Il paradiso delle signore/14
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Traduzione dal francese di Ferdinando Martini, Guido Mazzoni (1936)
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XIV
La facciata s’alzava nella sua gaia freschezza, a vari colori, con dorature; e ben annunziava il chiasso del commercio interno, attirando gli occhi come un’immensa vetrina splendida dei piú vivaci colori. A pianterreno, per non far sfigurare le stoffe delle vetrine, gli ornamenti eran sobri: uno zoccolo di marmo verde, i pilastri d’angolo e d’appoggio coperti di marmo nero, rallegrato da dorature; e il resto tutto a cristalli che pareva aprissero la profondità delle gallerie e delle sale alla luce piena della via. Ma piú salivano i piani, piú le tinte eran chiare e splendenti. Il cornicione del pianterreno era a mosaici: una ghirlanda di fiori rossi e azzurri alternati con quadrati di marmo dove erano i nomi delle merci, intorno intorno, cingeva il negozio. Poi il supporto del primo piano era a mattoni smaltati e sorreggeva i cristalli dei finestroni sino alla cornice fatta con gli scudi dorati delle città della Francia e con ornati di terracotta, lo smalto dei quali ripeteva i colori chiari del supporto. Finalmente, in cima, la facciata esultava nei mosaici e nelle porcellane, con tinte piú calde; lo zinco delle docce era lavorato e dorato, e un popolo di statue, le grandi città industriali e commerciali, levavano nel cielo i loro profili sottili. I curiosi stupivano principalmente della porta di mezzo, alta come un arco di trionfo, decorata con profusione di mosaici, porcellane, terrecotte, e sormontata da un gruppo allegorico di cui raggiavano le dorature fresche; la Donna adornata e baciata da una folla volante e ridente di Amorini.
Verso le due, le guardie dovevano già far muovere la gente ferma, e sorvegliare la fila delle carrozze. Il palazzo era costruito, il tempio alla pazzia della moda terminato: dominava e copriva un intero quartiere con l’ombra sua. La piaga lasciatagli nel fianco dalla rovina della casaccia del Bourras era già cosí ben guarita, che si sarebbe invano cercato il suo antico posto: le quattro facciate correvano lungo le quattro vie, senza nessuna interruzione, nel loro superbo isolamento. E pareva che il Paradiso, dopo essersi tanto ingrandito, vergognandosi e avendo uggia del quartiere nero dov’era nato modestamente e che aveva poi assassinato, gli avesse voltato le spalle per lasciare dietro a sé il fango delle vie strette, e presentare la faccia sua di borghese arricchito, alla strada piena di sole e di chiasso della nuova Parigi. S’era, come lo mostravano le figure della pubblicità, ingrassato simile all’Orco delle novelle che con le spalle rompe le nuvole e le attraversa. In quelle figure la Via Dieci Dicembre e le Vie della Michodière e di Choiseul, piene di minuscole persone nere, si allargavano smisuratamente come per dar passaggio ai clienti del mondo intero. Poi, sopra, si vedevano i fabbricati a volo d’uccello, smisuratamente esagerati con i tetti che indicavano le gallerie e le corti a cristalli sotto i quali s’indovinavano le sale, tutto l’infinito di quel lago di vetro e di zinco luccicante al sole. Piú in su, Parigi si stendeva, rimpiccolita, quasi divorata dal mostro: le case, piccine come capanne li intorno, si sparpagliavano poi in una polvere di camini indistinti; i monumenti si vedevano appena; a sinistra due freghi per Notre-Dame, a destra un accento circonflesso per gl’Invalidi, in fondo il Pantheon, vergognoso e sperso, piú piccolo d’una lenticchia. L’orizzonte non era segnato che con un polviscolo di tratti fino alle alture di Châtillon e alla vasta campagna.
Dalla mattina la folla cresceva: nessun magazzino aveva ancora messo sossopra la città con un tal chiasso di pubblicità! Il Paradiso non spendeva ora meno di seicentomila franchi l’anno, tra annunzi, affissi, richiami d’ogni sorta; i cataloghi spediti non erano meno di quattrocentomila, ci volevano piú di centomila franchi di stoffe per tagliuzzarle in campioni, Giornali, muri, orecchi eran pieni di Paradiso, come una mostruosa trombetta che senza mai posa soffiasse ai quattro angoli della terra il frastuono delle grandi esposizioni. La facciata sotto la quale si faceva tanta ressa diventava la pubblicità vivente, col suo lusso variopinto e dorato da bazar, le sue vetrine larghe in modo da potervisi esporre intero il poema degli abiti muliebri, le sue insegne che si leggevano dappertutto, dipinte, incise, intagliate, dal marmo del pianterreno fino allo zinco del tetto, che nelle bandierole portava il nome del magazzino scritto in lettere campeggianti nell’azzurro del cielo.
Per festeggiare l’inaugurazione, erano stati aggiunti trofei e bandiere; tutti i piani avevano stendardi con armi delle principali città di Francia; e in cima le bandiere dei popoli stranieri inalberate si svolgevano al vento. Per ultimo, giú in basso, l’esposizione della biancheria prendeva in fondo alle vetrine un’intensità di tono che accecava. Soltanto biancheria: un corredo completo ed una montagna di lenzuola a sinistra; tende spiegate e piramidi di fazzoletti, a destra, stancavano gli occhi; e tra la roba pendente dalla porta, tele, mussoline, nastri, fioccanti giú come neve, erano ritti dei fantocci grandi al vero, una sposina e una signora vestita da ballo, tutt’e due coperte di nero, trina e seta, sorridendo dai loro volti dipinti. Un gruppo di curiosi si rinnovava di continuo ed un desiderio saliva dallo stupore della gente.
La curiosità era eccitata anche piú da una disgrazia di cui tutta Parigi parlava, l’incendio delle Quattro Stagioni, il gran magazzino aperto dal Bouthemont vicino all’Opéra non erano tre settimane. I giornali offrivano tutti i particolari sul fuoco nato per una esplosione di gas, nella nottata; la fuga spaventata delle ragazze in camicia, l’eroismo del Bouthemont che ne aveva salvate cinque su le spalle. Del resto le perdite grandissime erano assicurate, e il pubblico cominciava a fare spallucce dicendo ch’era una stupenda pubblicità anche quella. Ma intanto tutti correvano al Paradiso per le voci sparse, chiamati incessantemente da codesti bazar che avevano presa tanta importanza nella vita pubblica. Aveva tutte le fortune quel Mouret! Parigi salutava la sua stella e accorreva a vederlo in piedi, dacché le fiamme pensavano ora a liberarlo dalla concorrenza: e già si contavano i guadagni della stagione, valutando quanta piú gente sarebbe andata da lui, perché il magazzino rivale aveva dovuto chiudere. Per un po’ il Mouret, turbato dal vedersi nemica una donna, quella Desforges cui doveva per una parte la sua fortuna, s’era sentito inquieto. E gli dava noia anche il barone che si divertiva a impiegare i danari in tutt’e due gli affari. Ma piú s’arrabbiava di non avere avuta una bella idea del Bouthemont: o che quel bontempone non s’era fatti benedire i magazzini dal curato della Maddalena, seguito da tutto il suo clero? Una cerimonia meravigliosa, una pompa religiosa che era andata dalle sete ai guanti! Dio caduto tra le mutande da donna e le sottovesti; ciò che non aveva impedito al tetto di bruciare, ma che valeva un milione d’annunzi, tanto il colpo era da maestro. Il Mouret, d’allora in poi, pensò di far venire l’arcivescovo.
Sonavano le tre all’orologio ch’era sulla porta. Nella folla delle ore pomeridiane, quasi centomila avventori si pigiavano per le gallerie e per le scale. Fuori, i legni occupavano da un capo all’altro Via Dieci Dicembre; e dalla parte dell’Opéra, un’altra densa fila stava nella strada cieca, da cui doveva poi nascere il nuovo viale. Semplici vetture di piazza eran frammiste alle carrozze particolari, i cocchieri aspettavano tra le ruote; i cavalli nitrivano, scotendo i morsi luccicanti al sole. Le file si aprivano di continuo tra le chiamate dei garzoni e il serrarsi delle bestie che si movevano da sé; ed altri legni venivano continuamente a porsi in riga. I pedoni passavano con corse spaventate da una parte all’altra; e i marciapiedi formicolavano di gente nella via larga e dritta, che si stendeva e si perdeva lontana. Tra le case bianche saliva il rumore; il fiume umano passava sotto l’anima diffusa di Parigi, un soffio dolce e immenso di cui si sentiva la gigantesca carezza.
Davanti a una vetrina, la De Boves, accompagnata dalla sua Bianca, guardava con la Guibal dei vestiti bell’e tagliati. — Guardate, guardate quei vestiti di tela a diciannove franchi e settantacinque! — Nelle scatole quadre i vestiti, legati con un nastrino, erano ripiegati in modo da mostrare soltanto le guarnizioni, ricamate di rosso e celeste; e nell’angolo d’ogni scatola c’era un’incisione che mostrava il vestito come doveva esser fatto, portato da una signora con l’aria principesca.
— Dio mio! è roba che val poco! — mormorò la Guibal, — Si rompono subito, basta toccarli!
Dacché il De Boves era inchiodato su una poltrona dalla gotta, eran diventate amiche intime. La moglie sopportava l’amante, piacendole piú che la cosa accadesse lí in casa; cosí almeno ci guadagnava qualche soldo, che il marito si lasciava rubare, avendo bisogno anche lui di un po’ di tolleranza.
— Entriamo dunque — disse la Guibal. — Bisogna vederla l’esposizione... Il vostro genero non vi ha dato un appuntamento là dentro?
La De Boves non rispose, tutta assorta nella fila dei legni, che ad uno ad uno si aprivano, uscendone sempre nuovi avventori.
— Sí, — rispose Bianca. — Paolo ci deve venire a pigliare verso le quattro nella sala di lettura, quando esce dal ministero.
Erano maritati da un mese, e il Vallagnosc, dopo un congedo di tre settimane passate nel Mezzogiorno della Francia, era tornato al suo ufficio: Bianca era già grossa e grassa come la mamma, o poco meno.
— Guarda la Desforges laggiú! — disse la contessa, osservando una carrozza che si fermava.
— Davvero? — domandò la Guibal. — Dopo tutte queste storie... Deve piangere ancora l’incendio delle Quattro Stagioni.
Era proprio Enrichetta. Le vide e si fece innanzi con aria spigliata, nascondendo la sua disfatta sotto la disinvoltura mondana.
— Dio mio, sí! Ho voluto veder da me, con i miei occhi: è meglio, non è vero?... Oh! col signor Mouret siamo sempre buoni amici, per quanto dicano ch’è furibondo perché ho preso interesse al magazzino rivale... Io gli perdono tutto, fuor che una cosa: d’aver fatto quel matrimonio (ve ne rammentate?) tra quel tal Giuseppe e la mia protetta, la signorina de Fontenailles...
— Come! si son bell’e sposati? — interruppe la De Boves. — Che orrore!
— Sí, e soltanto per offender noi. Lo conosco io; ha voluto dire che le nostre signorine non son buone che per i suoi garzoni.
Si riscaldava, e tutt’e quattro restavano sul marciapiede, tra le spinte. Ma a poco a poco la folla le spostava; e abbandonandosi alla corrente esse entrarono come portate, quasi senza accorgersene, discorrendo a voce piú alta per capirsi. Si domandavano ora notizie della Marty. Il povero signor Marty, dicevano, dopo aver fatto delle scene violente in casa, era impazzito; preso dal delirio delle ricchezze, ficcava le mani nei tesori della terra, votava miniere d’oro, caricava carretti di diamanti e pietre preziose.
— Povero disgraziato! — disse la Guibal — lui ch’era sempre vestito cosí male e tanto umile a forza di dar lezioni!... E la moglie?
— Divora uno zio, — rispose Enrichetta — un bravo vecchione di zio, che, rimasto vedovo, è andato a stare con lei... Ma la troveremo di sicuro, deve esser venuta.
Rimasero immobili dalla sorpresa. Dinanzi a loro si stendevano i magazzini; i piú vasti del mondo, dicevano gli annunzi. La grande galleria di mezzo correva ormai da un capo all’altro, sboccando in Via Dieci Dicembre e in Via Nuova di Sant’Agostino; e a destra e a sinistra, come le navate d’una chiesa, la galleria Monsigny e la galleria Michodière, piú strette, si stendevano lungo le due vie senza interruzione. Di tanto in tanto c’erano i crocicchi allargati, quasi salotti, in mezzo all’ossatura metallica dei ponti e delle scale. L’ordine interno era stato rovesciato; le calíe erano ora sulla Via Dieci Dicembre, la seta in mezzo, i guanti nella sala Sant’Agostino, in fondo: e dal nuovo ingresso principale, alzando gli occhi, si vedevano sempre i letti, passati da una parte all’altra del secondo piano. Le sezioni divenute nientemeno che cinquanta; alcune si inauguravano quel giorno, altre fattesi troppo importanti avevano dovuto sdoppiarsi, per agevolare la vendita; e in quel continuo accrescersi degli affari, gl’impiegati con la nuova stagione erano saliti al numero di tremilaquarantacinque.
Le signore restavano sorprese, piú che dal resto, dal prodigioso spettacolo della grande esposizione della biancheria. Intorno a loro v’era da primo l’atrio, tutto a cristalli, col pavimento a mosaico, dove le mostre a prezzi bassi trattenevano la folla avida. Si aprivano quindi le gallerie, piene di luce accecante, come deserti di neve, come ghiacciai scintillanti al sole. Il bianco delle vetrine esterne si ravvivava, in un’immensa fila, ardendo da un capo all’altro con le fiamme bianche d’un incendio divoratore. Null’altro che bianco, tutto il bianco di tutte le sezioni, un’orgia di bianco, una stella bianca che da principio faceva male agli occhi, i quali in quel candore unico non potevano distinguere i particolari. Presto per altro ci si avvezzavano; a sinistra, la galleria Monsigny protendeva monti di tele e cotoni, rocce bianche di lenzuoli, asciugamani, fazzoletti; e la galleria Michodière, a destra, occupata dalla merceria, dai berretti e dalle lane, esponeva edifici bianchi, di bottoni di madreperla, una gran decorazione fatta tutta di calze bianche, una sala intiera coperta di lana bianca, attraversata in lontananza da un raggio di sole. Ma principalmente splendeva la galleria di mezzo, con i nastri e le cravatte, i guanti e le sete. I banchi non si vedevan piú sotto il bianco delle sete, dei nastri, dei guanti e delle cravatte. Attorno alle colonnette di ferro si alzavano sbuffi di mussolina bianca, stretti di tanto in tanto da pezzuole bianche. Le scale erano addobbate di stoffe bianche, di «picchè» e cambrí martellati, che alternamente salivano lungo le ringhiere, circondavano le sale fino al secondo piano: e tutto quel bianco prendeva le ali, e si alzava e si sperdeva come una fuga di cigni. Poi ricadeva dalle volte come piuma, come neve a larghe falde: coperte bianche, piumini bianchi, penzolavano come i parati d’una chiesa; le trine volavano da una parte all’altra quasi sorreggessero sciami di farfalle bianche immobili; i merletti fremevano dappertutto, ondeggiavano come ragnatele in un cielo d’estate, empivano l’aria del loro alito bianco. E la meraviglia, l’altare di quella religione del bianco, era sopra la sezione delle sete, nella grande sala, una tenda fatta di cortine bianche che scendevano dalla invetriata. Le mussoline, i tulli, le trine d’arte, scendevano a leggiere ondate, mentre i veli ricamati, ricchissimi, e le sete orientali a pagliuzze d’argento, facevano da sfondo a quella immensa decorazione che aveva insieme del tabernacolo e dell’alcova. Pareva un gran letto bianco che nella sua enormità virginale aspettasse, come nelle leggende, la principessa bianca, quella che doveva venire, un giorno, onnipossente, col velo bianco delle spose.
— Oh! è una cosa straordinaria! — ripetevano le signore. — Inaudita!
Non si stancavano nemmeno di quel cantico del bianco, intonato dalle stoffe di tutto il magazzino. Il Mouret non aveva avuto fin allora una idea cosí vasta; era il genio dell’arte delle mostre. Tra quei candori, nel disordine apparente dei tessuti, caduti come per caso fuor delle scatole, c’era una frase armonica, il bianco seguito e svolto in tutti i suoi toni, che nasceva, cresceva, si allargava con la strumentazione complicata di una fuga di autore classico, la quale col continuo svolgimento rapisce le anime in un volo sempre piú largo. Sempre il bianco, e non mai lo stesso bianco; tutti i bianchi gli uni sugli altri, contrapponendosi, compiendosi, giungendo all’ultimo splendore della luce. Dai bianchi opachi dei nastri e delle tele, dai bianchi sordi delle flanelle e dei lenzuoli, si passava ai velluti, alle sete, ai rasi, sempre salendo; il bianco a poco a poco si accendeva, e finiva quasi in fiammella dov’eran le pieghe; poi volava nella trasparenza delle tende, diveniva luce libera nelle mussoline, nei merletti, soprattutto nei veli cosí leggieri ch’erano come la nota ultima e dileguantesi; mentre l’argento delle sete orientali cantava piú acuto in fondo all’immensa alcova.
I magazzini intanto vivevano; la gente si affollava agli ascensori, si urtava nella stanza delle bibite e nella sala di lettura; un popolo intiero viaggiava per quegli spazi coperti di neve. E la folla pareva nera; sembravano i pattinatori d’un lago di Polonia, in dicembre. Al pianterreno c’era una calca ondeggiante dove non si distinguevano che i volti delicati e pieni d’ammirazione delle donne. Lungo le scale, sui ponti, si vedevan salire e scendere infinite figurine, come sperse tra picchi coperti di neve. Un calore da serra, soffocante, faceva meravigliare in faccia a quelle montagne candide; il rumore delle voci pareva quello enorme d’un fiume straripato. Nell’alto, l’oro profuso, i vetri niellati d’oro e i rosoni d’oro parevano raggi di sole splendenti sulle Alpi della grande esposizione del bianco.
— Andiamo! — disse la De Boves — bisogna muoversi: non si può mica restar qui!
Da quando ell’era entrata, il Jouve, ritto presso la porta, non le levava gli occhi d’addosso; lei si voltò, e i loro sguardi s’incontrarono. Poi, movendosi essa, il Jouve la lasciò andare un po’ innanzi, e la seguí da lontano, facendo finta di nulla.
— To’! — disse la Guibal, fermandosi un’altra volta davanti alla prima cassa che trovò, in mezzo alle spinte. — Questa sí, ch’è un’idea gentile! le viole!
Parlava del nuovo premio del Paradiso, un’idea del Mouret, di cui egli faceva parlare tutti i giornali: comprava a Nizza a migliaia mazzolini di viole e li distribuiva a ogni cliente che comprasse qualche cosa.
Accanto a tutte le casse, dei garzoni in livrea erano incaricati della distribuzione, sorvegliati da un ispettore. E a poco a poco la clientela si trovava infiorata, i magazzini s’empivano d’allegria, tutte le donne portavano attorno un acuto profumo di fiori.
— Sí — mormorò la Desforges con voce da cui traspariva la gelosia, — l’idea è buona.
Ma mentre stavano per allontanarsi, sentirono due commessi che scherzavano su quelle viole. Uno, magro ed alto, si meravigliava: era proprio vero dunque che il padrone sposava la direttrice dei vestitini? e un altro, un grassone, rispondeva che non si sapeva, ma che i fiori a ogni modo eran bell’e pronti.
— Come! — disse la De Boves, — il signor Mouret riprende moglie?
— Lo sanno tutti, a quest’ora! — rispose Enrichetta che faceva l’indifferente. — Una volta o l’altra, si sa, ci si casca tutti.
La contessa aveva dato un’occhiata furbesca alla sua nuova amica. Ora sí, che capivano perché la Desforges era venuta al Paradiso, per quanto fosse in rotta. Cedeva, senza dubbio, al bisogno invincibile di vedere e di soffrire.
— Resto con voi — le disse la Guibal messa in curiosità. — Ritroveremo la De Boves nella sala di lettura.
— Va bene! — rispose costei. — Io devo salire al primo piano... Andiamo, Bianca.
E se n’andò, seguita dalla figliuola, mentre il Jouve, sempre attento a ciò ch’ella faceva, salí un’altra scala accanto perché lei non se n’accorgesse. Le due altre si persero nella folla compatta del pianterreno.
Tutte le sezioni, tra la confusione della vendita, non discorrevano d’altro che degli amori del padrone. L’avventura che da mesi faceva andare in sollucchero i commessi per la lunga resistenza di Dionisia, era da un momento all’altro giunta a una crisi: il giorno innanzi s’era risaputo che la giovinetta se n’andava dal Paradiso: per quanto il Mouret la scongiurasse a restare, diceva che aveva un gran bisogno di riposo. E tutti ci mettevano bocca: andrebbe o non andrebbe via? Da sezione a sezione correvano scommesse di cinque franchi, per la domenica prossima. I maligni arrischiavano una colazione sulla carta del matrimonio; gli altri, quelli che credevano alla partenza, non adducevano ragioni buone. La ragazza aveva, è vero, la forza d’una donna adorata che dice di no; ma il padrone, dall’altro canto, era ricco, felice nella sua vedovanza, orgoglioso, e quest’ultima esigenza gli poteva far cambiare in odio l’amore. Gli uni e gli altri eran d’accordo su questo, che la piccina aveva saputo condurre l’affare con la sapienza d’una furba consumata, e che giocava ora l’ultima partita intimando: O sposami, o me ne vado.
Eppure Dionisia non ci pensava affatto: non aveva avuto mai pensieri nascosti. Se n’andava appunto per quei giudizi che la perseguitavano. Quando mai aveva voluto ciò che le attribuivano? s’era mostrata furba, civetta, ambiziosa? Era venuta semplicemente, e si meravigliava piú d’ogni altro di poter essere amata cosí. Ed ora, come e perché vedevano un’astuzia volpina nella sua risoluzione d’andarsene dal Paradiso? Era tanto naturale, invece! Non ne poteva piú, tra le chiacchiere che rinascevano di continuo, tra le ardenti preghiere del Mouret, tra i combattimenti che doveva combattere contro se stessa: preferiva andarsene, temendo di cedere una volta o l’altra e di avere poi quel rimpianto per tutta la vita. Era una tattica sapiente? non lo sapeva né lo voleva sapere; ma si domandava disperata come potesse fare per non parere una che vuole, a ogni costo, marito. Il matrimonio, anzi, l’irritava, ed era pronta a dire di no, sempre di no, anche se egli spingesse la sua pazzia fino a quel punto. Lei sola doveva soffrire. Il pensiero di separarsi da lui la faceva piangere: ma, col suo gran cuore, diceva a se stessa che bisognava facesse cosí, e che non avrebbe avuto piú un momento di pace e di gioia, se avesse fatto diversamente.
Quando il Mouret n’ebbe la dimissione, rimase muto e quasi freddo, nello sforzo che faceva per frenarsi. Poi dichiarò seccamente che le dava otto giorni di tempo perché ci pensasse bene, prima di fare una tanta e tale sciocchezza. Quando, passati gli otto giorni, ella tornò a ripetere che se ne voleva ad ogni costo andare dopo la grande esposizione, egli non si infuriò nemmeno allora, e volle parlare sul serio: dava un calcio alla fortuna; dove voleva trovare il posto che aveva ora? aveva qualcosa in vista? Era pronto a darle quanto di meglio sperasse ottenere altrove.
E avendo Dionisia risposto che non aveva nemmen cercato, e che si voleva prima riposare per un mese a Valognes col denaro messo da parte, egli le chiese perché non potesse tornare nel Paradiso, se era proprio la salute che l’obbligava a riposarsi un po’. Lei non sapeva che rispondere, torturata da quelle domande. Allora il Mouret pensò che andasse a ritrovare un amante, forse un marito: non gli aveva confessato, una sera, che amava? Da quel momento portava nel cuore, come un coltello, quella confessione strappatale in un’ora di turbamento. Se quel rivale la sposava, lei lasciava andar tutto per stare con lui: la sua ostinazione veniva cosí spiegata. Era finita per lui. Aggiunse soltanto, con voce gelida, che non la tratteneva piú, dacché lei non gli poteva dire le vere ragioni della sua partenza. Questa conversazione, dura, pacata, la commosse piú che le furie di cui aveva avuto paura.
Per tutta la settimana che Dionisia restò nel magazzino, il Mouret fu sempre pallido e severo. Quando traversava le sezioni, fingeva di non vederla; non s’era mai mostrato cosí indifferente, cosí assorto nel lavoro; e le scommesse ricominciarono, ma soltanto i coraggiosi osavano arrischiare una colazione sul matrimonio. Sotto quella freddezza, tanto poco naturale in lui, il Mouret nascondeva intanto una spaventosa battaglia d’indecisione e dolore. Il sangue gli ribolliva; vedeva tutto rosso, a volte; e gli passava pel capo di prendere Dionisia, stringerla, tenerla con sé, soffocarne le grida. Poi volle ragionare, e cercò i mezzi per impedirle d’andarsene; ma cozzava sempre contro la sua impotenza, con l’odio della sua forza e del suo denaro che gli erano inutili.
Un pensiero cresceva tra pazzi disegni, e, per quanto egli ne repugnasse, gli s’imponeva a poco a poco. Dopo la morte della Hédouin aveva fatto proponimenti di non riammogliarsi, perché doveva a una donna la origine della sua fortuna, e voleva ormai accrescerla con le donne. Aveva, come il Bourdoncle, la superstizione che il capo d’un gran magazzino dev’essere celibe, se vuol serbare intera la sua maschia potenza sui desideri del popolo dei clienti: una donna avrebbe cangiata l’aria, e cacciate con l’odor suo tutte le altre donne. E resisteva alla logica invincibile dei fatti, preferendo di morire piuttosto che cedere, assalito da furie improvvise contro Dionisia, sentendo bene ch’ella era la rivincita, temendo di cader vinto sui suoi milioni, spezzato come una paglia dall’eterno femminino, il giorno del suo matrimonio. A poco a poco, invece, si raddolciva e discuteva la sua repugnanza: perché aver paura? era tanto buona, tanto giudiziosa, che avrebbe potuto abbandonarsi a lei senza alcun timore! Venti volte all’ora ricominciava la battaglia nell’anima sua straziata: l’orgoglio irritava la piaga, ed egli finiva col perdere quel poco di cervello che gli era rimasto, a pensare che, anche dopo quell’ultima sommissione, se Dionisia amava un altro, avrebbe pur risposto di no. La mattina della grande esposizione non aveva ancora preso un partito, e Dionisia se ne sarebbe andata il giorno dopo.
Quando il Bourdoncle entrò, secondo il solito, quel giorno, verso le tre, nello studio del Mouret, lo sorprese con i gomiti sul banco, coi pugni sugli occhi, assorto tanto, che lo dove toccare su una spalla. Il Mouret alzò il viso bagnato di lacrime: si guardarono, e poi si tesero le mani e bruscamente se le strinsero, da uomini che avevan combattuto insieme tante battaglie. Da un mese il Bourdoncle, del resto, aveva mutato parere: s’inchinava dinanzi a Dionisia; anzi, sotto sotto, spingeva il padrone al matrimonio. Certo era indotto a ciò dal timore d’essere spazzato via da una forza che ora era costretto a riconoscere superiore alla sua. Ma anche c’era, in fondo a quel cambiamento, il risvegliarsi d’un’antica ambizione, la speranza, a mano a mano sempre più grande, di scavalcare alla sua volta il Mouret, dinanzi a cui aveva dovuto, per tanto tempo, piegare la schiena. Si sentiva trascinato dall’aria stessa del magazzino, da tutto quel contrasto per l’esistenza che gli riscaldava, a forza di vittime, la vendita intorno: era come preso dal moto della macchina, dall’appetito degli altri, dalla voracità che dappertutto precipitava i piccoli allo sterminio dei grandi. Soltanto una specie di terrore religioso, la religione della ricchezza l’aveva fin allora trattenuto dal mordere. Se il padrone rimbambiva, se stupidamente pigliava moglie, e si rovinava la buona ventura guastando il suo incantesimo sugli avventori, perché lo doveva, lui, trattenere? Era tanto facile, invece, raccoglierne l’eredità quando fosse bell’e finito tra le braccia d’una donna! Perciò con la commozione d’un addio, con la compassione d’un vecchio compagno, strinse le mani al Mouret, ripetendogli:
— Via, coraggio! che diavolo!... Sposatela e fatela finita!
Ma il Mouret si vergognava già di quella sua debolezza. Si alzò, e rispose subito:
— No, no! sarebbe una stupidaggine troppo grossa... Andiamo a fare il nostro giro per i magazzini. La va bene, non è vero? La giornata sarà magnifica.
Uscirono e cominciarono l’ispezione tra la folla. Il Bourdoncle gli dava di traverso delle occhiate, inquieto per quella ultima energia, studiando le sue labbra per sorprendervi le piú piccole contrazioni di dolore.
La vendita infuriava; l’edifizio ne tremava e sussultava come un bastimento lanciato a tutto vapore. Nella sezione di Dionisia si affollavano le mamme con un esercito di bambini e bambine sommersi sotto i vestiti che provavano. La sezione aveva messo in mostra quanta piú roba bianca aveva; e anche lí c’era, come dappertutto, un’orgia di bianco: di che vestire uno sciame di amorini freddolosi; paltoncini di panno bianco, vestitini di «picchè», di nansouck, di casimirra bianca, perfino uniformi da zuavi e marinai tutte bianche. In mezzo, per quanto ancora non fosse la stagione, erano stati disposti a ornamento i vestiti da prima comunione, gli scarpini di raso bianco, una fioritura leggiera che pareva un mazzo enorme d’innocenza e di candida estasi. La Bourdelais, davanti ai suoi bambini messi per ordine d’altezza, Maddalena, Edmondo, Luciano, s’arrabbiava con quest’ultimo, il più piccino, perché non stava fermo mentre Dionisia si sforzava a infilargli una giacchetta di mussolina di lana:
— Sta’ un po’ fermo!... Non sarà un po’ stretta?
E col suo sguardo limpido di donna che non si lascia imbrogliare, esaminava la stoffa, la fattura, e guardava sopra e sotto le cuciture.
— No, no, sta bene! — aggiunse subito — a vestirli, questi piccini, ci vuole una fatica... Ora vorrei un mantello per questa figliuola.
Dionisia, con tutta quella gente, aveva dovuto mettersi anche a vendere. Cercava il mantello, quando diè in un’esclamazione di sorpresa:
— Come! sei tu? che c’è?
Suo fratello, Gianni, le stava dinanzi con un involto nelle mani. Aveva moglie da otto giorni; e il sabato innanzi, la moglie, una brunetta col viso capriccioso e carino, aveva fatto una larga visita al Paradiso delle signore per delle compre. Gli sposi dovevano andare con Dionisia a Valognes, un vero viaggio di nozze; un mese di vacanza nei ricordi del passato.
— Figurati che Teresa s’è scordata d’un monte di cose! — rispose lui. — Bisogna cambiarne alcune e pigliarne altre... E ha mandato me... Ti spiegherò io...
Ma lei l’interruppe, accorgendosi di Beppino:
— To’! e te? e il collegio?
— Come si fa! — disse Gianni — ieri sera, di domenica, non ebbi il coraggio di riportarlo. Lo riporterò stasera... N’ha abbastanza questo povero figliuolo di restar chiuso a Parigi, mentre noi laggiú faremo le belle passeggiate!
Dionisia, per quanto dentro soffrisse, sorrideva. Affidò la Bourdelais a una ragazza, e tornò da loro in un cantuccio della sezione dove c’era un po’ di largo. I piccini, come lei seguitava a chiamarli, erano ormai pezzi di giovinotti. Beppino, che non aveva che dodici anni, era già più alto di lei e piú grosso, sempre zitto e avido di carezze, con una dolce malizia nella tunica di collegiale; Gianni, quadrato di spalle, la superava di tutta la testa, con la sua bellezza di prima, con i capelli biondi ondulati, da operaio artista. Lei, rimasta sottile sottile, uno scricciolo (diceva lei), aveva su loro sempre la sua autorità materna, e li trattava da monelli di cui bisogna aver cura, rabbottonando il soprabito di Gianni perché non avesse l’aria da bellimbusto, e guardando che Beppino avesse il fazzoletto pulito. Quel giorno, quando vide gli occhi ch’egli faceva, lo sgridò dolcemente:
— Abbi un po’ di giudizio, piccino mio. Tu non puoi interrompere gli studi: nelle vacanze ti porterò con me... Vuoi qualche cosa? Vuoi dei soldi, invece?
Poi si volse all’altro:
— Anche te, non si sa che cosa gli metti in capo! gli fai credere che noi si vada là per divertirci... Siate buoni, figliuoli!
Aveva dato al maggiore quattromila franchi, la metà dei suoi risparmi, perché potesse metter su casa. Il minore le costava caro, in collegio: come prima, spendeva tutto per loro: viveva per loro, per loro lavorava, ormai risoluta a non prender marito.
— Ecco qui! — riprese Gianni — prima di tutto, il paltoncino avana che Teresa...
Ma si fermò, e Dionisia, volgendosi per capire perché si fosse interrotto, vide dietro di loro il Mouret. Da qualche secondo la stava a guardare, mentre faceva da mammina, tra quei due giovinotti, sgridandoli e carezzandoli come bambini. Il Bourdoncle era rimasto da parte, come fosse assorto nella vendita, ma non perdeva di vista la scena.
— Son i vostri fratelli, non è vero? — chiese il Mouret dopo un momento di silenzio.
Aveva la sua voce fredda, quell’aria severa che teneva ora con lei. Dionisia faceva anch’essa uno sforzo per non commuoversi. Non seppe piú sorridere e rispose:
— Sí, signore... Ho dato moglie al maggiore, e la moglie me lo manda per delle compre.
Il Mouret seguitava a guardarli tutt’e tre. Poi riprese:
— Il minore s’è fatto grande. Lo riconosco; mi ricordo d’averlo visto una sera alle Tuileries, con voi.
E la voce gli si abbassava e tremò leggermente. Essa, quasi le mancasse il respiro, si chinò fingendo d’accomodare la cintura a Beppino. I due fratelli sorridevano, arrossendo, al padrone della sorella.
— Vi somigliano, — aggiunse il Mouret.
— Oh! son più belli di me! — esclamò lei.
Parve ch’egli esaminasse i volti; ma non ne poteva piú. Che bene lei voleva a quei suoi fratelli! E fece due o tre passi; poi tornò indietro, e le disse in un orecchio:
— Dopo la vendita, passate da me. Vi voglio parlare, prima che ve n’andiate.
Se n’andò e ricominciò l’ispezione. Era da capo sossopra; si arrabbiava d’averle dato quell’appuntamento. Che diavolo d’effetto gli aveva fatto il vederne i fratelli? Pazzo, se non riusciva piú nemmeno a volere quel che voleva! Già, bastava che le dicesse addio. Il Bourdoncle, che l’aveva raggiunto, pareva meno inquieto, studiandolo ancora con la coda dell’occhio.
Dionisia era tornata dalla Bourdelais:
— E questo mantello torna bene?
— Sí, sí, benissimo... Per oggi, basta. Quanto costano questi monelli!
Allora Dionisia poté ascoltare in pace Gianni ed accompagnarlo per le sezioni dove, da sé, avrebbe perduto la testa. Si trattava, prima di tutto, d’un paltoncino avana che Teresa, dopo averci pensato meglio, voleva cambiare con un altro eguale, ma bianco. E Dionisia, preso l’involto, andò coi fratelli alle «vesti».
La sezione aveva esposti tutti i vestiti chiari, giacchette e mantiglie di estate, di seta leggiera o lana di fantasia. Ma c’era poca vendita, e, relativamente, poca folla. Quasi tutte le ragazze erano nuove. Clara era scomparsa da un mese; secondo alcuni, rapita dal marito d’una cliente; secondo altri, finita dove doveva finire. Margherita stava invece per andare a prendere la direzione del negoziuccio di Grenoble, dove l’aspettava il cugino. Soltanto la signora Aurelia restava lí immobile nella corazza rigonfia del vestito di seta, col viso d’imperatrice, giallognolo come un marmo antico. Ma la cattiva condotta del figliuolo la tormentava; e si sarebbe ritirata in campagna, se non fosse stato per le spese pazze di quel gozzovigliatore che minacciava con i suoi denti terribili mangiarsi pezzo per pezzo tutti i beni di Rigolles. Era quasi la rivincita della famiglia distrutta, mentre la madre avea ricominciato le scampagnate colle amiche, e il padre, dal canto suo, seguitava a sonare il corno. Il Bourdoncle guardava di già la signora Aurelia con un’aria scontenta; troppo vecchia per la vendita! doveva presto rintoccare la campana a morto che avrebbe cacciato dal Paradiso la dinastia dei Lhomme.
— Siete voi? — disse ella a Dionisia con una grazia esagerata. — Volete che vi si cambi il paltoncino? Subito... Ah! ecco qui i vostri fratelli: che giovinotti son diventati!
Orgogliosa come era, pur le si sarebbe inginocchiata davanti. Alle «vesti», come dappertutto, non si faceva che discorrere della partenza di Dionisia, e la direttrice si sentiva morire, perché contava sulla protezione della sua antica ragazza. Abbassò la voce:
— Dicono che ve ne andate... È proprio vero?
— Ma sí!
Margherita stava a sentire. Da quando era fissato il suo matrimonio, atteggiava la faccia di latte cagliato a smorfie anche piú annoiate. Si avvicinò, e disse:
— Avete ragione. Prima di tutto l’onore, non è vero?... Addio, cara!
Giunsero delle signore, e la signora Aurelia la pregò duramente di stare attenta alla vendita.
Poi, vedendo che Dionisia pigliava il paltoncino per fare da sé la «resa», non volle a nessun costo, e chiamò una ragazza. Era una delle innovazioni suggerite da Dionisia al Mouret; ragazze apposta portavano la roba, e cosí le addette alla vendita si stancavano meno.
— Accompagnate la signorina, — disse la direttrice dandole il paltoncino; e voltasi a Dionisia: — Per carità, pensateci bene!... Noi siamo tutti disperati che ve ne vogliate andare!
Gianni e Beppino, che aspettavano sorridenti tra tutte quelle donne, si rimisero accanto alla sorella. Bisognava ora andare ai corredi per prendere altre quattro camicie compagne alla mezza dozzina che Teresa s’era comprata il sabato innanzi. Ma tra i banchi della biancheria ci si soffocava, ed era sempre piú difficile andare innanzi.
Alle sottovesti la folla era tutta sossopra. La signora Boutarel, che questa volta era venuta col marito e con la figliuola, andava su e giú per le gallerie fin dalla mattina per comprare a quest’ultima, cui dava marito, il corredo. A ogni compra il babbo doveva dare il suo parere; e non la finivano piú. Finalmente s’eran fermati alla biancheria, e, mentre la signorina era tutta assorta su certe mutande, la mamma era scomparsa per comprarsi un busto. Quando il Boutarel, un omaccione sanguigno, se n’accorse, lasciò la figliuola e si mise a cercarla; la trovò alla fine in uno spogliatoio davanti al quale gli offersero gentilmente una seggiola. Gli spogliatoi erano stanzini stretti, chiusi da cristalli appannati; e gli uomini, neppure i mariti, non vi potevano entrare, per un’esagerazione di decenza stabilita dalla Direzione. Delle ragazze aprivano e chiudevano alla lesta, lasciando ogni volta intravedere, nel rapido moto dell’uscio, donne in camicia e in sottana, colli nudi, braccia nude, carni grasse biancastre, carni magre gialle avorio. Una fila d’uomini aspettavano a sedere, col viso annoiato. Ma il Boutarel, quando ebbe capito, era andato su tutte le furie gridando che voleva la moglie, che voleva sapere che cosa le facevano, che non si doveva spogliare se non c’era lí lui.
Cercavano invano calmarlo; pareva che credesse che là dentro accadessero chi sa che cose! La Boutarel dové venir fuori, mentre la folla discuteva è rideva.
Dionisia poté allora passare con i fratelli. Tutta la biancheria delle donne, quella che non si vede mai, stava lí in mostra in una fuga di sale, secondo le sezioni. Busti e reggiseni leggeri, rigidi e imbottiti, e principalmente quelli di seta bianca, guarniti a colori, di cui quel giorno avevan fatta un’esposizione speciale: un esercito di fantocci senza né capo né gambe, una fila soltanto di dorsi e petti da bambole, stretti sotto la seta, con una lubricità da sogni di convalescente. Accanto, sopra altri bastoni, fianchi di crine e di tarlatana avevano, su quei manichi di granata, profili di caricature. Ma cominciava poi la vera biancheria ch’empiva le sale come se un popolo di ragazzine si fosse spogliato, di sezione in sezione, fino a mostrare nudo il raso della pelle. Qui, gli oggetti minuti, polsini e cravatte bianche, fisciú e colletti, una varietà infinita di cosucce leggiere, una spuma bianca che sfuggiva dalle scatole o svolazzava come neve. Là, camiciole, accappatoi, vesti da camera di tela, di nansouck, trine; lunghi vestiti bianchi, sciolti e sottili, che facevan pensare allo stiracchiamento delle mattinate oziose dopo una notte di amore. E cadevano poi, pezzo per pezzo, le sottane bianche di tutte le lunghezze, quelle che si stringono ai ginocchi, quelle a strascico che spazzano il pavimento; una marea di sottane dove le gambe s’affondavano; le mutande di cambrí, di tela, di «picchè», le mutande bianche nelle quali i fianchi d’un uomo sguazzerebbero; per ultimo le camicie, abbottonate fino al collo per la notte, scollate per il giorno, sorrette soltanto sulle spalle, di semplice cotone, di tela d’Irlanda, di batista; l’ultimo velo bianco che scivola dal petto sui fianchi frementi. Ai corredi c’era da contentare tutte: la borghesuccia che vuole tele unite, la gran signora ravvolta nelle trine; una alcova aperta al pubblico, che, col suo lusso nascosto di merletti e di ricami, diveniva quasi una depravazione sensuale. La donna si rivestiva, il fiotto candido della biancheria rientrava nel mistero fremente delle sottane. La camicia insaldata, le mutande fredde e con le pieghe della scatola, quella mussola, quella batista sparsa sui banchi, gittata qua e là, ammucchiata, stavan per vivere della vita della carne; profumate e calde dell’odor dell’amore; una nuvola bianca divenuta sacra, che col solo far intravedere il lampo rosa d’un ginocchio tra i suoi candori, metteva sossopra il mondo. Veniva poi una stanza per i corredini da neonati, dove il bianco voluttuoso della donna si mutava nel bianco candido del bambino; un’innocenza, una gioia, l’amante che si sveglia madre, camicioline di «picchè» col pelo, berrettine di flanella, camicie e cappellini piccini come da bambole, e vestiti da battesimo, mantellini di casimirra; la peluria bianca della nascita, simile a una pioggia sottile di penne bianche.
— Son camicie infilate col nastrino — disse Gianni, ch’era dolcemente commosso da tutte quelle eleganze.
Quando furono ai corredi, Paolina accorse, subito che vide Dionisia. E, prima d’ascoltarla, la informò, a voce bassa, delle chiacchiere che correvano. Due ragazze s’eran perfino leticate, lí nella sezione, affermando, una di sí, l’altra di no, la partenza di Dionisia.
— Restate, non è vero? ci scommetto la testa!... E che ci farei io, senza di voi?
E sentendosi rispondere che l’amica era invece disposta a andarsene il giorno dopo:
— No, no, voi lo credete, ma io sono sicura del contrario... Dio buono! ora che ho un bambino, mi dovete nominare «aiuto»! Il Baugé ci conta!
E sorrideva convinta. Diede poi le quattro camicie: e perché Gianni diceva che dovevano andare ai fazzoletti, chiamò anche lei una ragazza per portare il paltoncino e le camicie. La ragazza che si presentò era la già signorina de Fontenailles, sposata da poco con Giuseppe. Aveva ottenuto, per grazia particolare, quel posto di serva, ed aveva un gran grembiale nero e sulla spalla un numero di lana gialla.
— Prendete, signorina, — le disse Paolina. Poi, riabbassando la voce:
— Dunque, ci siamo intese: son «aiuto» io!
Dionisia si difendeva come poteva; poi, per rispondere allo scherzo con uno scherzo, promise, e se n’andò con i fratelli, seguita dalla ragazza.
Nel pianterreno si trovarono in mezzo alle lane, un angolo della galleria tappezzato tutto di flanelle bianche. Il Liénard, che il padre richiamava invano ad Angers, stava discorrendo col bel Mignot, che era divenuto rappresentante, e osava sfacciatamente capitare ogni tanto al Paradiso. Parlavano certo di Dionisia, perché si chetarono subito e la salutaron ossequiosamente: cosí facevano, del resto, tutti gl’impiegati, a mano a mano ch’ella passava, non sapendo che cosa sarebbe ella stata il giorno dopo. Sussurravano, e dicevano che aveva l’aria di trionfo: le scommesse se ne risentirono, e si ricominciò ad arrischiare su lei vino d’Argenteuil e fritture.
