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934 il passo


— Ah, se non ci fosse stato il Messicano, povere le tue creature! ti saresti addormentata per sempre lassù nei prati!

Quasi involontariamente ella lo cercò con lo sguardo per ringraziarlo; ma l’Argenti era scomparso. E all’improvviso le parve che una grande dolcezza di vivere la inondasse, ad onta della povertà e dell’abbandono in cui Maurizio la lasciava, e quando la gente si fu allontanata ella si permise di ascoltare quella dolcezza nel pauroso mistero del suo cuore.

Quante volte, nei giorni seguenti, quando le traccie delle sue sofferenze furono svanite, Giovanna ebbe ancora quel senso di rapimento, di trasporto, quel tuffo interno, impetuoso che la faceva dire fra sè: “La vita così preziosa alle mie creature la devo a lui; è lui che me ’ ha ridonata...„ quante volte, nelle folli divagazioni del suo pensiero, ella immaginò che un legame più stretto li vincolasse!

Ma il sogno era breve e tormentoso e Giovanna si metteva a piangere, a singhiozzare, con la testa fra le mani, con la coscienza in tumulto, con la disperazione di quelle cose immutabili in cui l’onestà deve lottare col sentimento.

E il tempo passò ancora.

Una sera, al principio d’aprile, ella stava lavorando in cucina. Picchiarono insolitamente alla porta e suo cognato, che non vedeva mai, entrò col volto torbido e chino.

Ella gli si fece incontro ansante, presaga di qualche sventura.

— Ha scritto Maurizio! esclamò.

— Eh! no. Non ha scritto lui.

— Altri dunque, altri hanno scritto! Che c’è? che cos'ha fatto?

— Ci vuole coraggio, Giovanna.

— Come se non ne avessi!

— Maurizio è gravemente ammalato.

— Ammalato! dove? dove?

— A Breslavia, nell’ospedale.

— Da chi l’avete saputo?

— Lo scrivono d’ufficio.

— D’ufficio? Sono notizia pervenute al Comune?

— Sì, stasera.

Giovanna stette un momento sospesa, immobile. Tremava tutta. Il colore le era svanito dalla faccia. Alfine chiese, esitando, con la voce lieve come un soffio: