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di tela d’Irlanda, di batista; l’ultimo velo bianco che scivola dal petto sui fianchi frementi. Ai corredi c’era da contentare tutte: la borghesuccia che vuole tele unite, la gran signora ravvolta nelle trine; una alcova aperta al pubblico, che, col suo lusso nascosto di merletti e di ricami, diveniva quasi una depravazione sensuale. La donna si rivestiva, il fiotto candido della biancheria rientrava nel mistero fremente delle sottane. La camicia insaldata, le mutande fredde e con le pieghe della scatola, quella mussola, quella batista sparsa sui banchi, gittata qua e là, ammucchiata, stavan per vivere della vita della carne; profumate e calde dell’odor dell’amore; una nuvola bianca divenuta sacra, che col solo far intravedere il lampo rosa d’un ginocchio tra i suoi candori, metteva sossopra il mondo. Veniva poi una stanza per i corredini da neonati, dove il bianco voluttuoso della donna si mutava nel bianco candido del bambino; un’innocenza, una gioia, l’amante che si sveglia madre, camicioline di «picchè» col pelo, berrettine di flanella, camicie e cappellini piccini come da bambole, e vestiti da battesimo, mantellini di casimirra; la peluria bianca della nascita, simile a una pioggia sottile di penne bianche.

— Son camicie infilate col nastrino — disse Gianni, ch’era dolcemente commosso da tutte quelle eleganze.

Quando furono ai corredi, Paolina accorse, subito che vide Dionisia. E, prima d’ascoltarla, la informò, a voce bassa, delle chiacchiere che correvano. Due ragazze s’eran perfino leticate, lí nella sezione, affermando, una di sí, l’altra di no, la partenza di Dionisia.


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