolescente si era fatto un bell’uomo. Giovanna non l’aveva più riveduto da vicino dopo il suo ritorno e quell’incontro in un giorno per lei così memorabile, era troppo strano perchè la tortura dell’inassopito ricordo non la mordesse nel cuore, più viva che mai. Ella rispose con grande riserbo al suo saluto cortese, alla sua stretta di mano poco conforme alle usanze del luogo, e ripigliò senz’altro il cammino, ma l’Argenti ch’era semplice e disinvolto le sì mise subito al fianco con la confidenza dei primi anni.

— Hai accompagnato tuo marito alla stazione, eh?... dove andava? — chiese egli, dandole del tu come una volta.

— Non lo so di sicuro. Mi ha sempre parlato d’una grande città, molto lontana...

— Sarà dunque una lunga assenza...

— Vedremo... — mormorò Giovanna renitente ad effondersi.

— E tu ne sei afflitta!... non è dunque vero che il Ciuffo ti trattava così male?

— Oh, questo poi!... — esclamò ella, arrossendo.

— Scusa. Non ti volevo offendere. Me l’avevano scritto quand’era a San Francisco e me ne rincresceva per te. Tanto meglio così. Se ti posso essere utile in qualche cosa, con l’opera o col consiglio, non hai che a parlare e mi troverai sempre pronto. Siamo stati sempre buoni amici, Giovanna!

— Grazie. Per i bambini vi è mio cognato. In quanto a me m’affido interamente alla Provvidenza — rispose la giovane con fierezza.

E dopo ch’ebbero camminato alcuni minuti uno accanto all’altro in silenzio, l’Argenti, vedendo di non essere bene accetto, la lasciò.

— Addio, dunque, Giovanna!...

— Addio Gilio, buona fortuna!...

E mentre il giovane si dileguava nel bosco, ella affrettò il passo. Era molto turbata e impaziente di rivedere i suoi figliuoli, di raggiungere la sua casetta, un cubo di pietre senza intonaco, traforato da otto piccole finestre e da due porticine, che sorgeva nella piazza del paese, in mezzo all’orto già spoglio d’ogni vegetazione.

Ivi ella chiuse la sua ardente giovinezza, studiandosi di sof[p. 928 modifica] focarla fra le gioie della maternità, ma la lotta per l’esistenza era già cominciata e il tormento delle privazioni non tardò a cambiare quelle stesse gioie in angustie.

Maurizio si fece vivo soltanto a Natale, mandando da Berlino alla moglie una cartolina illustrata che rappresentava un ponte sulla Sprea, pieno di gente vestita a bizzarri colori, e a suo fratello un centinaio di marchi per una scadenza urgente. “Gli affari andavano bene„ — diceva — “e vi erano molti lavori in vista.„ Giovanna, felice di possedere finalmente l’indirizzo, scrisse subito, ma la sua lunga lettera, piena di piccoli, affettuosi particolari, rimase senza risposta e durante l’annata ella domandò più volte notizie all’assente, ma sempre indarno. Campava alla meglio, vendendo a meschino prezzo le verdure del suo orticello e stirando i veli bianchi che portano le fanciulle nei giorni di festa per andare alla chiesa. Spesso si nutriva di sole patate per cedere ai figliuoli tutto il latte che forniva la capra, unico abbellimento ormai della piccola stalla.

Verso l’autunno ammalò la madre di Gilio ch’era andato in fondo alla valle per farvi acquisto d’un bosco. Giovanna, come usa nei paesi di montagna, l’assistette per turno con altre donne, si trovò presente, per caso, al ritorno di Gilio, vinta da un sentimento pietoso, vegliò e pianse con lui quand’ella fu morta. Poi si chiuse di nuovo nella sua claustrale solitudine, evitando di rivederlo, perchè sentiva che la casta intimità del dolore e della compassione aveva tacitamente ridestato nel suo cuore le antiche angoscie.

La vigilia del capo d’anno ella stava stirando nella sua cucina una grande tovaglia d’altare. Nella trina antica a punto di Venezia era intessuta l’arma comitale d’una illustre famiglia i di castellani da gran tempo scomparsa ed estinta, col suo motto: Omnia vincit amor. Giovanna tutta intenta al delicato lavoro, guidava, con gran riguardo, il ferro colmo di carboni ardenti, intorno ai trafori del merletto meraviglioso, su quel motto del quale non poteva comprendere che la parola amore. A un tratto ella si sollevò per sorridere ai bambini che stavano giuocando, seduti in terra, con alcuni pezzetti d’abete e un piccolo grido le sfuggì dalle labbra: l’Argenti, fermo sul limitare della porta spalancata, la contemplava in silenzio. [p. 929 modifica]

— Notizie? — chiese egli subito, per giustificare quella sua indiscreta apparizione.

— Ah, no, nessuna notizia — rispose asciuttamente Giovanna, tornando al lavoro.

— Ti porto delle frutta per i bambini — continuò Giulio, con una certa titubanza — me n’hanno date tante quest’anno i miei alberi e io sono solo.

La tenerezza materna rasserenò Giovanna e la fece sorridere involontariamente.

— Grazie — mormorò ella — vuoi prendere una fiammata? fa molto freddo stasera.

E sdegnando di tradire tutta la sua povertà, gettò, senza parsimonia, sul basso focolare spento, un grande fascio di rami di pino.

Il giovane sedette sulla vecchia panca di noce intagliato che lo circondava in parte, e cominciò a distribuire, scherzando, le frutta al bambini.

— Non ne mangi tu, Giovanna? ti mondo questa mela ruggine.

— Una fetta sola, per aggradire.

Ella prese lo spicchio, lo morse coi suoi dentini bianchi e continuò ad attizzare il fuoco che aveva divampato, mandando in acuto odore di resina.

Gilio la guardava di quando in quando alla sfuggita. Non era molto alta, ma s’era serbata snella e vestiva ancora con grazia i suoi umili panni. I capelli bruni, folti e crespi, pettinati in modo diverso da quello delle altre contadine, davano un carattere un po’ capriccioso alla sua fisonomia, le cui linee dolci e giunoniche le lunghe sofferenze non erano riuscite ad alterare. I begli occhi dalla grande pupilla, dal vago colore fra l’azzurro e il verde sembravano sempre riflettere una tenera commozione interna, ma nelle labbra smorte, renitenti al sorriso, era tutta la tristezza della sua anima di donna abbandonata.

— Ti ho portato anche un ricordo della mamma, i garofani gialli — disse l’Argenti, uscendo nel corridoio a prendere il vaso che vi aveva deposto.

Giovanna accolse fra le sue braccia la pianta glauca e rigogliosa che ad onta della stagione cruda si piegava sotto il peso dei fiori color di zolfo, e si mise a odorarla con intensità come se ne assorbisse, nella fragranza, un filtro occulto. Pareva che [p. 930 modifica] in quel momento qualche cosa di strano, come un sogno misterioso di felicità, aleggiasse intorno al povero focolare. Ella ringraziò con una certa effusione, e vi fu un lungo, piacevole silenzio.

Poi la giovane chiese con un certo impeto, con la voce un po’ alterata:

— E questi confetti, quando li vediamo, Gilio?

— Non penso a prender moglie.

— Non dicevi poc’anzi che sei così solo?

— È vero, ma ho da lavorare e il lavoro mi distrae... e poi, non conosco nessuna ragazza che mi piaccia.

— Nessuna ragazza t’è piaciuta mai?

Gilio esitò un momento, poi rispose, con risolutezza:

— Forse... una volta. Ma allora ero povero e non potevo offrirle che l’opera delle mie braccia. Non mi sono palesato.

Quando la fortuna m’ha arriso era troppo tardi...

E il suo sguardo si posò un po’ più a lungo sovra di lei.

— Perchè non cerchi altrove? — continuò Giovanna, studiandosi di soffocare l’emozione violenta e pur deliziosa che l’aveva presa.

— Non ne ho voglia, Giovanna.

Le ore suonarono sul campanile. Annottava, il fuoco s’era spento, ma dalla buca colma di brace veniva ancora un lieve chiarore rossastro: l’intimità della piccola cucina sembrò farsi più dolce nella penombra.

Giovanna accese una lucernetta a petrolio, delle fiammella color di rosa parvero riaccendersi sui pochi rami che pendevano dalle pareti.

— Sono le cinque — diss’ella — e non ci si vede già più come sono brevi le giornate!

Il giovine comprese, s’alzò.

— Vado — diss’egli — vado subito.

— Aspetta che ti dia il paniere e... grazie del tuo buon cuore. Ma... non ritornare, Gilio. Ho il marito lontano.

L’Argenti stavolta la guardò intensamente negli occhi, ella abbassò le lunghe ciglia e si fece di fiamma in volto.

— Hai paura?...

— Sì. Del mondo ho paura. È troppo maligno.

— Allora... addio!

Si dettero la mano senza parlare e il giovane uscì. [p. 931 modifica]

Quella notte Giovanna non potè chiudere occhio. Era convinta d’avere agito rettamente, ma la stessa ammissione del pericolo la turbava nel profondo dell’onesta sua anima. Il grande letto nuziale le sembrava irto di spine. Ella vegliò, seduta, ascoltando il soffio ritmico dei suoi figlioletti che dormivano abbracciati, nella culla. Fuori infuriava una bufera invernale, il vento scuoteva i vetri mal connessi, spingendo contro i balconi i minutissimi fiocchi di neve, con un rumore cristallino di ghiacciuoli. Mezzanotte suonò più forte del solito e Giovanna si sentì rabbrividire al pensiero del nuovo anno doloroso che cominciava. E, per trovare un appoggio, una forza nel terribile sgomento di quell’ora solenne, staccò il rosario benedetto dalla parete e si mise a pregare. Ma si sentiva distratta, e mentre le labbra mormoravano gli ave, il suo pensiero vagava lontano. “Dov’era Maurizio? in quali incognite terre e con chi? perchè il Signore le aveva dato un compagno così crudele? come sarebbe Gilio...?„ e la mente fuorviava, immaginando contentezze sconosciute, inarrivabili. Poi si pentiva come d’una grave colpa di quel suo febbrile vaneggiare e tornava tutta dolente e più raccolta alla preghiera. Verso l’alba s’assopì per ridestarsi subito, angosciata. Le era parso, nel sogno, che i due uomini fossero venuti alle mani.

Molto tempo trascorse prima ch’ella rivedesse l’Argenti da vicino. Soltanto due o tre volte s’incontrarono per via, ed egli la salutò a nome e con una tale dolcezza da farle abbassare gli occhi.

La primavera tenne dietro al lungo inverno della montagna senza che Maurizio avesse scritto; poi, più d’un anno passò in quell’assoluto, impenetrabile silenzio. Quando tornava qualche emigrato dalla Germania, Giovanna correva a interrogarlo, ma nessuno sapeva appagare il suo angustioso desiderio, nessuno l’aveva veduto.

I prati di Maurizio intanto erano stati venduti all’asta, sulla casetta e sull’orto gravavano tali debiti che Giovanna più non riusciva a mantenersi in corrente coi pagamenti. Qualche volta ella affidava i bimbi alle cure d’una vecchia vicina e valendosi di quelle ore di libertà saliva sulla montagna, domandava alla natura, [p. 932 modifica] amica del povero, i suoi provvidi elementi di guadagno. Fiori, funghi e frutta nulla sfuggiva all’esperto suo sguardo. Ella faceva delle lunghe soste nei prati per raccogliervi mazzolini di miosotidi azzurre o di mughetti odorosi, fasci di gigli infocati o di candide paradisie che i villeggianti dei dintorni sapevano apprezzare; qualche volta empiva il suo paniere di miceti dal grave aroma o di radici di genziana e d’imperatoria, oppure, attraversando le cupe selve d’abeti e di pini andava in cerca di licheni, di lamponi, di mirtilli, delle bacche acerbe e dissetanti che formano la delizia delle radure alpine.

Ella amava di fermarsi nell’ombra glauca delle conifere secolari, di ascoltare l’armonia del vento che fremeva tra i loro eccelsi pinnacoli; ella intuiva nella semplicità della sua anima, come spesso accade alla gente nata in montagna, la poesia florale nel fascino di certi paesaggi meravigliosi e sereni e le sue forze stremate sembravano rinnovarsi ogni volta per l’ebbrezza pura delle grandi altitudini.

Una mattina di luglio, mentre stava cogliendo fiori d’arnica in una prateria, ella fu morsicata da una vipera presso la caviglia del piede destro; si legò subito una funicella intorno alla gamba e s’affrettò alla discesa. Ma, dopo pochi minuti di cammino, sentì una grande spossatezza nelle membra, un languore profondo, una crescente impressione di freddo. Le pareva che una potenza occulta la obbligasse a rallentare il passo, e pure, pensando alle sue creature, si sforzava a procedere, a lottare contro il bisogno irresistibile che l’aveva presa di adagiarsi sull’erba morbida e di dormire in pace. Ma il sonno si faceva sempre più imperioso, un gelo di morte l’assiderava, tutte le cose le si oscuravano dinanzi.

In un prato lontano, Gilio stava rastrellando il primo fieno. Egli aveva alzato gli occhi dal lavoro, come fosse avvertito da una voce interna e aveva visto Giovanna emergere dall’ombra cupa d’una pineta e venire innanzi tra il verde variopinto d’un fiorito altipiano. L’acuto suo sguardo s’era fissato su quella cara visione. Ad un tratto la piccola, snella figura prima vacillò, poi stramazzò sul sentiero.

— La donna di Maurizio Lella è caduta e non si rialza! Andiamo a soccorrerla — gridò l’Argenti, atterrito, a un suo compagno. [p. 933 modifica]

Quand’essi arrivarono, attraversando di corsa una valletta, Giovanna era presso a perdere i sensi. Ella giaceva con un mortale abbandono, e i fiori ranciati dell’arnica le si erano sparsi dintorno.

Gilio rimase alcuni secondi indeciso, ma ella avvertì subito la sua presenza, ebbe la forza di mormorare:

— La vipera... in un piede...

L’Argenti allora si mise in ginocchio accanto a lei, esaminò delicatamente la ferita e strinse il legacciolo; poi, accostandole alle labbra la zucca colma d’acquavite, che portava per precauzione alla cintura, la supplicò di bere, ed ella ne inghiottì una parte, senza esitare, come fosse acqua fresca. Poco appresso i due giovani la sollevarono ritta e la sostennero sotto le ascelle per costringerla a camminare.

Giovanna si lasciava portare come un automa, con la testa penzoloni, con lo sguardo perduto, ma nel suo disperato desiderio di salvarla, Gilio non desisteva dal pietoso intento, e solo dopo lunghi sforzi gli riuscì di raggiungerlo.

Molta gente ere accorsa dalle vie e dai casolari sparsi con rimedi e consigli: la comitiva si veniva ingrossando, parecchie donne circondavano l’inferma, a cui tornava a poco a poco, con la facoltà di muoversi, una vaga conoscenza delle cose. Non una parola le era ancor uscita dalle labbra, ella sentiva soltanto un gran bisogno di quiete e di riposo; aveva inghiottito senz’avvertirne il sapore, alcune goccie d’ammoniaca e mezzo fiaschetto di rhum; all’avvelenamento del morso succedeva la penosa ebbrezza dell’alcool, e le sue idee tornavano a confondersi.

Gilio l’accompagnò fino sulla soglia della casetta e si tenne in disparte, per cedere il suo ufficio al medico ch’era sopraggiunto e che non trovando più da far nulla si limitò a raccomandare la sospensione di quell’eroica cura.

