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s’inarcavano, i nasi si arricciavano, come per un odore ghiotto.

Il Bouthemont medesimo, che in quei discorsi ci si crogiolava, non poté trattenersi dal buttar là uno scherzo di assai cattivo gusto, gongolando dal piacere. Alberto, scosso dalle risate, giurò di aver veduta la innocentina tra due soldati, a un veglione. Scendeva in quel punto il Mignot con i venti franchi che s’era fatto prestare, e s’era fermato a metterne dieci nella mano d’Alberto dandogli un appuntamento per la serata; una cenetta che aveva avuto paura di non poter piú fare, e che ora si poteva arrischiare, sebbene i soldi non fossero troppi. Ma il bel Mignot, quando seppe della lettera, fece un’osservazione di tal fatta, che il Bouthemont fu costretto a intervenire:

— Basta, basta! Noi non c’entriamo per nulla... Via, via, signor Hutin!

Le penne ricominciarono a correre sui fogli, i pacchi a cadere regolarmente; e le stoffe salivano sempre, e l’inventario continuava incessante. Il Favier, sommessamente, fece osservare che della roba ce n’era; la Direzione sarebbe proprio stata contenta, perché quel bestione del Bouthemont era forse il piú bravo per le compre che ci fosse a Parigi, ma a vendere non s’era mai visto un torsolo come lui. L’Hutin sorrideva godendosela, e approvava con benevole occhiate; perché, dopo aver messo proprio il Bouthemont nel Paradiso per mandar via il Robineau, ora dava sotto nascostamente a quest’ultimo, sempre con l’intento di rubargli il posto. Era la stessa guerra di prima; perfide calunnie sussurrate all’orecchio dei capi, ostentazioni di zelo, per mettersi innanzi, un assedio in piena


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