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ravano il soffitto, o tingevano d’una luce rossastra i giovani, che non ne potevano piú dal caldo e dal sudore.

— Guarda un po’ se di domenica, con un tempo come questo, si dovrebbe star chiusi! — ripeté il Favier.

Dalla riflessione di lui furono ricondotti tutti a parlare dell’inventario.

Era stata un’annata fortunatissima; e ricominciarono subito a dire degli stipendi, degli aumenti, argomento inesausto, piú importante d’ogni altro e che li sconvolgeva. I giorni che c’era il pollo, succedeva sempre cosí; erano sovreccitati, e gli urli eran tali da non potersi sopportare. Quando i garzoni distribuivano i carciofi sott’olio, non c’era piú verso di capire ciò che uno dicesse. L’ispettore aveva avuto l’ordine di essere indulgente.

— A proposito, — esclamò il Favier — lo sapete quel ch’è accaduto?

Ma fu interrotto dal Mignot che domandava:

— Chi non vuole il carciofo? fo a baratto con la frutta!...

Nessuno rispose. I carciofi piacevano a tutti.

Quella colazione doveva rimaner memorabile: per frutta avevano avuto, nientemeno, delle pesche!...

— L’ha invitata a pranzo, caro mio, — diceva il Favier a quello accanto, terminando il suo racconto. — Ma come! non lo sapevate?

Lo sapevano tutti; non avevano fatto che parlarne la mattinata intera; e gli scherzi, sempre gli stessi, corsero di nuovo da bocca a bocca.

Il Deloche impallidí; si accorse che lo guardavano, e fissò gli occhi sul Favier, che ripeteva con insistenza:


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