Giovanna non provava che un irresistibile desiderio di solitudine, ma le donne ch’erano con lei insistevano ancora perchè si muovesse, continuavano ad offrirle il cognac che aveva mandato un signore del paese. E com’ella si mostrava recisa nel rifiuto, si passarono l’una all’altra la bottiglia, portandola per turno alla bocca finchè fu tutta vuotata. La parlantina divenne generale. Giovanna si sentiva assordare da quelle voci e non capiva che una frase sola che le venivano di tratto in tratto ripetendo: [p. 934 modifica]

— Ah, se non ci fosse stato il Messicano, povere le tue creature! ti saresti addormentata per sempre lassù nei prati!

Quasi involontariamente ella lo cercò con lo sguardo per ringraziarlo; ma l’Argenti era scomparso. E all’improvviso le parve che una grande dolcezza di vivere la inondasse, ad onta della povertà e dell’abbandono in cui Maurizio la lasciava, e quando la gente si fu allontanata ella si permise di ascoltare quella dolcezza nel pauroso mistero del suo cuore.

Quante volte, nei giorni seguenti, quando le traccie delle sue sofferenze furono svanite, Giovanna ebbe ancora quel senso di rapimento, di trasporto, quel tuffo interno, impetuoso che la faceva dire fra sè: “La vita così preziosa alle mie creature la devo a lui; è lui che me ’ ha ridonata...„ quante volte, nelle folli divagazioni del suo pensiero, ella immaginò che un legame più stretto li vincolasse!

Ma il sogno era breve e tormentoso e Giovanna si metteva a piangere, a singhiozzare, con la testa fra le mani, con la coscienza in tumulto, con la disperazione di quelle cose immutabili in cui l’onestà deve lottare col sentimento.

E il tempo passò ancora.

Una sera, al principio d’aprile, ella stava lavorando in cucina. Picchiarono insolitamente alla porta e suo cognato, che non vedeva mai, entrò col volto torbido e chino.

Ella gli si fece incontro ansante, presaga di qualche sventura.

— Ha scritto Maurizio! esclamò.

— Eh! no. Non ha scritto lui.

— Altri dunque, altri hanno scritto! Che c’è? che cos'ha fatto?

— Ci vuole coraggio, Giovanna.

— Come se non ne avessi!

— Maurizio è gravemente ammalato.

— Ammalato! dove? dove?

— A Breslavia, nell’ospedale.

— Da chi l’avete saputo?

— Lo scrivono d’ufficio.

— D’ufficio? Sono notizia pervenute al Comune?

— Sì, stasera.

Giovanna stette un momento sospesa, immobile. Tremava tutta. Il colore le era svanito dalla faccia. Alfine chiese, esitando, con la voce lieve come un soffio: [p. 935 modifica]

— Morto? mica morto?...

Il contadino affermò con un cenno rude della testa.

Giovanna cadde in ginocchio presso al focolare, si prostrò tutta nel suo abbattimento, toccandone le pietre con la fronte in fiamme.

Due tre donne accorsero ai suoi singulti, la notizia si sparse; l’atto di decesso era giunto dal Municipio di Breslavia col mezzo del Consolato austriaco ed era accompagnato dal passaporto di Maurizio e da altre carte di sua proprietà.

La casetta si riempì a poco a poco di gente: chi accorreva per curiosità, chi per sentimento.

Giovanna pregò tutti di allontanarsi. La solitudine era già divenuta per lei una cara compagna. Ella si chiuse nella sua camera, sedette accanto alla culla e vi rimase tutta la notte. Mai le si era affacciata così chiara alla mente la trascorsa vita. Indarno ella si studiava di cercare in quel passato qualche dolce ricordo; il suo martirio di cinque anni confermato con l’abbandono e con l’oblio, non poteva avere che una persistente asprezza di memorie. Ella insisteva con una strana compiacenza sulle parole più tristi, sugli atti più brutali, sulle ore più terribili, come se il suo dolore vi trovasse ristoro e conforto, ma, ad onta di questo, un grande desiderio la struggeva di sapere se suo marito s’era sovvenuto di lei, delle sue creature, s’era morto in buoni sentimenti e in grazia di Dio. E immaginò di ricorrere alla maestrina del paese che conosceva un po’ di tedesco, affinchè scrivesse, per queste informazioni, al direttore dell’ospedale.

Soltanto all’alba, quando, sulle dolomiti eccelse, apparve come un vago tremolìo la rosea luce dei primi raggi solari, ella si scosse e s’affacciò alla finestra che dava sul piccolo orto. Un profumo amarognolo le alitò in volto insieme con l’odore aromatico della salvia e del ramerino. Ella protese nel vuoto le braccia stanche e si sollevò sulla pallida fronte i riccioli scomposti dei bei capelli bruni.

La mattina era fresca assai e un’allegrezza gentile di primavera veniva dallo sfondo luminoso dell’alpestre paesaggio, dai prati verdi, dai ciliegi selvatici tutti bianchi di fiori. Un pastore suonava il corno chiamando le capre a raccolta, un fringuello cantava senza posa sulla siepe dell’orto. [p. 936 modifica]

Ella aveva molto pianto quella notte, e le pareva che l’aria sottile e imbalsamata e la vista dei monti la consolassero. Ma proprio quel momento echeggiarono i lugubri rintocchi d’una campana. Giovanna ebbe un sussulto e subito comprese. Suonavano a morto per Maurizio, per l’emigrato che non doveva più tornare, acciò tutti pregassero. Ella s’inginocchiò e si raccolse, implorando pace al suo compagno, al padre delle sue creature.

