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no addobbate di stoffe bianche, di «picchè» e cambrí martellati, che alternamente salivano lungo le ringhiere, circondavano le sale fino al secondo piano: e tutto quel bianco prendeva le ali, e si alzava e si sperdeva come una fuga di cigni. Poi ricadeva dalle volte come piuma, come neve a larghe falde: coperte bianche, piumini bianchi, penzolavano come i parati d’una chiesa; le trine volavano da una parte all’altra quasi sorreggessero sciami di farfalle bianche immobili; i merletti fremevano dappertutto, ondeggiavano come ragnatele in un cielo d’estate, empivano l’aria del loro alito bianco. E la meraviglia, l’altare di quella religione del bianco, era sopra la sezione delle sete, nella grande sala, una tenda fatta di cortine bianche che scendevano dalla invetriata. Le mussoline, i tulli, le trine d’arte, scendevano a leggiere ondate, mentre i veli ricamati, ricchissimi, e le sete orientali a pagliuzze d’argento, facevano da sfondo a quella immensa decorazione che aveva insieme del tabernacolo e dell’alcova. Pareva un gran letto bianco che nella sua enormità virginale aspettasse, come nelle leggende, la principessa bianca, quella che doveva venire, un giorno, onnipossente, col velo bianco delle spose.

— Oh! è una cosa straordinaria! — ripetevano le signore. — Inaudita!

Non si stancavano nemmeno di quel cantico del bianco, intonato dalle stoffe di tutto il magazzino. Il Mouret non aveva avuto fin allora una idea cosí vasta; era il genio dell’arte delle mostre. Tra quei candori, nel disordine apparente dei tessuti, caduti come per caso fuor delle scatole, c’era una frase armonica, il bianco seguito e svolto in tutti i suoi toni, che nasceva,


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