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il paradiso delle signore

zione non aveva ancora preso un partito, e Dionisia se ne sarebbe andata il giorno dopo.

Quando il Bourdoncle entrò, secondo il solito, quel giorno, verso le tre, nello studio del Mouret, lo sorprese con i gomiti sul banco, coi pugni sugli occhi, assorto tanto, che lo dove toccare su una spalla. Il Mouret alzò il viso bagnato di lacrime: si guardarono, e poi si tesero le mani e bruscamente se le strinsero, da uomini che avevan combattuto insieme tante battaglie. Da un mese il Bourdoncle, del resto, aveva mutato parere: s’inchinava dinanzi a Dionisia; anzi, sotto sotto, spingeva il padrone al matrimonio. Certo era indotto a ciò dal timore d’essere spazzato via da una forza che ora era costretto a riconoscere superiore alla sua. Ma anche c’era, in fondo a quel cambiamento, il risvegliarsi d’un’antica ambizione, la speranza, a mano a mano sempre più grande, di scavalcare alla sua volta il Mouret, dinanzi a cui aveva dovuto, per tanto tempo, piegare la schiena. Si sentiva trascinato dall’aria stessa del magazzino, da tutto quel contrasto per l’esistenza che gli riscaldava, a forza di vittime, la vendita intorno: era come preso dal moto della macchina, dall’appetito degli altri, dalla voracità che dappertutto precipitava i piccoli allo sterminio dei grandi. Soltanto una specie di terrore religioso, la religione della ricchezza l’aveva fin allora trattenuto dal mordere. Se il padrone rimbambiva, se stupidamente pigliava moglie, e si rovinava la buona ventura guastando il suo incantesimo sugli avventori, perché lo doveva, lui, trattenere? Era tanto facile, invece, raccoglierne l’eredità quando fosse bell’e finito tra le braccia d’una donna! Perciò con la commozione d’un addio,


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