Il paradiso delle signore/9
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Traduzione dal francese di Ferdinando Martini, Guido Mazzoni (1936)
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IX
A destra, a sinistra, le facciate, troppo bianche ancora, pigliavan le mosse per stendersi lungo le Vie Monsigny e della Michodière, occupando tutto il quadrato, salvo la parte di Via Dieci Dicembre, dove il Credito Fondiario voleva costruire. Quando i negozianti di quelle strade alzavano gli occhi, vedevano in codesta specie di caserma i mucchi delle merci, attraverso cristalli che dal pianterreno al secondo piano aprivano la casa alla luce del giorno. Quel cubo enorme, quel bazar smisurato, toglieva loro la vista del cielo e pareva che avesse un po’ di colpa nel freddo che faceva loro battere i denti in fondo alle stamberghe gelide.
Il Mouret, intanto, era lí fin dalle sei a dare i suoi ultimi ordini. Nel mezzo, in faccia al gran portone, una larga galleria correva da cima a fondo, fiancheggiata da due altre piú piccole, a destra e a sinistra, la galleria Monsigny e la galleria della Michodière. Le corti, trasformate in sale, erano tutte a vetriate; e scale di ferro salivano dal pianterreno cosí al primo piano come al secondo; ponti, pur essi di ferro, passavano da una parte all’altra. L’ingegnere, ch’era per caso un uomo intelligente, un giovinotto innamorato dei tempi nuovi, non s’era servito delle pietre che nei sotterranei e nei piloni degli angoli; tutto il resto dell’ossatura era di ferro, a colonne che sorreggevano travi e travicelli. Le volte dei soffitti e le divisioni interne, a mattoni. Dappertutto aveva cosí guadagnato posto; l’aria e la luce entravano liberamente; il pubblico poteva passeggiare con tutto il suo comodo per alte e lunghe gallerie.
Era quella la cattedrale del commercio moderno, solida e leggiera, destinata a un popolo d’avventori. A pianterreno, subito dopo entrati, c’erano le cravatte, i guanti, le sete; la galleria Monsigny era occupata dalla biancheria e dalle tele dipinte; quella della Michodière dalle mercerie, dalle maglie, dalle stoffe, dalle lane. Al primo piano, i vestiti, gli scialli, le trine, ed altre sezioni nuove; al secondo, i letti, i tappeti, le stoffe per mobilia, tutto ciò che tien posto ed è difficile smoverlo. Le sezioni erano, quel giorno, trentanove; gl’impiegati non meno di milleottocento, dei quali duecento donne. Nella vita sonora delle alte navate metalliche, un popolo intero si moveva al lavoro.
L’unica passione del Mouret era vincere la donna: la voleva regina nel suo magazzino, le aveva inalzato quel tempio per dominarla meglio. Inebriarla di galanti cortesie e trafficare sui suoi desideri, trar profitto della sua febbre, in questo consisteva la tattica di lui. E perciò, notte e giorno, si stillava il cervello per trovare qualcosa di nuovo. Di già, volendo che le signore delicate non avessero la fatica di salire, aveva impiantato due ascensori guarniti di velluto. Poi aveva aperta una stanza dove si davano gratuitamente biscotti e sciroppi, ed una sala di lettura, una galleria monumentale, decorata anche troppo riccamente, dove faceva perfino esposizione di quadri. Ma la sua bella trovata era, con le donne serie, di conquistare le mamme per mezzo dei bambini: non mandava a male forza alcuna, speculava su tutti i sentimenti, apriva sezioni apposta per bambini e bambine, fermava le mamme, regalava ai piccoli figure e palloncini. Stupenda invenzione era questa sua, dei palloncini distribuiti ad ogni signora, rossi, di gomma sottilissima, scritto sopra a ciascuno in grandi lettere il nome del magazzino; attaccati a un filo viaggiavano per l’aria portando attorno per le strade una nuova sorta di pubblicità!
Questa, la pubblicità, era la sua forza piú grande. Il Mouret spendeva perfino trecentomila franchi all’anno, in cataloghi, annunzi, cartelli. Per l’apertura dell’ultima esposizione delle «novità» d’estate aveva sparsi duecentomila cataloghi, cinquantamila dei quali all’estero, tradotti in tutte le lingue. Li faceva ora illustrare con figure, ci metteva su perfino dei campioni, ingommati sulle pagine. Vetrine, stampe, affissi, il Paradiso dava per forza negli occhi a tutti, invadeva muri, giornali, perfino i sipari dei teatri. Sapeva bene il Mouret che la donna è sempre vinta dalla pubblicità, e fatalmente accorre al rumore. Del resto le tendeva i tranelli piú abili, studiandola da sottil moralista. Aveva cosí scoperto che non sa resistere ai prezzi bassi, e, quando crede che l’affare sia buono, compra anche senza bisogno: su questa osservazione fondava il sistema di scemare a poco a poco i prezzi della roba non venduta, preferendo di venderla a scapito, tanto per rinnovare, come voleval sempre, le merci.
Poi, penetrando piú a fondo nel cuore delle donne, aveva pensato la resa, un capolavoro di seduzione gesuitica. «Pigli, pigli, signora! se non le piace piú, lo riporterà.» E la donna che resisteva, trovava un’ultima scusa nel potere pentirsi d’una sciocchezza fatta; comprava, e la coscienza le stava zitta. La resa e i prezzi bassi erano ormai la regola classica del nuovo commercio.