La campana tacque e un raggio di sole sfiorò la fronte della giovane, irradiandola. E a un tratto le parve che tutto il suo dolore si assopisse, che nella sua anima non fosse rimasto più nulla, fuorchè un silenzio profondo.

Sul davanzale della finestra fioriva la pianta di garofani gialli. Ella v’immerse la faccia ancor umida di pianto, ne aspirò a lungo l’acuta fragranza, le sembrò che quei freschi garofani l’accarezzassero, che tutta la pianta fosse per lei una tacita, soave carezza di primavera...

*

*  *

La maestrina tradusse a Giovanna, non senza titubanza, la risposta pervenutale da Breslavia. Maurizio Lella era morto da buon cristiano, ma durante la breve malattia — un’acuta polmonite — non aveva mai parlato della sua famiglia, come se non ne possedesse. Giovanna sofferse acerbamente di quella notizia, poi si rassegnò, anzi ne fu contenta. Ella aveva perdonato, ma ogni rapporto con suo marito era rotto, perchè al distacco terribile della morte era successa anche la separazione delle anime, assoluta, eterna.

Ma intanto la lotta con la miseria si faceva ancor più grave e Giovanna paventava più d’ogni cosa il pericolo umiliante di dover ricorrere alla carità pubblica e raddoppiava d’attività e di energia per schivarlo.

I prodotti dell’alpe le fornivano come sempre un mezzo di guadagno, ma la loro raccolta non era disgiunta da grandi fatiche e la vendita incontrava ardui ostacoli.

In pomeriggio d’estate ella aveva percorso parte della montagna in cerca di certe piante d’angelica che il semplicista le [p. 937 modifica] aveva commesse, e passando dalla pineta s’era seduta presso una piccola sorgente per cercare un po’ di riposo nella frescura e nell’ombra. Voleva godere, con un sorso d’acqua diaccia, il suo umile desinare di polenta fredda e di cacio nuovo, ma il cibo frugale, di solito così attraente al suo palato da gran tempo ignaro d’ogni ricercato sapore, non l’allettava. Era abbattuta e triste e tutto lo sconforto delle trascorse sventure riassaliva la sua anima solitaria con un senso di desolato abbandono.

Ad un tratto ella sussultò e un vivo turbamento la prese. Gilio, che non aveva più riveduto, veniva di lontano verso di lei.

— Finalmente ti trovo! — disse il giovine affrettandosi a raggiungerla — non ho mai osato venire a casa tua, ma ti ho tanto cercata e aspettavo con impazienza questo momento! — Poi, visto ch’ella si commoveva, soggiunse con una certa franchezza rude: — Fatti animo Giovanna! lo sapevi già che anche se avesse vissuto, da quel pover’uomo non vera più nulla da attendersi! ...

— Non ha mai voluto bene nè a me, nè alle sue creature, — disse ella gravemente, trovando conforto in questa confessione che per la prima volta le sfuggiva dalle labbra.

— Hanno assegnato un tutore ai tuoi figlioli?

— Sì, mio cognato. Ma vi è ben poco da pensare. Non hanno più nulla! fra breve dovrò vendere anche la mia casa e andarmene raminga.

— Se vuoi cederla, Giovanna, io conosco un compratore.

La giovane si fece di fiamma. Non avrebbe voluto che l’occasione propizia si presentasse così presto.

— Ah! non posso pensarvi — balbettò — e poi... per pochi quattrini non la vendo...

— Domanda tutto quello che vuoi.

— È dunque una persona a cui sta proprio a cuore d’averla?

— Proprio a cuore. Anzi ti raccomando di non concludere nulla senz’aver prima parlato con me.

Ella tacque un minuto. Adesso il suo volto si scolorava.

— Dunque... dunque sei tu stesso? — chiese poi con una certa ansietà.

— Sì, sono io — disse Gilio.

— Va bene. Tratteremo — mormorò ella, fermandosi nel cam[p. 938 modifica] mino che aveva ripreso, sedendo su un vecchio tronco perchè le mancava il respiro.

— Ti rincresce? ti rincresce molto? ... domandò il giovane.

Ella abbassò la testa, senza rispondere.

— Vi sarebbe un rimedio, Giovanna, se tu volessi!...; ma quando mi guarderai in faccia, dimmi?...

— Non posso — mormorò ella colla timidezza d’una fanciulla.

— Nemmeno quando sarai mia? perchè tu devi esser mia Giovanna... io ti ho sempre voluto bene anche quando ero lontano... non ho mai cessato di pensare a te...

— Oh Gilio, Gilio! perchè non l’hai detto prima? ...

— Allora era un povero ragazzo, non potevo offrirti che una vita di stenti. Le cose si sono mutate.

— Mio Dio! e le creature?

— Amerò anche le creature come fossero mie!

E il giovane la baciò pazzamente sui capelli bruni, sugli occhi umidi di pianto.

Una gioia quasi angosciosa agitava il cuore di Giovanna. Ella chinò la testa sul petto del suo compagno d’infanzia, mormorando la sua prima promessa d’amore.

*

*  *

Quattro anni erano trascorsi. La pace regnava insieme all’agiatezza sulla piccola casa. Nella stalla ruminavano i buoi e le mucche dal pelame lucente; il fienile era colmo e gli arnesi pastorizi allineati simmetricamente sotto una tettoia, attendevano il ritorno della primavera.

