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il paradiso delle signore |
cresceva, si allargava con la strumentazione complicata di una fuga di autore classico, la quale col continuo svolgimento rapisce le anime in un volo sempre piú largo. Sempre il bianco, e non mai lo stesso bianco; tutti i bianchi gli uni sugli altri, contrapponendosi, compiendosi, giungendo all’ultimo splendore della luce. Dai bianchi opachi dei nastri e delle tele, dai bianchi sordi delle flanelle e dei lenzuoli, si passava ai velluti, alle sete, ai rasi, sempre salendo; il bianco a poco a poco si accendeva, e finiva quasi in fiammella dov’eran le pieghe; poi volava nella trasparenza delle tende, diveniva luce libera nelle mussoline, nei merletti, soprattutto nei veli cosí leggieri ch’erano come la nota ultima e dileguantesi; mentre l’argento delle sete orientali cantava piú acuto in fondo all’immensa alcova.
I magazzini intanto vivevano; la gente si affollava agli ascensori, si urtava nella stanza delle bibite e nella sala di lettura; un popolo intiero viaggiava per quegli spazi coperti di neve. E la folla pareva nera; sembravano i pattinatori d’un lago di Polonia, in dicembre. Al pianterreno c’era una calca ondeggiante dove non si distinguevano che i volti delicati e pieni d’ammirazione delle donne. Lungo le scale, sui ponti, si vedevan salire e scendere infinite figurine, come sperse tra picchi coperti di neve. Un calore da serra, soffocante, faceva meravigliare in faccia a quelle montagne candide; il rumore delle voci pareva quello enorme d’un fiume straripato. Nell’alto, l’oro profuso, i vetri niellati d’oro e i rosoni d’oro parevano raggi di sole splendenti sulle Alpi della grande esposizione del bianco.
— Andiamo! — disse la De Boves — bisogna muoversi: non si può mica restar qui!
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