Dionisia era entrata nella galleria della biancheria per andare ai fazzoletti che erano in fondo. Il bianco continuava: bianco di cotone, di madapolam, di bazin, di «picchè»; bianco di filo, di mussolina, di tarlatana; poi venivan le tele, in enormi pilastri, costrutti a forza di pezze alternate come fossero pietre, tele forti, tele fini, di tutte le altezze, bianche o gregge, di lino puro, imbiancate sui prati; e poi ancora altre sezioni per ogni sorta di biancheria; biancheria da casa, biancheria da tavola, biancheria da cucina, lenzuoli, federe, tovaglioli d’ogni specie, asciugamani, grembiali, canovacci. I saluti continuavano; tutti si tiravan da parte al passare di Dionisia; il Baugé era accorso alle tele per sorriderle come alla buona regina del magazzino. Finalmente dopo le coperte, ch’empivano di bianche bandiere una sala intera, giunse ai fazzoletti che, ingegnosamente disposti, facevan stupire la folla. Erano bianche colonne, piramidi bianche, castelli bianchi, tutti di fazzoletti, di lino, di batista, di tela d’Irlanda, di seta della Cina, con le cifre, coi ricami, con la trina, con gli orli traforati, e figure tessute, una vera città di mattoni bianchi, d’infinita varietà, intravista in un miraggio su un candido cielo orientale.
— Un’altra dozzina? — domandò Dionisia al fratello. — Come sono?
— Guarda, come questo — rispose Gianni mostrando un fazzoletto.
Tanto lui che Beppino non le si staccavano dalle gonnelle, stringendosi a lei come quando erano arrivati a Parigi stanchi del viaggio. Quei grandi magazzini dove essa era come in casa sua, li turbava: e le restavano ai fianchi rimettendosi sotto la protezione della loro mammina, per un istintivo risveglio dell’infanzia. Tutti guardavano, sorridendo, quei due pezzi di giovinotti andar dietro a quella giovinetta gracile e seria, Gianni, con tanto di baffi, spaurito, e Beppino sperso nella sua tunica, tutt’e tre biondi a un modo, d’un biondo che faceva dire mentre costoro passavano, ai commessi:
— Sono i suoi fratelli... Sono i suoi fratelli!
Ma, mentre Dionisia cercava una della vendita, accadde un incontro.
Il Mouret e il Bourdoncle entravano nella galleria; ed ecco che la Desforges e la Guibal vennero a passare quando egli si fermava da capo dinanzi alla giovinetta, senza, del resto, dirle una parola. Enrichetta represse un sussulto: guardò il Mouret, guardò Dionisia: anch’essi l’avevan guardata, e fu quella la fine, la fine comune ai drammi del cuore, un’occhiata scambiata tra gli urti d’una folla. Il Mouret s’era già allontanato; Dionisia si perdeva in fondo alla sezione con i suoi fratelli, sempre in cerca d’una ragazza che fosse libera. Allora Enrichetta, che aveva riconosciuta la de Fontenailles con la cifra gialla sulla spalla e il viso grosso e terreo da serva, si sfogò, dicendo con voce tremante alla Guibal:
— Guardate a che ha ridotto quella disgraziata!... Non fa rabbia? Una marchesa! E l’obbliga a seguir come un cane le sgualdrine che trova per la strada!
Cercò di calmarsi, e aggiunse con una finta aria di indifferenza:
— Vieni, andiamo un po’ a vedere l’esposizione delle sete!
La sezione delle sete era come una gran camera d’amore, tappezzata di bianco dal capriccio d’una amante bianca come la neve, che volesse con la neve gareggiar di candore. Tutti i lattei pallori d’un corpo adorato si trovavano là: dal velluto delle reni sino alla morbida seta delle cosce e al raso splendente del petto. Pendevano dalle colonne velluti; sete e rasi spiccavano su quel fondo di bianco crema, in drappeggiamenti d’un bianco di metallo e di porcellana; e v’erano anche festoni di sete e foulards digradanti dal bianco plumbeo d’una bionda norvegese al bianco trasparente riscaldato dal sole, d’una italiana o d’una spagnola di capelli rossi.
Il Favier stava misurando della stoffa bianca per la «bella signora», la bionda elegante che i commessi chiamavano sempre a quel modo. Da anni ella veniva al banco, e non sapevano ancora né chi fosse né dove stesse: nessuno, del resto, cercava di saperlo, sebbene ogni volta, cosí per discorrere, ciascuno facesse la sua brava supposizione. Dimagrava, ingrassava, aveva dormito bene, doveva essere andata la sera innanzi a letto tardi; ed ogni fatterello della sua vita ignota, avvenimenti esterni, drammi interni, eran cosí nel magazzino commentati e ricommentati a forza di fantasia. Quel giorno pareva assai allegra. Perciò, quando il Favier tornò dalla cassa dove l’aveva accompagnata, espose le sue riflessioni all’Hutin:
— Deve stare per riprender marito.
— Dunque è vedova?
— Non lo so... ma vi dovete rammentare che, la volta passata, era in lutto... A meno che non abbia guadagnato alla Borsa!
E dopo un poco concluse:
— Già, questo è affar suo... Se si conoscessero tutte le donne che capitano!
Ma l’Hutin era sopra pensiero. Due giorni innanzi aveva avuto che dire con la Direzione, e si sentiva bell’e condannato. Dopo l’esposizione era sicuro d’esser mandato via. Da un bel pezzo tentennava; all’ultimo inventario gli avevano rimproverato di non avere raggiunta la somma d’affari data dal preventivo; ma principalmente era sospinto fuori da tutti gli altri con la solita guerra nascosta della sezione. Si sentiva il lavoro, sotto sotto, del Favier, un gran rumore di mascelle, come di sotterra. II Favier sapeva già che sarebbe diventato il capo, e l’Hutin, che non ignorava ciò, in cambio di schiaffeggiarlo, lo aveva ora in conto d’uomo che sa fare. Un giovane tanto freddo! e che aria obbediente aveva saputo prendere per rovinare il Robineau e il Bouthemont! n’era sorpreso, non senza un po’ di rispetto.
— A proposito... — riprese il Favier — lei resta, sapete! Il padrone le ha fatto certi occhi... Io ci rimetto una bottiglia di champagne.
Parlava di Dionisia. Da un banco all’altro le chiacchiere passavan piú forti tra la folla sempre piú densa degli avventori. Le «sete» si mostravano piú di tutto il resto commosse, perché le scommesse erano alte.
— Per Bacco! — scappò detto all’Hutin, come se si svegliasse da un sogno. — Che bestia sono stato a non andare a letto con lei!... Oggi sí, che sarei in auge!
Ma arrossi della confessione, vedendo che il Favier rideva; e aggiunse, per rimediare alla meglio, ch’era stata lei quella che l’aveva rovinato nell’animo del padrone. Preso insieme da un bisogno di violenza, finí con lo scagliarsi contro i commessi dispersi sotto l’assalto degli avventori; si chetò e si rimise a ridere vedendo la Desforges e la Guibal che traversavano adagio adagio la sezione.
— Ha bisogno di qualche cosa la signora?
— No, grazie, rispose Enrichetta. — Passeggio; son venuta soltanto per vedere.
Quando l’ebbe fermata, abbassò la voce; aveva subito pensato un bel tiro. E cominciò ad adularla e a dir male del magazzino: n’aveva abbastanza, preferiva andarsene, piuttosto che trovarsi dell’altro tra quel disordine. Lei lo stava a sentire, tutta contenta; e fu lei che, credendo di fare un dispetto al Paradiso, gli offrí di farlo pigliare dal Bouthemont, come capo delle sete, non appena le Quattro Stagioni fossero rimesse su. L’affare fu concluso; tutt’e due sussurravano pian piano, mentre la Guibal guardava le mostre.
— Posso offrire alla signora uno di questi mazzolini? — riprese l’Hutin a voce alta, mostrando su una tavola tre o quattro mazzolini che s’era fatti dare per regalarli personalmente.
— No, no! — esclamò Enrichetta, dando addietro — non voglio essere davvero della festa!
S’intesero, e si separarono, ridendo da capo, con occhiate d’intelligenza.
Nel voltarsi, la Desforges vide la Guibal e la Marty: questa, con la sua Valentina, correva da due buone ore per i magazzini, spendendo a rotta di collo fino a restarne lei stessa sbalordita e spossata. Era stata alla mobilia, dove un’esposizione di mobili di lacca bianca pareva una grande camera da giovinetta, ai nastri e agli sciallini che formavano bianchi colonnati drappeggiati di veli bianchi, alle mercerie disposte in ingegnosi trofei, costrutti pazientemente a forza di cartine d’aghi e carte di bottoni; ma la gente faceva ressa principalmente alle maglie, dove il nome del Paradiso delle signore si leggeva in lettere alte tre metri, fatte di calze bianche su un fondo di calze rosse. La Marty era eccitata soprattutto dalle sezioni nuove; non potevano aprire una sezione senza ch’ella l’inaugurasse; vi si precipitava, e comprava a ogni costo. Aveva passata un’ora intera tra i cappelli da donna, messi in una sala nuova del primo piano, facendo votare gli armadi, prendendo i cappelli dalle grucce di legno lucido che ornavano due tavole, provandoli tutti a sé e alla figliuola, i cappelli bianchi, le calottine bianche, i berrettini bianchi. Poi era ridiscesa alle scarpe, in fondo a una galleria del pianterreno; là avevano aperta quel giorno la sezione, ed essa buttò all’aria le vetrine, presa da un desiderio convulso davanti alle pantofole di seta bianca ricamata di cigni, scarpini e stivaletti di raso bianco con tacchi altissimi alla Luigi XV.
— Oh, — diceva fuori di sé — oh, se vedeste! Hanno un assortimento di cappelli straordinario. Ne ho presi uno per me ed uno per Valentina... E le scarpe!... Che scarpe, eh, Valentina?
— Da non credere! — aggiunse la ragazza con la sua aria di donna. — Ci sono stivaletti da venti franchi e mezzo! Che stivaletti!
Un commesso teneva loro dietro con la solita seggiola piena zeppa d’ogni sorta d’oggetti.
— Come sta il signor Marty? — chiese la Desforges.
— Un po’ meglio, credo! — rispose la Marty, turbata da quella domanda improvvisa, che cadeva malignamente sulla sua febbre spendereccia. — È sempre laggiú; lo zio deve essere andato a vederlo stamattina...
Ma s’interruppe con un’esclamazione d’estasi:
— Dio! è una meraviglia!
Le signore avevan fatto qualche passo, e si trovavano davanti alla nuova sezione di fiori e penne, posta nella galleria di mezzo, tra le sete e i guanti. Sotto la luce viva che pioveva dall’invetriata, fioriva un mazzo enorme, alto e largo come una quercia. In fondo, viole, mughetti, giacinti, margherite, tutti i candori delicati delle aiuole: quindi i mazzolini salivano, rose bianche sfumate di carnicino, grosse peonie bianche, colorate appena appena di carminio, crisantemi bianchi in getti leggieri, costellati di giallo. E i fiori continuavano a lanciarsi, mistici gigli, rami di melo primaverile, ciuffi di lillà profumato, una fiorita, insomma, che si stendeva, ed era sormontata, all’altezza del primo piano, da pennacchi di penne di struzzo, penne bianche ch’erano come l’alito soffiato da quel popolo di bianchi fiori. In un canto, guarnizioni e ghirlande di fior d’arancio. C’erano anche fiori metallici, cardi d’argento. Tra le foglie e sulle corolle, in mezzo a tutta quella mussolina, seta, velluto, su cui gocce di gomma raffiguravano gocce di rugiada, volavano uccelli delle Isole, per cappelli, i tangara purpurei, con la coda nera, e i settecolori con le penne cangianti come l’arcobaleno.