I figli di Maurizio s’erano fatti grandicelli e Giovanna aveva dato a Gilio due belle bambine. Egli amava gli uni e le altre senza distinzione, egli amava la moglie come il primo giorno, era buono, onesto, laborioso.

In quella sera fredda e triste di novembre dalla casuccia non traspariva lume. Essa era avvolta nell’ombra e nel silenzio profondo della felicità. Gilio, stanco dal lavoro assiduo della giornata aveva voluto coricarsi presto, e Giovanna si era assopita nel grande letto nuziale con una mano sulla spalla del suo compagno. Da più ore dormivano così entrambi d’un sonno tranquillo e intenso. Un debole raggio di luce, penetrando da una fessura [p. 939 modifica] del balcone, rischiarava appena, sulla parete bianca, il sorriso d’una pia Madonna circondata di rami d’ulivo. Dormivano in una stanzetta attigua i figlioli di Maurizio, nella culla accanto ai genitori le piccole bambine di Gilio.

La luna varcava lo spazio sereno nel colmo della notte. L’orologio del campanile suonò le due. Quel momento, un uomo avvolto in un pastrano attraversò la piazzetta, e inoltratosi nell’orto bussò lievemente alla porta di casa. Nessuno rispose, e egli si mise a picchiare più forte.

Giovanna si destò per la prima, chiamando il marito.

— Gilio! Gilio! bussano alla porta! chi può essere a quest’ora? che qualcuno abbia male? un incendio forse? — disse ella tutta assonnata.

E i colpi raddoppiarono.

Giovanna s’alzò, si avvolse in fretta le spalle in una veste, aperse la finestra, affacciandosi, vide l’uomo nell’orto.

— Chi è?

— Son io! — rispose una voce nota.

— Come voi? io non so chi siate! — disse ella, trasalendo tutta dallo spavento della voce che non voleva riconoscere.

— Ah non ricordi più?... sono tuo marito! apri subito se non vuoi che sfondi la porta! — gridò l’uomo, alzando la testa.

Giovanna ravvisò con terrore, al chiaro di luna, la faccia torva, la folta barba nera.

— Gesummaria! — esclamò ella chiudendo in fretta i vetri — è l’anima di Maurizio che viene a rimproverarmi... gli ho pur fatto celebrare tante messe... di più non potevo... non potevo!

Gilio, sordo alle prime chiamate, s’era destato di soprassalto, balzando dal letto, credendo che si trattasse di qualche brutto sogno, ma i colpi si facevano sempre più furiosi. Egli accese il lume, staccò dalla parete un fucile che teneva sempre carico e s’affrettò a discendere. Giovanna, tutta tremante, lo seguì.

Gilio tirò il chiavistello, la porta s’aperse con impeto, Maurizio comparve nel vano. Giovanna; che s’era fatta dinanzi al corpo dell’Argenti per difenderlo, si sentì mancare le forze come se scorgesse un terribile fantasma. Gilio la raccolse fra le sue braccia e la depose dolcemente sulla scala, ma già il Ciuffo lo afferrava per la gola.

— Che fai tu qui, mascalzone, a quest’ora? — ruggì egli. [p. 940 modifica]

— Ci sono per diritto.

— Taci o ti strozzo!

I due uomini lottarono un momento come insensati. Ma l’amore aveva già dato a Giovanna il coraggio di rialzarsi, di dividerli, di parlare, rispondendo al torrente d’invettive che il primo marito, redivivo, le lanciava contro.

— Io sono innocente! — ripeteva ella gemendo — se eri morto, se eri morto!

— Io morto? — tuonò Maurizio sempre più inferocito, ve l’avete inventata voi la mia morte per tradirmi!... infami, assassini!...

E nella sua cieca ira s’avviò verso la scala. Giovanna gli si piantò davanti colle braccia aperte. Gilio chè era più forte, lo prese per le spalle, lo spinse nella cucina, a terreno. Molta gente intanto accorreva, i bambini, di sopra, s’erano messi a strillare, le donne dicevano ch’era comparso uno spettro, poco mancò che non suonassero le campane.

Un uomo, vedendo che le finestre della canonica s’illuminavano, corse a chiamare il curato, un prete evangelico, d’antico stampo, che non mise tempo in mezzo e s’affrettò a vestirsi per seguirlo.

Maurizio, intanto, s’era seduto da padrone sul focolare e aveva acceso un gran fuoco brontolando e sghignazzando.

Giovanna scongiurò Gilio di uscire. Ella tremava come una foglia, non poteva convincersi che quell’uomo in carne e ossa non fosse un’apparizione e si avvicinò titubante e supplichevole per ammansarlo.

— Calmatevi, calmatevi, farò pregare... tanto... imploreremo la Vergine!

— Al diavolo le tue preghiere, darò querela, darò!... gridava il Ciuffo sempre più esasperato, aggiungendo alle minacce le più ingiuriose parole.

L’Argenti, che non poteva reggere lontano, rientrò col curato, e il buon prete che intanto si era dato premura di mandar via i curiosi, vedendo che sull’animo di Maurizio la sua presenza e le sue esortazioni non avevano alcun potere, gli toccò dolcemente una spalla.

— Vieni con me e ti spiegherò ogni cosa — disse con autorità irresistibile — siete vittime tutti d’un deplorevole errore, ma [p. 941 modifica] qui certamente nessuno ne ha colpa. Vedrai coi tuoi stessi occhi, nel registro dei morti, la copia dell’atto ufficiale del tuo decesso.

Maurizio lo seguì bestemmiando, dopo aver volto intorno a sè un truce sguardo di diffidenza.

Quando furono soli, Giovanna si gettò perdutamente fra le braccia di Gilio. Il pensiero orrendo della colpa e della separazione non era ancor penetrato nelle loro menti atterrite dalla paurosa ricomparsa. Essi si tenevano ancora stretti, avvinti, quando il Ciuffo ritornò col curato. Egli aveva veduto il registro, era più calmo, ma ne’ suoi occhi malvagi trionfava una gioia feroce.

— Capisco che non siete colpevoli — disse egli, con un cattivo sorriso, — potrò anche perdonarvi, ora che il tempo della vostra felicità è passato. Separatevi!

— Come, separarci? — gridò Giovanna con terrore.

— Figliuola mia, la tua coscienza è stata così pura fin qui che non può smentirsi neppure in un momento così grave — disse il sacerdote, profondamente commosso, poi dopo un breve silenzio ripigliò — l’errore accadde all’ospedale. Una notte, in un dormitorio pubblico un vagabondo rubò a Maurizio le sue carte. Maurizio, a cui più non occorrevano, non si curò di rinnovarle. Il vagabondo che aveva gli stessi connotati di lui è morto a Breslavia. Ecco spiegato il mistero.

— Dunque, dunque? — insistette Giovanna, ansante.

— Noi tutti fummo ingannati e tu hai vissuto con Gilio in buona fede. Da questo momento, cara figliola, una tale convivenza sarebbe disonesta e proibita. Il tuo dovere è quello di tornare col tuo legittimo marito, la Chiesa e la legge parlano chiaro. Per te la via è tracciata... senza dubbi, senza incertezze... è necessario che tu lo segua.

Nel pronunziare queste parole severe, gli occhi del vecchio prete s’empirono di lacrime, la sua voce, già fessa dagli anni, tremò.

Giovanna s’era fatta bianca bianca e s’era allontanata lentamente da Gilio che non cessava di singhiozzare.

Dinanzi a quella costernazione il curato ebbe una parola di conforto.

— Io vi ho detto quello che so, io vi ho espresso il mio avviso... domani andrò con Gilio in città... io chiederò un’udienza al vescovo, egli consulterà un legale... vedremo... [p. 942 modifica]

Maurizio continuava ad attizzare il fuoco colla sua aria di padronanza, sorridendo cinicamente, cominciando a mostrarsi stanco di quei dubbi.

— E le creature? — domandò atterrita Giovanna.

— Ah! vi sono anche i marmocchi, per giunta, fuori anche quelli, fuori! — gridò il Ciuffo con un nuovo impeto di collera e d’improperi.

— Silenzio! — impose il prete — Alle creature ci penseremo. Mi pare che in questo momento abbiate anche bisogno d’un altro consiglio, e io vi do quello che mi suggerisce la mia esperienza. Le autorità decideranno. Giovanna intanto deve prendersi cura dei figlioli. Lasciatela sola. Tu, Gilio, va da tuo cugino, tu Maurizio da tuo fratello. Quello dei due che non trovasse posto venga da me. Siate prudenti, non fate del chiasso inutile. Preparatevi tutti ad adempiere la divina volontà.

La voce era dolcissima, ma autorevole. Gilio s’alzò subito, Maurizio fu più lento a obbedire; i due uomini uscirono uno dopo l’altro senza guardarsi.

Il curato mise la sua mano grinzosa sulla testa china di Giovanna, mormorò una benevola parola e li seguì.

Allora Giovanna si strappò i capelli, gridando:

— Misericordia! le mie creature, le mie creature!

E salì come un lampo le scale, entrò nella camera, si gettò sulla culla, destò coi suoi baci disperati, colle sue selvagge parole le figliolette di Gilio che una vicina pietosa aveva con grandi sforzi riaddormentate. Pareva impazzita.

La donna lasciò che si sfogasse, poi quando vide che continuava a tremare battendo i denti, tentò d’indurla a coricarsi, ma in quel letto Giovanna non ci voleva più entrare. Ella s’era accoccolata in terra, colla testa fra le mani, gemendo. piano come un bambino. Nel suo lamento inarticolato non s’udivano che di quando in quando le parole di rimpianto tormentoso:

— Il mio Gilio, così buono, così buono! ...

— Calmati per pietà — diceva l’amica — il nostro curato sarà già partito per la città. Possibile che non vi sia più una speranza?...

Giovanna non rispondeva. Era come insensata.

Durante quel giorno ella non vide nessuno. Soltanto la sera, sul tardi arrivò il vecchio prete. [p. 943 modifica]

— Iddio terrà conto della tua virtù, cara figliola — disse egli entrando, guardandola con occhi compassionevoli.

— Non vi è rimedio? dunque non v’è proprio rimedio? — domandò la sventurata con un grido d’orrore.

— No, pur troppo. Gilio è venuto con me, si è informato, ha dovuto persuadersi anche lui. Durante il ritorno abbiamo pensato a molte cose... vi sono varie disposizioni da prendere.

Egli non vuole che tu abbandoni questa casetta e la darà in affitto a Maurizio per una tenue somma. Delle sue figliolette si prenderà cura egli stesso.

— Le piccine? separarmi anche dalle piccine? oh Dio mio, Dio mio!

— Anche questo, Giovanna, disgraziatamente è necessario. Gilio non potrebbe vivere tranquillo... capirai... tu stessa saresti in una continua apprensione per loro. Il sacrificio è grande, è immensurabile, mia povera figliola! il Signore te ne compenserà.

Giovanna stette alcuni minuti in silenzio, colla faccia stravolta, col respiro ansante, poi fece una timida domanda:

— Potrò vedere Gilio. ancora una volta?

— In mia presenza?

— No, signor curato. Vorrei vederlo sola.

— Veramente...

— Me lo conceda — implorò la disgraziata — devo parlare a Gilio, ma conosco il mio dovere.

Il buon prete acconsentì. Egli aveva il cuore stretto.

Il ritrovo fu fissato per la sera seguente, all’ora stessa in cui Gilio doveva venire a prendere le bambine.

Il curato era riescito a stento a trattenere Maurizio.

*

*  *

Giovanna attendeva Gilio in cucina. Ella stava accanto alla finestra, immobile, impietrita, collo sguardo fisso nel cielo torbido e minaccioso.

All’apparire del giovane s’alzò di scatto, corse verso di lui, quasi inconscia, per abbracciarlo, ma subito si trattenne vinta da un pudico ritegno. Ahimè, quello era il vero marito suo, il tenero padre delle sue creature, l’eletto del cuore! In quei due giorni [p. 944 modifica] l’Argenti s’era invecchiato di dieci anni. Pallido, cogli occhi infossati, egli ebbe un grido di dolore dinanzi alla vereconda esitanza dell’amata, e non resistendo all’angoscioso trasporto, la baciò come un disperato, la strinse follemente al suo petto con una passione che l’ostacolo infiammava fino al delirio.

Ella si sciolse con dolce insistenza dalle sue braccia, lo condusse verso quel focolare ove avevano passato insieme tante ore di tranquilla felicità e gli domandò con un atto solenne, che nello strazio dell’imminente sacrifizio conferiva una certa grandezza all’umile sua anima:

— Gilio..., se in questi quattro anni di vita beata io t’ho dato qualche dispiacere, me lo perdoni?

— Non sono io che devo perdonare... tu, tu sola Giovanna.

— Io non avrò che delle memorie benedette. Null’altro. Ora tutto è finito.

— Vi sarebbe ancora uno scampo, se tu volessi! Possiamo fuggire insieme! — esclamò il giovane nella sua desolazione, avvicinandosi di nuovo a lei.

— No, questo no — disse Giovanna, senza la più lieve esitanza.

— Dunque è proprio tutto finito!...

E si guardarono profondamente negli occhi con una follia di dolore.

— E le creature, le creature!

— Ci penserò Giovanna, non temere...

— Parlerai loro qualche volta di me? dirai che la mamma è morta eh? ch’è morta?

Il giovane ruppe in un singhiozzo e scosse la testa con ribrezzo.

— Io andrò molto lontano di qui — mormorò — me lo consiglia anche il curato; andrò in un luogo ove potrò parlar loro di te, senza pericolo... quanto me lo dice il cuore.

— In America? — domandò ella piano, soffocata.

— Non lo so.

— Ti sposerai Gilio? — domandò ella, ancor più piano collo sguardo spento.

— Mai. Te lo giuro.

E l’Argenti stese la mano verso un lembo di cielo che s’intravvedeva fra le nubi gravi di neve. [p. 945 modifica]

— Allora... vieni. Te le consegno.

E insieme salirono la nota scala, andarono fino sull’uscio della camere nuziale. Gilio voleva seguirle. Ella disse:

— Aspetta.

Entrò sola e poco dopo ricomparve colle due piccine involte in panni caldi, gliene accomodò una per braccio. E siccome la maggiore si metteva a piangere:

— Quieta, Assuntina — mormorò — è il babbo che vi vuole bene, tanto bene. Il corredino te lo manderò fra due giorni — soggiunse ella — ti farò avere tutto quello che è tuo, Gilio... soltanto l’anello nuziale no, quello no. Ne ricaverò una crocetta e Iddio mi perdonerà se la porto ...

Una forza quasi sovrumana la reggeva nel momento supremo della separazione. Ma quella calma mortale non poteva durare a lungo.

— Ora va, devi andare — diss’ella con un ultimo sforzo al giovane che le stava dinanzi immobile, inebetito — che il Signore vi accompagni sempre!

Gilio si strinse al cuore i due fagottini viventi e mentre ella alzava la mano con un atto inconscio di benedizione scese le scale, senza rispondere. Un tonfo s’udì. Forse Giovanna era caduta sul pavimento. Egli non osò tornare indietro. Sulla porta trovo il curato che lo aspettava, gli additò le scale con un cenno della testa e uscì nella piazza. Calava il crepuscolo e cominciava a nevicare a grossi fiocchi.

*

*  *

Il giorno seguente Maurizio Lella tornò in casa riprendendo possesso dei suoi diritti. Un profondo silenzio regnò alcun tempo sulla piccola dimora ov’era rientrata la miseria colla sventura. Pareva che tutto vi fosse morto. Ma una sera, sul tardi, la gente che passava udì un grido, poi dei gemiti repressi. Il Ciuffo, alticcio e furioso, batteva la moglie in un accesso di gelosia.

Jacopo Turco.

  1. Passo (nel dialetto trentino) passaporto.