— Mi compro un ramo di melo — disse la Marty. — È stupendo, non è vero?... E quell’uccellino!... Guarda, Valentina! Oh! me lo compro!
La Guibal s’annoiava a starsene immobile tra la ressa della folla, e disse alla fine:
— Vi lasciamo comprare in pace; si va su, noi.
— No, no, aspettatemi! — esclamò l’altra. — Vengo anch’io... Su c’è la profumeria. Bisogna che ci passi io pure.
La sezione dei profumi, aperta da poco, era accanto alla sala di lettura. La Desforges, per schivare la calca delle scale, propose di prendere l’ascensore; ma vi dovettero rinunziare, tanta gente aspettava dinanzi alla macchina. Finalmente arrivarono e passarono davanti alla stanza dei liquori, dove un ispettore s’era dovuto fermare a frenar l’ingordigia dei clienti, non lasciandoli entrare che pochi per volta. Già si sentiva un profumo acuto che si spandeva nella galleria. Tutti volevano un sapone, il sapone «Paradiso», la specialità del magazzino. Sui banchi, per le vetrine e nelle tavolette di vetro degli scaffali, stavano in fila i vasetti delle pomate e delle creme, le scatole delle ciprie e dei belletti, le boccette degli olii e delle acque; in un armadio apposta erano esposti i pettini, le spazzole fini, le forbicine, le boccettine da tasca. I commessi avevan cercato d’ornare la mostra con quanti vasetti di porcellana bianca avevano, e con tutte le boccette di vetro bianco. La meraviglia della sezione era però una fontana d’argento, una pastorella a sedere tra mucchi di fiori; e ne zampillava continuamente acqua di violette, che nel bacino di metallo risonava armonicamente. Un olezzo squisito si spandeva intorno; le signore vi bagnavano, nel passare, i loro fazzoletti.
— Ecco fatto! — disse la Marty, quando si fu comprata una bottega intiera di colonie, ciprie e cosmetici. — Sono con voi! Andiamo a cercare della signora De Boves.
Ma sul pianerottolo dello scalone di mezzo la roba giapponese le fermò da capo. Dal giorno che il Mouret s’era divertito a far vendere in quello stesso posto gingilli da nulla, senza prevedere, nemmen lui, l’enorme favore del pubblico, la sezione s’era svolta e ingrandita. Poche sezioni erano nate cosí modestamente: ora ostentava vecchi bronzi, vecchi avori, vecchie lacche, facendo per molte migliaia di franchi d’affari all’anno, e frugando tutto l’Estremo Oriente, dove dei viaggiatori penetravano apposta nei palazzi e nei templi. Delle sezioni, del resto, ne nascevano sempre; due nuove n’erano state messe in dicembre, per nascondere i vuoti fatti dalla morta stagione d’inverno, libri e balocchi; e l’una e l’altra eran certo destinate a crescere a dismisura e uccidere altri negozianti del vicinato. In quattro anni la sezione giapponese s’era acquistata tutta la clientela artistica di Parigi.
Per quanto la Desforges si fosse proposta, nel suo rancore, di non comprar nulla, quella volta cedette anche lei alla tentazione d’un avorio di squisita fattura:
— Mandatemelo a casa — disse lesta lesta, come stizzita della sua debolezza. — Novanta franchi, non è vero?
E vedendo le Marty madre e figlia assorte nella scelta di certe porcellane da poco prezzo, disse loro, portando via con sé la Guibal:
— Ci ritroveremo nella sala di lettura... Sono stanca morta; mi voglio mettere un po’ a sedere.
Ma nella sala di lettura non trovarono una seggiola vuota. Intorno alla tavola coperta di giornali, alcuni stavano a leggere, con la pancia in fuori, senza aver la cortesia di far posto. Delle donne scrivevano, col viso sul foglio, come per nasconderlo sotto i fiori dei cappelli. La De Boves non c’era; ed Enrichetta perdeva già la pazienza, quando vide il Vallagnosc che cercava anche lui la moglie e la suocera. Salutò, e disse:
— Devono essere alle trine... Non sanno staccarsene mai... Vado a vedere.
Ma prima d’andare, ebbe la gentilezza di procurar loro due seggiole.
Alle trine la folla cresceva ogni minuto. La grande esposizione del bianco vi trionfava nei candori piú delicati e costosi: era la tentazione acuta, la follia del desiderio: e le donne vi resistevano male. La sezione pareva trasformata in una cappella bianca. Veli e trine, cadendo dall’alto, facevano un cielo bianco, uno di quei veli di nuvole che con la loro rete sottile tolgono forza e fiamma ai raggi del sole mattutino. Intorno alle colonne scendevano gale di malines e valenciennes, come bianche gonnelle di ballerine, cadute con un fremito bianco fino a terra. Poi, da tutte le parti, su tutti i banchi, il bianco veniva giú a fiocchi: trine spagnuole leggiere come un soffio, le «applicazioni» di Bruxelles con i loro fiori aperti sulle maglie fini, i punti a ago e i merletti di Venezia con i loro disegni piú gravi, le trine di Alençon e quelle di Bruges, d’una ricchezza regale, quasi religiosa. Pareva che il Dio della civetteria avesse quivi il suo bianco tabernacolo.
La De Boves, intanto, dopo avere a lungo passeggiato con la figliuola, ronzando intorno alle mostre, col bisogno sensuale di ficcare le mani tra le stoffe, alla fine s’era fatta mostrare dei merletti d’Alençon, dal Deloche. Prima egli le aveva messo innanzi certe imitazioni, ma lei volle il vero Alençon; e non si contentava delle guarnizioni da trecento franchi il metro, ma esigeva trine da mille, fazzoletti e ventagli da sette e ottocento. Dopo poco, il banco era coperto da un intero tesoro. In un angolo della sezione il Jouve, che non aveva mai perduto di vista la De Boves, sebbene essa sembrasse girare soltanto per divertirsi, se ne stava immobile tra le spinte, con un’aria indifferente, ma sempre con gli occhi addosso a lei.
— E scialletti di trina buona ce n’avete? — domandò la contessa al Deloche — fatemeli vedere!
Il commesso, tenuto oramai da venti minuti, non osava resistere, tanto ella aveva apparenza e voce da principessa. Con tutto ciò esitò un poco, perché ai commessi raccomandavano sempre di non ammonticchiare cosí sul banco le trine di prezzo; e anche la settimana innanzi, s’era lasciato rubare dieci metri di malines. Ma lei gli dava soggezione, e cedette, lasciando un istante le trine d’Alençon per prendere in uno scaffale, dietro alle sue spalle, gli scialletti.
— Guarda un po’, mamma, — diceva Bianca, che frugava accanto a lei una scatola piena di valenciennes da poco — per i guanciali si potrebbero prendere di queste!
La De Boves non rispondeva. Allora la figliuola, voltandosi, vide la mamma che, con le mani tuffate nelle trine, cercava fare sparire, nella manica del suo mantello, trine d’Alençon. Non sembrò sorpresa, e si fece innanzi per nasconderla, con un moto istintivo; quando il Jouve, a un tratto, fu tra le due e, chinandosi, mormorò all’orecchio della contessa, con voce cortese:
— Prego la signora di seguirmi.
Ella per un momento si ribellò:
— Perché?
— Prego la signora di seguirmi — ripeté l’ispettore senza alzar la voce.
Col viso stravolto d’angoscia, essa diede una rapida occhiata intorno, poi si rassegnò, e riprese il suo fare da signora camminando accanto all’ispettore come una principessa che si degni affidarsi a un aiutante di campo. Nessuno s’era accorto di nulla. Il Deloche, tornato davanti al banco con gli sciallini in mano, la guardava portar via, stupefatto: come! anche lei? quella signora tanto nobile! bisognava frugarle, allora, tutte fino a una! Bianca, lasciata libera, seguiva da lontano la mamma, in mezzo alla gente; livida, combattuta tra il dovere di non abbandonarla e il terrore d’esser presa anche lei. La vide entrare nello studio del Bourdoncle, e si contentò d’aspettarla lí fuori.
Il Bourdoncle, da cui il Mouret s’era allora potuto spiccicare, era per l’appunto nella sua stanza: di solito toccava a lui dar sentenza su quei furti commessi da persone «per bene». Da parecchio tempo il Jouve gli aveva parlato dei suoi sospetti sulla De Boves, e per ciò non fu punto meravigliato quando l’ispettore gli riferí il fatto. Del resto gliene passavano davanti agli occhi tanti dei casi strani, che credeva le donne capaci di tutto quando son prese dalla pazzia del lusso. Sapendo che il direttore conosceva la signora, fu con lei garbatissimo:
— Signora, noi scusiamo questi momenti di debolezza... Ma, ve ne supplico, pensate un po’ dove una cosí fatta dimenticanza di voi stessa vi potrebbe condurre. Se vi avesse visto qualcun altro prendere le trine e...
Ma lei l’interruppe indignata. Lei una ladra! per chi la pigliavano? Era la contessa De Boves! il suo marito era ispettore generale degli stalloni! era ricevuto a corte!
— Lo so, lo so, signora rispondeva con tutta pace il Bourdoncle. — Ho l’onore di conoscervi... Ma cominciate dall’aver la bontà di tirar fuori le trine che avete addosso...
Lei ricominciò a gridare, senza lasciargli dire una parola, bella nella sua furia, osando perfino piangere come una gran signora oltraggiata. Chiunque altro sarebbe stato commosso e avrebbe temuto uno sbaglio deplorevole, perché lei lo minacciava perfino di rivolgersi ai tribunali per vendicarsi d’una tanta ingiuria:
— Pensate a quel che fate! il mio marito andrà anche dal ministro!
— Via, via! siete come le altre! — disse alla fine il Bourdoncle non sapendosi piú frenare.
— Lo volete proprio? vi frugheranno.
Lei non si scosse; anzi, come sicura di sé, rispose superbamente:
— Sta bene, frugatemi... Ma, ve l’avverto, correte un gran rischio.
Il Jouve andò a cercare due ragazze. Quando tornò, avvertí il Bourdoncle che la figliuola di quella signora non si moveva di sull’uscio; e gli chiese se la doveva acciuffare anche lei, sebbene non le avesse visto prender nulla.
Ma il Bourdoncle, per usare tutti i riguardi, disse che non era il caso di farla entrare, in nome della morale, per non costringere una madre ad arrossire in faccia alla figliuola. I due uomini se n’andarono intanto in una stanza vicina, mentre le ragazze frugavano la contessa e le levavano perfino il vestito per guardarle nel seno e nei fianchi. Oltre le trine d’Alençon, dodici metri da mille franchi l’uno, nascosti in fondo a una manica, le trovarono in seno, caldi e compressi, un fazzoletto, un ventaglio, una cravatta; in tutto un quattordicimila franchi di trine. Da un anno la De Boves rubava cosí, spinta da un bisogno maniaco, irresistibile. Il male si faceva sempre piú acuto, fino a diventare una voluttà necessaria alla sua vita, disperdendo tutti i ragionamenti della prudenza, appagando la smania con un godimento piú acre perché ella arrischiava sotto gli occhi di tutti il suo nome, il suo orgoglio, l’alto posto del marito. Ora che il marito le lasciava votare le cassette, lei rubava con le tasche piene di denaro, rubava per rubare, come si ama per amare, frustata dal desiderio, nel convulso dei nervi che le cupidigie del lusso non mai soddisfatte avevano eccitato in lei, tra l’enorme e brutale tentazione dei grandi magazzini.
— È un tranello! — esclamò lei quando il Bourdoncle e il Jouve tornarono. — Mi han messo addosso le trine! lo giuro davanti a Dio!
Piangeva lacrime di rabbia, caduta su una seggiola, sentendosi soffocare nel vestito mal riabbottonato. Il Bourdoncle mandò via le ragazze; poi, pacatamente:
— Noi vogliamo, signora, abbuiare la cosa per riguardo alla vostra famiglia. Ma innanzi dovete firmare un foglio che dica cosí: «Ho rubato delle trine al Paradiso delle signore» coi particolari delle trine e la data... Del resto vi renderò il foglio, non appena mi porterete duemila franchi pei poveri.
S’era rialzata e, ribellandosi da capo, esclamò:
— Non firmerò mai un foglio cosí: piuttosto morire!
— Non morirete, signora... ma vi prevengo che mando a chiamare il commissario di polizia.
Ci fu allora una scena da far male a vederla. Lei gli lanciava insolenze e balbettava ch’era una vigliaccheria tormentare cosí una donna. La sua bellezza da Giunone, il bel corpo maestoso, trasalivano in una furia da pescivendola. Poi volle tentare la commozione e cominciò a supplicare tutt’e due in nome delle madri loro, parlando: perfino di trascinarsi ai loro piedi. Ma vedendo che restavan freddi, ormai avvezzi a scene tali, senza mettersi a sedere scrisse con mano febbrile. La penna scricchiolava. Le parole: «Ho rubato », calcate rabbiosamente, quasi sfondaron la carta. E ripeteva intanto con voce strozzata:
— Ecco, signore; ecco qui, signore... Cedo alla forza...
Il Bourdoncle prese il foglio, lo ripiegò con gran cura, e lo chiuse in una cassetta, dicendo:
— Vedete che non è solo; perché le signore, dopo aver detto di voler morire piuttosto che firmare, si scordano poi, quasi tutte, di venire a riprendersi questi bigliettini dolci. Insomma, è qui a vostra disposizione; penserete voi se vale duemila franchi.
Lei finiva di raccomandarsi; e, ora che aveva pagato, ripigliava tutta la sua arroganza:
— Posso andare? — domandò alla fine, seccamente.
Il Bourdoncle s’occupava già d’un altro affare. Dopo il rapporto del Jouve, mandava via il Deloche, quello stupido che si lasciava sempre rubare, e non si imponeva punto alle clienti. La De Boves ripeté la domanda, e vedendosi congedata con un gesto, li avvolse tutt’e due di un’occhiata velenosa. Voleva dire chi sa quante cose; ma non trovò lí per lí che un grido da melodramma:
— Miserabili! — disse, lanciando un’occhiata.
Bianca intanto non s’era allontanata dallo studio. Non sapendo ciò che accadeva là dentro, vedendo andare e venire il Jouve e le ragazze, era sconvolta e vedeva già i gendarmi, la Corte d’Assise, la prigione. Ma restò a bocca aperta quando si vide innanzi il Vallagnosc, quel suo marito da appena un mese, che la turbava ancora quando le dava del tu. Meravigliato del suo stupore, si mise a interrogarla:
— Dov’è la mamma?... Vi siete sperse?... Via, rispondimi; non mi far paura!
Non le riuscí inventare nemmeno una bugia un po’ a garbo, e nel suo smarrimento gli sussurrò tutto:
— La mamma, la mamma... ha rubato!
— Come! rubato?
Alla fine, capí. Il viso livido della moglie lo spaventava.
— Delle trine, qui, nella manica, — seguitava lei, balbettando.
— E tu l’hai vista? la stavi a guardare? — mormorò, sentendosi gelare il sangue nel vederla complice.
Ma si doverono chetare; già qualcuna si voltava. Un’esitazione piena d’angoscia tenne il Vallagnosc immobile per un istante: che fare? E stava per entrare dal Bourdoncle, quando vide il Mouret che attraversava la galleria. Disse alla moglie d’aspettarlo, e, afferrato il braccio del suo vecchio compagno di scuola, lo mise in poche interrotte parole al corrente. Il Mouret si affrettò a condurlo nel suo studio, dove lo calmò su ciò che poteva accadere, assicurandolo che non c’era bisogno ch’egli intervenisse, e spiegandogli come le cose dovevano andare di sicuro, senza mostrarsi punto sorpreso da quel furto, come se l’avesse previsto da gran tempo. Ma il Vallagnosc, quando non ebbe piú a temere un arresto lí su due piedi, non accettò il caso con quella tranquillità. S’era gettato su una poltrona, e, ora che poteva ragionare, si diffuse in lamenti per suo proprio conto. Era mai possibile? Eccolo dunque entrato in una casa di ladre! Bel matrimonio aveva fatto, per compiacere il padre!
Il Mouret, meravigliato per quello sfogo da bambino malato, lo stava a guardare rammentandosi come fin allora s’era atteggiato a pessimista. Non gli aveva sentito ripetere mille volte che la vita è nulla, e che soltanto il male ha in sé un po’ di piacere? Cosí, tanto per distrarlo, si divertí per un momento a predicargli l’indifferenza, scherzando da amico. Ma il Vallagnosc andò sulle furie: che gl’importava della sua filosofia? tutta la sua educazione borghese tornava a galla in oneste invettive contro la suocera. Non appena egli era tocco dall’esperienza, non appena le miserie umane lo sfioravano, quelle miserie di cui egli sogghignava, lo scettico vantatore s’accasciava e sanguinava. Era una vergogna trascinare cosí nel fango l’onore della famiglia! Pareva che dovesse cascare il mondo.
— Calmati! calmati — concluse il Mouret, un po’ commosso. — Non ti dirò piú che tutto ciò che accade è nulla, una volta che questo non pare ti consoli abbastanza, nel momento presente. Ma credo che tu dovresti andare ad offrire il braccio alla signora De Boves, e sarà molto meglio che fare uno scandalo... Diavol mai! tu che avevi la calma del disprezzo davanti alla furfanteria universale?
— Lo credo io! — esclamò ingenuamente il Vallagnosc — quando queste cose accadono agli altri!
S’era alzato, e fece come gli aveva consigliato l’amico. Tornavano appunto tutt’e due nella galleria, quando la De Boves uscí dallo studio del Bourdoncle. Essa accettò con maestà il braccio del genero; e il Mouret, nel farle un saluto cortesemente rispettoso, la sentí che diceva:
— Li ho costretti ben io ad accorgersi dell’errore! Davvero son cose spaventose! Non dovrebbero accadere!
Bianca li aveva raggiunti, e teneva lor dietro. Sparvero lentamente nella folla.
Allora il Mouret, solo e pensieroso, fece un altro giro per i magazzini. Quella scena l’aveva distratto dal combattimento che lo lacerava. La febbre gli cresceva costringendolo alla battaglia suprema. Il suo pensiero corse da una cosa all’altra: il furto di quella disgraziata, quell’ultima frenesia della clientela conquistata, domata ai piedi del tentatore, evocò l’immagine altera e vendicatrice di Dionisia, di cui si sentiva sulla gola il calcagno vittorioso. Si fermò in cima alla scala di mezzo, a guardare l’immensa navata dove s’accalcava il suo popolo di donne.
Stavano per sonare le sei; il giorno che tramontava si ritirava dalle gallerie già buie, impallidiva in fondo alle sale invase lentamente dalle tenebre. E in quel chiarore, non ancora tutto spento, s’accendevano a una a una le lampade elettriche, che coi loro globi di candore opaco costellavano, come lune, le profondità lontane delle sezioni. Era una luce bianca, fissa, abbacinante, diffusa come il riflesso d’un astro scolorito, e che uccideva il crepuscolo. Poi, quando furono accese tutte, la folla ebbe un mormorio d’ammirazione, perché la grande esposizione del bianco prendeva uno splendore magico d’apoteosi sotto la nuova luce. Parve che tutto quel bianco ardesse anch’esso, e che si facesse luce.
Il cantico del bianco saliva nel candore infiammato d’un’aurora. Dalle tele e dai cotoni della galleria Monsigny sorgeva un candido chiarore simile alla striscia luminosa che per la prima, dalla parte d’oriente, rischiara il cielo: e, lungo la galleria Michodière, la merceria e i nastri, gli oggetti di Parigi e i passamani, gittavano riflessi di lontani declivi, il lampo bianco dei bottoni di madreperla, dei bronzi inargentati, delle perle. Ma la navata di mezzo cantava piú delle altre il bianco vivo: gli sbuffi della mussolina bianca intorno alle colonne, i «picchè » bianchi che ammantellavano le scale, le coperte bianche ondeggianti come bandiere, le trine e i merletti che volavan per l’aria, schiudevano un firmamento da sogno, lasciavano intravedere un paradiso dove si celebrassero le nozze dell’ignota regina. La sezione delle sete n’era quasi l’alcova immensa, con le tende bianche, i veli bianchi, che col loro splendore coprivano dagli sguardi la candida nudità della sposa. Era un accecamento, un bianco di luce in cui tutti i bianchi si perdevano, un polviscolo di stelle fioccante bianco nel bianco chiarore.
E il Mouret continuava a guardare il suo popolo di donne, tra quei fiammeggiamenti. Ombre nere spiccavano su fondi pallidi: la folla cominciava ad avviarsi verso le uscite; la febbre di quella grande giornata di vendita passava come una vertigine, sommovendo la marea disordinata delle teste. Le stoffe, come messe a sacco, eran sparse per le sezioni; l’oro tintinnava nelle casse; la clientela, spogliata, quasi violata, se ne andava sfinita, con la voluttà che aveva terminato di sfogarsi, e la sorda vergogna d’un desiderio appagato in fondo a un postribolo. Cosí, la donna egli se l’era fatta propria, cosí la teneva in suo potere, col continuo ammucchiar merci, coll’abbassare i prezzi, con le «rese», con la cortesia, con la pubblicità. Aveva conquistate perfino le madri, e regnava su tutte, da despota brutale che a capriccio buttasse all’aria le famiglie. Aveva creato, e n’era nata una nuova religione; alle chiese, a poco a poco disertate dalla fede venuta meno, egli aveva sostituito il bazar che non doveva esser vinto mai.
La donna veniva a passare nel suo magazzino le ore in cui non sapeva che fare, le ore frementi e inquiete che passava prima in fondo alle cappelle: ed era lo sfogo necessario della passione nervosa, la battaglia rinascente d’un Dio contro il marito, il culto continuamente rinnovellato del corpo con la divina metafisica della bellezza. Se avesse chiuso il magazzino, ci sarebbe stata una rivoluzione, il grido spaurito delle devote cui fossero tolti confessionale e altare. Nel loro lusso, che da dieci anni si faceva sempre maggiore, le vedeva, per quanto già fosse tardi, correre ancora su e giú per le scale e per i ponti. La Marty e la figliuola, in cima, vagavano tra i mobili, la Bourdelais, trattenuta dai bambini, non si poteva piú spiccicare dagli oggetti di Parigi. Poi veniva una schiera; la De Boves sempre a braccetto del Vallagnosc, che, con dietro la Bianca, si fermava ad ogni sezione osando guardare ancora le merci con aria superba. Ma fra tutta quella gente, in quel mare di donne ardenti di moto e desiderio, fiorite di mazzolini di viole come per le nozze d’una regina festeggiata dal popolo, non distinse piú alla fine che la Desforges. S’era fermata ai guanti, con la Guibal. Per quanto odiasse, essa pure comprava, e il Mouret si sentí ancora una volta dominatore: in quello sfolgorío della luce elettrica, egli le teneva ai suoi piedi, le donne, come una greggia da cui avesse munta ricchezza.
Sopra pensiero si mise a percorrere le gallerie, tanto assorto da non accorgersi delle spinte, tra la folla. Quando alzò gli occhi, era nella nuova sezione dei cappelli, che dava sulla Via Dieci Dicembre. Appoggiò la fronte ai cristalli, e si mise a guardare l’uscita. Il sole, che stava per nascondersi, tingeva di giallo la cima delle case; il cielo azzurro di quella giornata imbruniva, rinfrescato da un alito puro di vento: nel crepuscolo che già copriva la strada, le lampade elettriche del Paradiso delle signore gettavano quel raggio che han le stelle accese sull’orizzonte quando il giorno declina. Verso l’Opéra e la Borsa si stendeva la triplice fila dei legni immobili che nell’ombra mettevano lo scintillio dei finimenti, il chiarore delle lanterne. Ogni minuto, un garzone in livrea chiamava, e un legno si faceva innanzi; vi montava su la signora, e se n’andava rapidamente. Le file diminuivano sempre; sei vetture alla volta correvan via, tenendo intera la strada, tra gli sportelli sbattuti, lo schioccar delle fruste, il sussurro dei pedoni, che si versavano tra le ruote. La clientela usciva e si spandeva per la città votando i magazzini col rumore d’una cateratta. E i tetti del Paradiso, le grandi lettere d’oro delle insegne, le bandiere sventolanti su in vetta, fiammeggiavano ancora nei riflessi del tramonto, facendo rivivere, nella luce che veniva di traverso, il mostro degli annunzi, il falanstero che sempre piú si stendeva e divorava i quartieri, sino ai boschi lontani dei dintorni. E l’anima di Parigi, un soffio enorme e dolce, s’addormentava nella serenità della sera, correva in lunghe e molli carezze su le ultime vetture, per la via a poco a poco libera dalla folla, e già coperta dal buio della notte.
Il Mouret, con gli occhi smarriti, aveva sentito passare in sé qualcosa di grande; e in quel fremito di trionfo che lo scoteva, dinanzi a Parigi divorata e alla Donna conquistata, sentí una improvvisa debolezza, sentí che la volontà gli veniva meno, si sentí vinto da una forza maggiore della sua. Era un bisogno irragionevole d’esser vinto nella sua vittoria, il controsenso d’un gran capitano che, dopo la conquista, piega sotto il capriccio d’una fanciulla. S’era dibattuto per dei mesi: anche quella mattina aveva giurato a sé stesso di soffocare la sua passione, ed ora cedeva a un tratto, preso dalla vertigine delle altezze, tutto contento di fare ciò ch’egli credeva una sciocchezza. Da un momento all’altro, la sua risoluzione prese tal forza, ch’egli non vedeva altro che lei utile e necessaria, Dionisia.
La sera, dopo l’ultima tavolata, si mise ad aspettare nel suo studio. Commosso come un giovane che sta per sapere se sarà felice o no, non poteva star fermo; tornava di continuo all’uscio per ascoltare i rumori dei magazzini, dove i commessi, sommersi fino alle spalle nel disordine della vendita, riordinavano le merci. Ad ogni suono di passi gli batteva forte il cuore. E si precipitò, fuor di sé, quando sentí un rumore che a mano a mano s’avvicinava.
Era il Lhomme: veniva adagio adagio con l’incasso. Quel giorno era tanto pesante, a forza di rame e argento, che s’era dovuto fare accompagnare da due garzoni. Infatti, Giuseppe e un altro gli tenevano dietro, curvi sotto due sacchi, buttati sulle spalle come fossero pieni di gesso: egli veniva innanzi con i biglietti e l’oro, un portafoglio pieno di carta e due sacchetti sospesi al collo che lo tiravano a destra dalla parte del moncherino. Adagio adagio, ansando e sudando, veniva dal fondo dei magazzini in mezzo alla commozione sempre maggiore degli impiegati. Quelli dei guanti e delle sete si offersero, ridendo, di levargli un po’ del peso; quei delle stoffe e delle lane gli augurarono di cascare per terra e seminar l’oro per la sezione. Poi dovette salire una scala, traversare un ponte, salire dell’altro, sempre seguito dagli occhi dei commessi della biancheria, della merceria, delle maglie, che a bocca aperta miravano tanta ricchezza viaggiante per aria. Al primo piano, quelle dei «vestiti », dei profumi, delle trine, s’eran tirate da parte come dinanzi al Santissimo. Il rumore cresceva, diveniva il clamore d’un popolo che saluta il Vitello d’oro.
Il Mouret, intanto, aveva aperto l’uscio. Il Lhomme comparve, con i due garzoni che non ne potevano piú; e, senza fiato, pur ebbe ancora la forza d’annunziare:
— Un milione, duecentoquarantasette franchi e novantacinque centesimi!
Era finalmente il milione, il milione fatto tutto in un giorno, che il Mouret aveva da tanti anni sognato. Ebbe invece un gesto di collera, e con l’impazienza d’uno che, mentre aspetta, è infastidito da un importuno, disse soltanto:
— Un milione! Ebbene, mettetelo lí.
Il Lhomme sapeva che gli piaceva vedere cosí sul banco i grossi incassi, prima che fossero deposti alla cassa centrale. Il milione copri il banco, schiacciò i mucchi dei fogli, mancò poco non rovesciasse il calamaio; e l’oro, l’argento, il rame, facevano un monte di danaro, caldo ancora e vivo, quale usciva dalle mani dei clienti.
Mentre il cassiere, scontento dell’indifferenza del padrone, se n’andava, entrò il Bourdoncle esclamando allegramente:
— L’abbiam raggiunto, eh!... L’abbiam preso il milione!
Ma si accorse che il Mouret era febbrilmente sopra pensiero, capí e si chetò. Gli occhi gli brillavano dalla contentezza. Dopo un po’ riprese:
— Vi siete risolto, non è vero? Dio mio! fate bene!
Il Mouret gli si piantò a un tratto di faccia, e con la voce terribile dei giorni di furia:
— Siete un po’ troppo allegro, sapete! Ah, voi mi credete bell’e morto e sotterrato, e mettete fuori i denti! State ben attento, non son di quelli che si fanno mangiare, io!
II Bourdoncle, smarrito dall’improvviso assalto di quell’accidente d’uomo che indovinava tutto, non seppe far altro che balbettare:
— Ma come!... scherzate!... io che vi ammiro tanto!...
— Non dite bugie! — riprese il Mouret anche più forte. — State a sentire: s’era due stupidi a credere che il matrimonio ci dovesse mandare in rovina. Invece il matrimonio è la salute, è la forza, è l’ordine della vita!... Dunque, caro mio, me la sposo; già, la sposo; e vi mando via tutti, se vi movete un tantino. Già, sicuro! anche voi mando via, caro Bourdoncle!
E con un gesto lo licenziò. Il Bourdoncle si sentí vinto, tolto di mezzo da quella vittoria della Donna. Se n’andò; e vedendo, mentre usciva, Dionisia, la salutò profondamente, senza sapere piú che cosa si facesse.
— Finalmente! siete voi! — disse il Mouret con dolcezza.
Dionisia era pallida dalla commozione. Aveva avuto un ultimo dolore, sapendo dal Deloche che lo cacciavano via: non era valso ch’ella si fosse offerta a parlare per lui; il giovine s’era ostinato a dire ch’era un disgraziato, e che se ne voleva andare. Perché restare? Non avrebbe fatto altro che dar noia a chi era felice! Dionisia, commossa sino al pianto, gli aveva detto addio come a un fratello. Anche lei che altro desiderava fuor che l’oblio? Era ormai finito tutto: non chiedeva alle sue forze spossate che il coraggio della separazione. Fra pochi minuti, se fosse stata cosí forte da spezzarsi il cuore, avrebbe potuto andarsene sola sola a piangere in pace.
— Mi volevate vedere — disse con la sua aria calma; — ma sarei venuta anche da me, a ringraziarvi di tutta la bontà che avete avuta.
Nell’entrare, aveva veduto il milione sul banco, e tutto quel danaro, cosí in mostra, le dava noia. Sopra di lei, quasi a guardare la scena, il ritratto della Hédouin, nella cornice dorata, continuava a sorridere.
— Ve ne volete dunque andare a ogni costo? domandò il Mouret; e gli tremava la voce.
— Non posso fare a meno.
Allora egli le prese le mani e con immenso affetto, traboccante dalla lunga freddezza che si era imposta, le disse:
— E se vi sposassi, Dionisia, ve n’andreste?
Ma lei aveva tirate a sé le mani, e si dibatteva come sotto l’impeto d’un gran dolore.
— Non posso!...
— Non potete?... Ma io voglio!...
— Oh! signor Mouret, per carità, non dite cosí! Oh! non mi fate penare dell’altro!... Non posso!... Lo sa Dio se me n’andavo apposta, per impedire questa disgrazia!
E seguitava a difendersi, con parole interrotte. Non aveva sofferto abbastanza delle chiacchiere di tutto il magazzino? La voleva far passare agli occhi degli altri, e anche ai suoi propri, per una briccona? No, no; lei l’avrebbe trattenuto da quella pazzia; se la sentiva la forza, lei, di trattenerlo!
Il Mouret, che non ne poteva piú, la stava a sentire, ripetendo con passione:
— Voglio... voglio... voglio!...
— No, è impossibile! E i miei fratelli? Ho giurato di non prender marito; non posso mica portarvi due ragazzi!
— Saranno fratelli anche miei... Dite di sí, Dionisia...
— No, no!... Oh!... lasciatemi andare... soffro troppo!...
A poco a poco egli si sentiva venir meno: quell’ultimo rifiuto gli faceva dar di volta al cervello. Come! anche ora diceva di no? Sentiva lontano il rumore dei suoi tremila impiegati che agitavano la sua ricchezza da re, a piene mani. E quel milione stupido era lí! Ne pativa come fosse un sarcasmo; l’avrebbe buttato dalla finestra.
— Andatevene pure... — disse rompendo in uno scoppio di pianto. — Andate da quello che amate... è giusto. Me l’avevate detto, voi; e io lo dovevo sapere, e non darvi piú noia.
Lei era rimasta atterrita dalla violenza della sua disperazione. Il cuore le si schiantava. Allora, come una bambina, gli si slanciò al collo, singhiozzando anche lei e balbettando:
— Oh! signor Mouret, io non voglio bene che a voi!
Un ultimo frastuono salí dal Paradiso delle signore come l’acclamazione lontana d’una moltitudine. Il ritratto della Hédouin seguitava a sorridere. Il Mouret era caduto a sedere sul banco, tra il milione che non vedeva nemmeno piú. Si stringeva al petto Dionisia con tutta la forza, dicendole che se ne poteva andare, ora: sarebbe stata un mese a Valognes, cosí nessuno avrebbe piú detto niente, e sarebbe poi andato lui in persona a prenderla, per riportarsela a braccetto, padrona e signora.
FINE