Ma il Mouret si rivelava maestro senza rivali nell’ordinamento interno dei magazzini. Secondo lui, nemmeno un cantuccio del Paradiso doveva restare deserto; voleva dappertutto frastuono, gente, vita; perché la vita, diceva, chiama la vita e in un attimo si propaga: e traeva dalla sentenza ogni specie d’applicazione. Fin dalla porta la gente bisognava che s’affollasse in modo da far credere a qualcosa di grosso: e il Mouret metteva proprio all’entrata tutti gli scarti dati via per nulla, sicché la gentucola si accalcava e asserragliava la soglia facendo credere che le sezioni rigurgitassero di gente quando, spesso, ce n’era pochissima. Nelle gallerie, poi, aveva l’arte di nascondere le sezioni che lavoravano poco; per esempio d’estate gli scialli, e d’inverno le indiane: le circondava di sezioni viventi, le affogava quasi in mezzo al tumulto. Era stato il primo a porre nel secondo piano i tappeti e i mobili, perché ci andava poca gente, e nel piano terreno avrebbero prodotto come dei vuoti. Se avesse potuto, avrebbe fatto che la strada passasse a traverso il suo magazzino.
Proprio allora il Mouret si sentiva pieno di buone ispirazioni. Il sabato sera, nel dare un’ultima occhiata ai preparativi per la gran vendita del lunedí, dopo averci lavorato da un mese, capí a un tratto che l’ordine delle sezioni quale egli lo aveva disposto era una sciocchezza. Eppure andava a rigor di logica: i tessuti da una parte, la roba bell’e fatta dall’altra, con un ordine intelligente che doveva dar modo agli avventori di raccapezzarcisi con facilità. Ci aveva pensato fin da quando stava nella botteguccia della Hédouin: ora, subito dopo averlo messo in opera, lo doveva buttare all’aria. Cosí infatti gridò improvvisamente: in quarantott’ore bisognava sgomberare mezzo magazzino. Gli impiegati sbalorditi, affaccendati, doverono passare due notti in piedi, e tutta la domenica, tra una confusione spaventevole: perfino il lunedí mattina, un’ora prima dell’apertura, molta roba era tuttavia fuor di posto. Il padrone doveva essere impazzito; nessuno ci capiva nulla: una costernazione generale!
— Su! lesti! — gridava il Mouret con la tranquilla sicurezza di chi sa ciò che fa. — Questi vestiti, lassú... E tutta la roba giapponese l’hanno portata dove ho detto io? Un ultime sforzo, figliuoli, e vedrete fra poco che vendita!
Anche il Bourdoncle era lí dall’alba. Non ci capiva piú degli altri, e seguiva inquieto con gli occhi il padrone; ma, sapendo che razza di risposte ci fosse da avere in quei momenti, non osava dirgli nulla.
Alla fine, nondimeno, si fece coraggio, e domandò sorridendo:
— Bisognava proprio buttar cosí tutt’all’aria il giorno innanzi l’esposizione?
Il Mouret si contentò di stringersi nelle spalle; ma l’altro insisté, e lo fece andar sulle furie:
— Perché gli avventori si ammucchino tutti in un posto, eh? Bell’idea da geometra che avevo avuta! Non me ne sarei dato pace... Permettevo alla gente d’andare dove le piaceva. Entravano, s’infilavano dove volevano: dalla gonnella al vestito, dal vestito al mantello, e poi tutte le persone se ne sarebbero andate senza nemmeno sperdersi un po’... Nemmen una avrebbe visto i magazzini!
— Ma — osservò il Bourdoncle — ora che avete confuso tutto e sparpagliato tutto a questo modo, ci si consumeranno le gambe, i commessi, a condurre la gente di sezione in sezione!
Il Mouret scosse il capo:
— E a me che me n’importa? Son giovani, e cresceranno dell’altro... Meglio se passeggiano! Parranno di piú e aumenteranno la folla. Bisogna che gli avventori facciano ressa, e le cose andran benone.
Rideva, e, sommessamente, si degnò di spiegare il suo pensiero:
— Guardate, Bourdoncle: ecco ciò che seguirà. In primo luogo, quel viavai continuo delle clienti le disperde un po’ dappertutto, le moltiplica e fa loro perder la testa; in secondo luogo, nel condurle da un capo all’altro, se, per esempio, vogliono la guarnizione dopo aver comprata la stoffa, il dovere andar su e giú fa parer loro tre volte maggiore il Paradiso; in terzo luogo, son costrette anche a passare per le sezioni dove non avrebbero messo mai piede, ci rimangono prese e comprano; in quarto luogo...
Il Bourdoncle rideva anche lui. Allora il Mouret, tutto contento, si fermò e gridò ai garzoni:
— Benissimo! Ora una bella spazzata, e anche questa è fatta!
Ma nel voltarsi si accorse di Dionisia. Lui e il Bourdoncle si trovavano innanzi alla sezione del vestiario, ch’egli aveva sdoppiata mettendo i vestiti propriamente detti al secondo piano, dall’altra parte. Dionisia, scesa per prima, spalancò gli occhi, sbalordita da quei tramutamenti:
— Come! si sgombera?
La sua sorpresa parve che divertisse molto il Mouret, cui piacevano grandemente codeste improvvisate da teatro. Fin dai primi di febbraio Dionisia era rientrata nel Paradiso, ed era rimasta tutta contenta di vedersi accolta bene da tutti, e quasi riverita. La signora Aurelia particolarmente le si mostrava benevola; Margherita e Clara parevano rassegnate; perfino il Jouve ci si adattava non senza imbarazzo, quasi desiderando di cancellare il brutto ricordo. Bastava che il Mouret avesse detta una parola; e tutti si contentavano di mormorare tenendole dietro con occhiate. Fra tante amabilità di tutti, non le davano noia che la singolare tristezza del Deloche e i sorrisi misteriosi di Paolina.
Il Mouret intanto continuava a guardarla, senza quasi accorgersene:
— Che volete dunque, signorina? — domandò alla fine.
Dionisia non l’aveva visto. Arrossí leggermente. Fin da quando era tornata al Paradiso, non faceva che ricevere da lui segni di benevolenza che la commovevano assai. Paolina, e lei non sapeva il perché, le aveva raccontati per filo e per segno gli amori del padrone con Clara; quando stavano insieme, quanto le dava: e ci tornava sopra spesso; aggiungendo anche, che il Mouret aveva un’altra amante, quella signora Desforges che tutti nel magazzino conoscevano. Questi racconti turbavano Dionisia, e davanti a lui si sentiva riprendere dalle paure di prima, da un malessere in cui la riconoscenza contendeva con la collera.
Allora il Mouret le si avvicinò per dirle piú adagio:
— Stasera, dopo la vendita, fatemi il piacere di passare nel mio studio. Ho da parlarvi.
Sconvolta, essa piegò la testa senza rispondere nulla; e si affrettò a entrare nella sezione, dove le altre ragazze giungevano. Ma il Bourdoncle aveva sentito il Mouret, e lo guardava sorridendo. Osò perfino dirgli, appena che furono soli:
— Anche questa, eh? State bene attento: l’affare si fa serio!
Il Mouret si difese con calore, celando la commozione sotto un’aria di altera noncuranza:
— Lasciate andare! si fa per chiasso! La donna che m’acchiapperà, caro mio, non è nata ancora!
E vedendo che i magazzini finalmente si aprivano, accorse per dare un’occhiata alle sezioni. Il Bourdoncle scoteva la testa. Questa Dionisia, cosí semplice e per benino, cominciava a dargli noia. Una prima volta era riuscito a vincerla, mandandola via; ma era tornata, e tanto potente che la doveva trattare da avversario temibile, restando muto innanzi a lei mentre aspettava di nuovo l’ora sua, se pur fosse tornata ancora.
Il Mouret, cui egli tenne dietro e che raggiunse, gridava nella sala di Via Sant’Agostino in faccia al portone d’ingresso:
— Mi si piglia in giro? Gli ombrelli azzurri avevo detto di metterli tutti attorno!... Presto, buttate all’aria questo bell’altarino!... Sbrigatevi!...
Non volle intendere ragioni; una schiera d’impiegati dové accorrere a disporre altrimenti tutta la mostra degli ombrelli. Vedendo arrivare le clienti, fece perfino chiudere per un momento le porte; e ripeteva che non avrebbe riaperto, piuttosto che lasciar gli ombrelli azzurri là nel mezzo.
Era un rovinare tutto l’ordine studiato da lui stesso. L’Hutin, il Mignot, i piú bravi a far le vetrine, venivano a vedere, alzavan gli occhi; ma, essendo d’una scuola diversa, ostentavano di non capirci nulla.
Finalmente riaprirono, e la gente entrò. Sin dal primo momento, avanti che i magazzini fossero pieni, ci fu nell’entrata una calca tale che bisognò chiamare le guardie di città perché facessero un po’ di largo sul marciapiede.Il Mouret ci aveva azzeccato: tutte le massaie, un reggimento intero di borghesi e di popolane, si buttavano sulle calíe, sugli scampoli, sugli scarti esposti quasi lí sulla strada. Mani alzate continuamente tastavano le stoffe appese all’entrata: un bordato a trentacinque centesimi, certa roba grigia in lana e cotone a quarantacinque centesimi, ma sopra tutto un orléans a trentotto centesimi, che devastava addirittura le borse povere. Era un urtare di spalle e di gomiti intorno alle ceste e agli scaffali, dove tutta la roba ribassata, trine a dieci centesimi, fiocchi a venticinque, elastici da calze a quindici, guanti di fil di scozia, sottane, colletti, cravatte, calze, calzini, sparivano da un momento all’altro come divorati dalla folla. Per quanto fosse freddo, i commessi, che vendevano esposti all’aria della strada, non lo sentivano. Una donna incinta urlava; due bambine furon quasi soffocate.
Per tutta la mattinata la calca divenne sempre piú fitta. Verso il tocco era tale, che la strada pareva barricata come in tempo di rivoluzione.
Mentre la De Boves e la sua Bianca stavano, senza saper risolversi, sul marciapiede di faccia, si fece loro innanzi la Marty con la Valentina.
— Eh! quanta gente! — disse la De Boves. — Là dentro si devono schiacciare... Io mi sentivo poco bene, non dovevo uscire; ma mi sono levata per prendere un po’ d’aria.
— Come me! — rispose l’altra. — Ho promesso a mio marito d’andare da sua sorella, a Montmartre... E nel passare mi son rammentata che avevo bisogno d’una stringa. Tant’è comprarla qui che in un altro posto, non è vero? Oh! non spendo un soldo, veh! Già, non ho nemmeno bisogno di nulla, ora...
Ma non levavano gli occhi dal portone: erano come prese e portate via dal vento della moltitudine.
— No no, io non entro; ho paura! — disse la De Boves. — Bianca, andiamocene; se no, qui ci stritolano.
Ma le mancava la voce; a poco a poco, ella cedeva al desiderio di entrare dove entravano tutti; e la paura andava dissolta in quella irresistibile curiosità. La Marty anche lei si lasciava trascinare. Badava a ripetere:
— Reggimi un po’ il vestito, Valentina... Ah! non ho mai vista una cosa come questa. Vi i portano di peso addirittura; non c’è bisogno di camminare. Immaginiamoci dentro!
Le signore, travolte dalla corrente, non potevano piú tornare indietro. Come i fiumi attirano le acque sparse in una valle, cosí pareva che il fiotto delle clienti trascorresse in mezzo all’atrio attraendo quelli che passavano e aspirando la gente d’ogni parte di Parigi.
Non andavano innanzi che adagio adagio, strette in modo da perderne il fiato, sorrette da spalle e ventri di cui sentivano il molle calore; e il desiderio soddisfatto godeva di quello strettume che sempre piú aguzzava la loro curiosità. Era una confusione di signore con l’abito di seta, borghesucce vestite poveramente, ragazze senza niente in capo, prese tutte dalla febbre medesima. Qua e là qualche uomo, quasi sommerso tra quelle gonnelle, si guardava attorno, non senza inquietudine. Una balia, proprio nel mezzo, reggeva su il bambino che se la rideva allegramente. Soltanto una donna magra si arrabbiava e diceva insolenze perché una accanto a lei pareva le volesse entrare in corpo.
— Qui ci lascio il vestito! — ripeteva la De Boves.
La Marty, senza dir nulla, col viso ancora ghiacciato dall’aria aperta, si alzava in punta di piedi per vedere sopra alle teste l’interno del magazzino. Le sue pupille grige eran piccole come quelle d’una gatta che venga dalla luce piena; e pareva che non distinguesse nulla, col suo sguardo vuoto come se si svegliasse allora.
— Ah! finalmente! — disse respirando.
Le signore s’erano a un tratto sentite libere: si trovavano nella sala di Via Sant’Agostino, e la loro sorpresa fu grande nel vederla quasi vuota. Ma se la godevano, pareva loro di entrar nella primavera, uscite dall’inverno della strada. Mentre fuori il vento soffiava gelido, la bella stagione nelle gallerie del Paradiso sembrava si posasse tiepida con le stoffe leggiere, lo splendore fiorito delle tinte chiare, l’allegria campestre delle mode da estate e degli ombrellini.
— Guardate, guardate! — esclamò la De Boves, immobile, con gli occhi in su.
Era la mostra degli ombrellini. Aperti, rigonfi come scudi, coprivano la sala dall’invetriata fino alla cornice di quercia inverniciata. Intorno agli archi stavano come festoni; lungo le colonne sottili scendevano in ghirlande; sull’orlo delle gallerie, perfino sui gradini delle scale, si allineavano in file strette: e dappertutto, sposti in ordine simmetrico, coprendo i muri di strisce rosse, verdi e gialle, sembravano grandi lanterne alla veneziana, accese per qualche festa immensa. Negli angoli vi erano ornamenti piú complicati: stelle fatte di ombrellini a un franco e novantacinque, che con le tinte chiare, celeste, crema, rosa, splendevano come la dolce luce d’una fiaccola ardente dietro la porcellana; mentre sopra, smisurati ombrelli giapponesi, nei quali le gru d’oro volavano per un cielo di porpora, fiammeggiavano con riflessi di incendio.
La Marty cercava parole ch’esprimessero la sua ammirazione, e non poté dire altro che:
— È come nelle novelle!
Poi, cercando d’orientarsi:
— Guardiamo un po’: le stringhe si comprano alla merceria... Compro la mia stringa, e me la do a gambe.
— Vengo con voi! — disse la De Boves. — Bianca, non è vero? noi non si fa che traversare il magazzino, e ce n’andiamo.
Ma fin dalla porta le signore erano di già sperse. Voltarono a sinistra e, per quel tramutamento della merceria, caddero fra le gale e poi fra i vestiti. Nelle gallerie faceva un gran caldo, un caldo da stufa, pesante e rinchiuso, e carico dell’odore delle stoffe: lo scalpiccio della gente ne restava soffocato. Allora tornarono verso la porta: s’era già formata la corrente di quelli che uscivano, uno sfilare senza mai fine di donne e bambini, con sopra una nuvola di palloncini rossi. Dei palloncini ce n’erano pronti quarantamila, e garzoni apposta li distribuivano. A stare a guardare la gente che se n’andava, si sarebbe detto che enormi bolle di sapone volassero nell’aria, rattenute da fili invisibili, riflettendo l’incendio degli ombrelli. Tutto il magazzino n’era rallegrato.
— È proprio un caos! — esclamò la De Boves. — Non si capisce nemmen piú dove uno si trovi!
Ma non potevano rimanere tra le spinte della folla che entrava e usciva.
Il Jouve accorse, per fortuna, ad aiutarle. Se ne stava nell’entrata, grave, attento, squadrando ogni donna che passava: particolarmente addetto alla polizia interna, le ladre le sentiva all’odore; e teneva d’occhio sopra tutto le donne incinte, quando la febbre dei loro occhi lo insospettiva.
— La merceria? Laggiú, signore! — rispose cortesemente. — A sinistra, dietro le maglie.
La De Boves ringraziò. Ma la Marty, nel voltarsi, non si trovò piú accanto la Valentina, e già si spaventava, quando la vide assai piú in giú, in fondo alla sala di Via Sant’Agostino, tutt’assorta davanti a una tavola dove si mettevano in vendita ad alta voce cravatte da donna a novantacinque centesimi. Al Mouret piaceva pigliar cosí all’amo la cliente, e per votarle le tasche ogni espediente gli era buono: si burlava della discrezione di certuni, che vogliono che le merci invitino da sé il compratore. Degl’impiegati, adatti, parigini puro sangue, fannulloni e chiacchieroni, davan via cosí a balle la robuccia di scarto.
— Mamma, mamma! — esclamò Valentina — guarda che cravatte!... c’è da una parte un uccellino ricamato.
Il venditore seguitava a giurare ch’erano di tutta seta, che il fabbricante era fallito, che una occasione come quella non tornerebbe mai piú.
— Novantacinque centesimi! pare impossibile! — esclamò la Marty, sedotta come la figliuola. — Pigliamone due: non sarà mica una rovina!
La De Boves fece una smorfia di sprezzo.
Quel vendere ad alta voce non lo poteva soffrire; un impiegato che la chiamasse la faceva scappar via subito. La Marty, invece, stupiva di quell’orrore per la ciarlataneria; lei invece era contenta quando le facevano violenza, sguazzando nelle carezze dell’offerta pubblica, tuffando le mani dappertutto, buttando via il tempo in parole inutili.
— Ed ora, riprese a dire — leste a pigliar la stringa!... Non voglio veder piú nulla.
Ma, nel traversare le sete leggiere e i guanti, le mancò il cuore un’altra volta.
Sotto la luce diffusa c’era una mostra a colori vivaci e allegri d’un effetto mirabile. I banchi disposti in simmetria parevano aiuole di fiori, la sala un giardino alla francese, cui sorridesse variegata tutta una flora. Sul legno, nelle scatole aperte, fuor degli scaffali troppo pieni, una fiorita di sete accordava il rosso acceso dei gerani col bianco latteo delle peonie, il giallo aureo dei crisantemi con l’azzurro celeste delle verbene; e piú su, dagli steli metallici, pendevano a ghirlande stoffe lasciate andare, nastri a penzoloni, che si allungavano e si avvinghiavano alle colonne, moltiplicati dagli specchi. Ma sopra ogni altra cosa attraeva la folla una capanna svizzera, fatta tutta di guanti, un capolavoro del Mignot che ci aveva speso due giornate. I guanti neri facevano il pianterreno; poi venivano quelli color paglia, gialli, rossi cupi, messi al posto loro per indicar le finestre, i terrazzi, i tegoli.
— Che desidera la signora? — chiese il Mignot, vedendo la Marty ferma davanti la capanna. — Ecco guanti di Svezia a un franco e settantacinque, prima qualità...
Non dava requie; chiamava quei che passavano, di fondo al suo banco, e li importunava a forza di cortesia. Vedendola rifiutare con un moto del capo, seguitò:
— Guanti del Tirolo a un franco e venticinque, guanti di Torino per bambini, guanti di tutti i colori.
— No, grazie, non ho bisogno di nulla — rispose la Marty.
Ma il Mignot sentí ch’ella stava per cedere, e l’assalí piú vivacemente mettendole sotto gli occhi i guanti ricamati. E lei non seppe resistere piú, e ne comprò un paio. Poi, vedendo che la De Boves la guardava con un sorriso, arrossí:
— Che bambina, eh?... Se non compro la stringa e scappo via subito, son fritta!
Disgraziatamente alla merceria c’era una ressa tale, che non poté farsi servire subito. Aspettavano tutt’e due da dieci minuti, e già perdevano la pazienza, quando capitò la Bourdelais con i suoi tre bambini. Aveva voluto, diceva lei con la solita tranquillità di donnina che sa il fatto suo, aveva voluto mostrare ai piccini tutta quella baraonda. Maddalena aveva dieci anni, Edmondo otto, Luciano quattro; e facevano a chi era piú contento di quel divertimento, che costava tanto poco, e ch’era stato loro promesso da parecchi giorni.
— Son troppo bellini! Voglio comprare un ombrellino rosso! — disse improvvisamente la Marty, che pestava i piedi dall’impazienza di star lí senza far nulla.
Ne scelse uno da quattordici franchi e mezzo. La Bourdelais, dopo essere stata a vedere con certe occhiatacce che disapprovavano, le disse pacatamente:
— Avete fatto male ad aver tanta furia. Tra quindici giorni costerà soltanto dodici franchi! Me non mi ci acchiappano!
E le fece una bella lezione da donna da casa.
I magazzini ribassavano; dunque bastava aspettare. Non dovevano loro guadagnare alle sue spalle, ma lei, invece, a danno loro, approfittando delle vere buone occasioni. Ci si metteva d’impegno, gareggiando di malizia; si vantava perfino di non aver mai lasciato ai magazzini un soldo di guadagno.
— Su! — disse alla fine — ho promesso ai miei bambini di far vedere loro le figure, nella sala grande... Venite con me; si fa in un momento.
La stringa fu subito dimenticata, e la Marty cedé, mentre la De Boves avvertí che voleva far prima il giro del pianterreno: si sarebbero ritrovate lassú. La Bourdelais cercava la scala, quando vide un ascensore, e vi cacciò dentro i bambini per dar loro anche quel divertimento a ufo. La Marty e Valentina entrarono anch’esse nell’angustia della gabbia, dove si sentirono un po’ strette; ma gli specchi, le panchine di velluto, lo sportello di metallo lavorato, le tennero occupate in modo, che arrivarono al primo piano senza accorgersi del dolce salire della macchina. Lí fin dalla prima galleria, si ebbero un altro regalo. Nel passare davanti alle stanze dei rinfreschi, la Bourdelais non si dimenticò di far dare lo sciroppo ai piccini. Era una stanza quadra, con un gran banco: ai due capi da due cannelle scendeva un sottil filo d’acqua; dietro, su palchetti, stavano in fila le bottiglie. Tre garzoni non facevano che lavare ed empire bicchieri. Per tenere in freno l’ingordigia degli avventori, c’eran ringhiere coperte di velluto. Passi schiacciava: c’erano alcuni che, perso ogni savano solamente tanti alla volta; e la folla vi scrupolo in faccia a quelle ghiottonerie gratis et amore, ne ingozzavano, da pigliare un’indigestione.
— E le altre dove sono? — esclamò la Bourdelais quando uscí dalla folla ed ebbe ripulita la bocca ai bambini col fazzoletto.
Ma vide subito la Marty e Valentina in fondo a un’altra galleria, lontane lontane: tutt’e due affogate tra le sottane, compravano e compravano. Mamma e figliuola, senza piú nessun ritegno, sparvero trascinate dalla frenesia dello spendere.
Quando fu giunta finalmente nella sala di lettura, la Bourdelais mise Maddalena, Edmondo e Luciano a sedere davanti alla gran tavola; e andò poi a una delle librerie a pigliarsi un album di fotografie.
La volta della stanza era sovraccarica di dorature; ai due lati, due grandi caminetti stavano in simmetria; quadri di poco valore ma di ricchissima cornice coprivano i muri; e tra le colonne, davanti a ciascuna delle aperture che davano sui magazzini, c’erano alte piante verdi in vasi di porcellana. Intorno alla tavola molta gente che in silenzio sfogliava riviste e giornali: delle signore si levavano i guanti, e postesi dinanzi a un calamaio scrivevano lettere sulla carta con le cifre del magazzino, che cancellavano con un frego di penna. Qualche uomo, adagiato nella poltrona, leggeva il giornale. Ma i piú stavan lí senza far nulla; mariti che aspettavano le mogli affaccendate per le sezioni, giovani signore che spiavano senza scandalo l’arrivo dell’amante, vecchi lasciati lí come si lascia un mantello alla porta, per riprenderlo a festa finita. E tutti, comodamente a sedere, gettavano, per le finestre aperte, delle occhiate nella profondità delle gallerie e delle sale, di cui la voce lontana moriva nello scricchiolio delle penne e nel fruscio dei giornali.
— Ma come! ci siete anche voi? — disse la Bourdelais. Non vi riconoscevo nemmeno.
Accanto ai bambini una signora nascondeva il viso tra le pagine d’una rivista. Era la Guibal, che non poté trattenere un moto di dispetto; ma si rimise subito, e raccontò ch’era salita per riposarsi un poco dagli spintoni. E avendole l’altra domandato se fosse venuta a comprare qualche cosa, rispose con la sua aria languida, nascondendo dietro le palpebre l’aspro egoismo dei suoi sguardi:
— Oh, no!... Anzi son venuta per rendere! Già, voglio rendere una sottana e delle portiere che non mi vanno piú. Ma c’è tanta gente, che aspetto di potermi avvicinare alle sezioni.
E seguitò a dire che quella resa era un gran comodo; prima non comprava mai nulla, ora qualche volta si lasciava tentare. Il vero era che, siccome rendeva quattro oggetti su cinque, cominciava ad essere conosciuta da tutti, e tutti odoravano già il cattivo affare in quell’eterna scontentezza che le faceva riportare gli oggetti, uno a uno, dopo esserseli tenuti per qualche giorno. Ma, pur chiacchierando, non levava gli occhi dalla porta della sala; e parve tutta contenta, quando la Bourdelais si voltò verso i bambini per spiegar loro le fotografie. Quasi in quel momento entrarono il De Boves e Paolo di Vallagnosc. Il conte, che fingeva di far vedere al giovinotto i magazzini nuovi, scambiò con lei una rapida occhiata. Poi lei si rimise a leggere attentamente, come se non l’avesse veduto.
— To’! Paolo! — esclamò a un tratto una voce dietro quei due.
Era il Mouret, che stava sorvegliando se le cose andavano a modo suo. Si strinsero la mano, e il Mouret domandò subito:
— La signora De Boves ci ha fatto l’onore di venire?
— Dio mio! no, e le è dispiaciuto molto, ma non si sente bene... Niente di grave, veh! — rispose il conte.
Ma finse di scorgere allora la Guibal; ed accorse, levandosi il cappello; il Mouret e il Vallagnosc si contentarono di salutarla cosí da lontano. Anche lei fingeva d’essere sorpresa. Paolo sorrise: ora capiva tutto! E raccontò sommessamente al Mouret come in Via Richelieu il conte, imbattutosi in lui, da principio avesse cercato di scappare, poi avesse voluto ad ogni costo trascinarlo al Paradiso col pretesto che non si poteva fare a meno di vedere anche quella mostra lí. Da un anno la signora gli spillava quanto piú danaro e divertimenti potesse, senza mai scrivere una riga, dandogli appuntamenti nei luoghi pubblici, nelle chiese, nei musei, nei magazzini, per mettersi d’accordo.
— A ogni appuntamento, — sussurrava il giovine — devono cambiare la camera. L’ultima volta era in giro per cose d’ufficio, e ogni due giorni scriveva alla moglie o da Blois, o da Libourn, o da Tarbes; ed io sono invece convinto d’averlo visto entrare in una certa pensione di Batignolles... Ma guardalo! com’è bello lí davanti a lei, con quella sostenutezza da uomo serio!... La vecchia Francia, amico mio, la vecchia Francia!
— E il tuo matrimonio? — chiese il Mouret.
Paolo, senza levar gli occhi di dosso al conte, rispose che aspettavano ancora la morte di quella zia. Poi, tutto allegro:
— L’hai visto? S’è chinato e le ha dato un indirizzo. Lei lo prende con un bel garbo da donna onesta: una donna terribile quella rossa lí, cosí delicata e con quell’aria noncurante... Belle cose succedono in casa tua!
— Oh! — rispose il Mouret sorridendo. — Le signore non son mica in casa mia; sono in casa loro!
E si mise a scherzare. L’amore era come le rondini: portava fortuna alle case. Le conosceva meglio di lui le ragazze che passeggiavano per le sezioni e le signore che per caso incontravano un amico; ma, se non compravano, almeno facevano numero e riscaldavano le stanze. Seguitando a chiacchierare, tirò con sé l’antico compagno sulla soglia della sala in faccia alla grande galleria centrale, che con le sue corti una dietro l’altra si svolgeva ai loro piedi. Dietro avevano la sala con quel suo raccoglimento e scricchiolio di penne e fruscio di giornali. Il vecchio s’era addormentato sul Monitore; il De Boves guardava i quadri con l’intenzione palese di perdere tra la folla il futuro genero. Sola, in mezzo a quella calma, la Bourdelais discorreva a voce alta con i bambini, come se fosse in terre conquistate.
— Non le vedi? sono in casa loro! — ripeté il Mouret, il quale con un gesto largo mostrava la calca delle donne che empiva le sezioni.
La Desforges, dopo aver corso rischio di perdere il mantello tra la folla, entrava finalmente proprio allora, e traversava la prima corte. Poi, giunta alla grande galleria, alzò gli occhi. Pareva una tettoia da stazione, circondata dai ballatoi dei due piani, rotta da scale, traversata da ponti volanti. Scale di ferro, a doppio giro, si alzavano in curve ardite con innumerevoli ripiani; ponti di ferro anch’essi sospesi sul vuoto si slanciavano dritti nell’alto; e tutto quel ferro sotto la luce bianca dei vetri si componeva in un’aerea architettura, in una trina complicata, traverso cui passava la luce del giorno. Era la moderna realtà d’un palazzo visto in sogno, di una Babele sorgente da piano a piano e allungantesi nelle scale con altri piani sopra ed altre sale attorno sino all’infinito. Del resto, il ferro regnava dappertutto; l’ingegnere aveva avuto l’onesto coraggio di non nasconderlo sotto un intonaco che imitasse la pietra o il legno. Piú basso, per non offuscare le merci, gli ornamenti eran sobri, a grandi tratti uniti, color grigio. Poi, a mano a mano che la costruzione metallica saliva, i capitelli delle colonne si facevan piú ricchi, le ribaditure formavano rosoni, le modanature e le cornici eran cariche di statuine. Finalmente, in cima, splendevano i colori, il verde e il rosso, tra l’oro messo dappertutto, a strisce, a strati, fino ai cristalli che erano anch’essi pieni d’ornati d’oro. Sotto le gallerie coperte, i mattoni delle volte erano tinti del pari a colori vivaci. Mosaici e porcellane facevan parte degli ornati, rallegrando i cornicioni, e togliendo un po’ di severità all’insieme; e le scale, guarnite di velluto rosso, avevano le ringhiere lucide come l’acciaio d’un’armatura.
Per quanto conoscesse di già i magazzini nuovi, la Desforges s’era fermata, stupefatta dalla vita ardente che animava quel giorno l’immensa navata. Ai suoi piedi la folla continuava a incalzarsi, e la doppia corrente di quelli che entravano ed uscivano si faceva sentire anche nella sezione delle sete. Folla ce n’era tuttavia d’ogni sorta; ma l’ora inoltrata portava già piú signore fra le borghesucce e le massaie; molte in lutto, con i loro veli lunghi; e sempre delle balie, venute chi sa come, che proteggevano i bambini col gomito proteso. E quei cappelli di tutti i colori, quelle teste bionde e nere, andavan su e giú per la galleria confusamente, tra il vivido splendore delle stoffe.
La Desforges non vedeva intorno che cartelloni con le cifre cubitali staccantisi crudamente sulle indiane colorite, le lucide sete, le lane cupe. Dietro le colonnette di nastri scomparivano a tratti le teste; un muro di flanella si avanzava come un promontorio dietro cui rumoreggiasse un altro mare: dappertutto gli specchi riflettevano infiniti magazzini con brandelli di mostre e frammenti di persone, visi alla rovescia, mezze spalle e mezze braccia. A destra e a sinistra le gallerie laterali s’aprivano, col candore niveo della biancheria e le svariate tinte delle maglie, allungandosi nei raggi che piovevano dalle aperture a cristalli, sotto le quali la folla non era piú se non un pulviscolo umano. Poi quando la Desforges alzava gli occhi, lungo le scale, sui ponti sospesi, intorno alle ringhiere, mirava un viavai continuo e fragoroso di gente che si disegnava in nero sul fondo dei cristalli opachi; grandi lumiere dorate pendevano dal soffitto; le balaustrate apparivano pavesate di tappeti, di sete ricamate, di stoffe intessute con fili d’oro: da un capo all’altro fra le trine e le mussole ondeggianti, s’alzavano trofei di drappo e apoteosi di modelli di legno, mezzi vestiti; e quella confusione multicolore si coronava, nell’alta se zione dei mobili, con la mostra di lettini, forniti dei materassi, seminascosti tra parati bianchi, quasi una camerata di educande addormentate.
— Vuole, signora, delle giarrettiere, a bonissimo prezzo? — disse un commesso alla Desforges, vedendo che non si moveva. — A poco prezzo! tutta seta! un franco e quarantacinque!
La Desforges non rispose nemmeno. Intorno il gridío si faceva sempre più forte e febbrile. Cercò di orientarsi; a sinistra c’era la cassa di Alberto Lhomme, che, conoscendola appena di vista, osò sorriderle amabilmente, senza punto affrettarsi, tra il mucchio delle fatture che aveva sul banco. Dietro a lui, Giuseppe si stizziva con la scatoletta dello spago, non riuscendo a involtare subito la roba.
Allora ella capí dov’era: la seta doveva stare lí innanzi. Ma non le ci volle meno di dieci minuti per arrivarci, tanto la folla aumentava. Per aria i palloncini rossi, retti da fili invisibili, si erano moltiplicati, e si univano in nuvole color porpora scendendo verso le porte per riversarsi in Parigi; c’erano anche dei bambinucci piccini piccini, che, col filo attorcigliato alle manine, venivano innanzi; e la Desforges dové ogni tanto abbassare la testa.
— Come! anche lei, signora, s’è arrischiata? — esclamò tutto contento il Bouthemont non appena la scorse.
Andava ora qualche volta da lei a pigliare il tè. Ve l’aveva presentato il Mouret. A lei pareva volgare, anzi che no, ma cortesissimo, d’un buon umore che la sorprendeva e le faceva piacere. E poi, senza malizia, per fare un po’ di chiasso, le aveva, due giorni innanzi, raccontato, senza pensare a quel che faceva, gli amori del Mouret e di Clara; e rosa dalla gelosia, celando la ferita sotto la noncuranza, ella veniva a cercar di scoprire la ragazza. Non sapeva altro se non che era una delle «confezioni»: il nome non gliel’aveva voluto dire.
— Desidera qualche cosa? — chiese lui.
— Sicuro; se no, non sarei venuta... Avete della seta per vestiti da mattina?
Sperava cavargli di sotto il nome della ragazza, non ne potendo piú dal bisogno di vederla. Bouthemont chiamò subito il Favier, e si rimise a chiacchierare con lei, aspettando il commesso che finiva di servire una cliente, proprio quella bella signora» bionda di cui tutti discorrevano nella sezione senza neanche saperne il nome. Quella volta la «bella signora» era in lutto grave. Chi mai le era morto? il marito o il babbo? Il babbo di sicuro, no; sarebbe stata piú seria. E allora chi? era una donna perbene dacché aveva un marito davvero. Ma poteva anche portare il bruno per la mamma. Per qualche minuto, sebbene il lavoro incalzasse, tutti gl’impiegati si scambiarono supposizioni.
— Lesti! lesti! cosí non va! gridò l’Hutin al Favier, che tornava dall’aver condotta la signora alla cassa. Quando c’è quella lí, non la finite piú... Come se le importasse punto di voi!
— E a me di lei che me n’importa? — rispose l’altro stizzito.
Ma l’Hutin minacciò di far rapporto se non badava un po’ piú a non far aspettare la gente. Era diventato terribile, d’una severità vessatoria, fin da quando la sezione l’aveva aiutato a prendere il posto del Robineau. Si mostrava, anzi, tanto insopportabile, dopo le promesse d’essere un buon compagno, con le quali aveva messi su i colleghi, che questi oramai sostenevano sordamente il Favier contro lui.
— Su! non rispondete? replicò seccamente l’Hutin. — Il signor Bouthemont vi chiede della seta, i disegni piú chiari.
Lí in mezzo, una mostra delle sete da estate rallegrava la sala con un chiarore quasi d’alba, un levarsi del sole, nelle tinte piú delicate della luce, rosa pallido, giallo tenero, azzurro limpi do; velo fluttuante d’Iride. C’eran sete d’una fi nezza aerea, surah piú leggieri della peluria che il vento invola agli alberi, rasi morbidi come la pelle delle vergini cinesi; ce n’erano anche del Giappone e dell’India; senza contare le sete francesi leggiere, a righe, a dadi, a mazzolini, tutti i disegni di fantasia, che facevano pensare alle dame del Settecento passeggianti nelle belle mattine di maggio sotto i grandi alberi d’un parco.
— Piglierò questa, alla Luigi XIV, con i mazzolini di rose — disse finalmente la Desforges.
E mentre il Favier misurava, tentò un’altra volta il Bouthemont che le era rimasto accanto:
— Voglio andare alle «confezioni» per vedere mantelli da viaggio... E bionda quella ragazza che sapete voi?
Il capo della sezione, cui quella insistenza cominciava a dar da pensare, si contentò di sorridere. Ma in quel punto passava Dionisia, che aveva consegnato al Liénard, nei mérinos, la signora Boutarel, quella signora di provincia che due volte l’anno capitava a Parigi per disperdere nel Paradiso quanto aveva potuto rosicchiare sulle spese di casa. E vedendo che il Favier già prendeva la seta della Desforges, l’Hutin per fargli un dispetto la fermò:
— È inutile: la signorina avrà la cortesia di condurre lei la signora.
Dionisia turbata dové pigliare l’involto e la fattura. Non poteva trovarsi a faccia a faccia con l’Hutin senza sentir vergogna, come se le rammentasse una vecchia colpa. Eppure, se mai, non aveva peccato che fantasticando.
— Mi dica un po’ — chiese pian piano la Desforges al Bouthemont. — È quella lí, che non sa far nulla? dunque è stata riassunta? Deve esser lei l’eroina del romanzo!
— Chi sa? — riprese il capo, continuando a sorridere e risoluto a non dire la verità.
Allora, preceduta da Dionisia, la Desforges salí lentamente la scala.
Quasi ogni gradino bisognava si fermasse, per non essere travolta dall’onda di quelli che scendevano. Nel fremito vivente della casa intera, il ferro vibrava sotto i piedi come se tremasse incessantemente al soffio della moltitudine. Ad ogni scalino un fantoccio, dritto, immobile, stava in mostra con un vestito, un soprabito, una veste da camera: parevano una doppia schiera di soldati per qualche parata trionfale, col breve manico di legno come quello d’un pugnale fitto nella felpa rossa sanguinante pel taglio fresco del collo.
La Desforges finalmente stava per arrivare al primo piano quando un’ondata piú forte delle altre la tenne ferma per un altro momento. Aveva ora sotto di sé le sezioni del pianterreno, quel popolo di clienti, ch’ella aveva dovuto attraversare. Era uno spettacolo nuovo: teste, viste di scorcio, che nascondevano il resto della persona, formicolavano. I cartelli bianchi non eran piú che strisce sottili, le colonnette dei nastri parevan basse, il promontorio delle flanelle tagliava la galleria con un muro strettissimo; i tappeti e le sete ricamate, che drappeggiavano sul ballatoio, pendevano ai suoi piedi come gli stendardi delle processioni appesi nel coro d’una chiesa.
Piú lontano la Desforges vedeva gli angoli delle gallerie laterali come dalla vetta d’un campanile si distingue un po’ delle strade vicine, dove confusamente si muovono passeggieri. Ma, anche piú la sorprendeva, quando chiudeva le palpebre, stanchi gli occhi da quell’abbagliante confusione di colori, il sentire la folla nel rumore cupo di marea e il calore umano che n’esalava. Un polverio sottile si alzava dagl’impiantiti, pregno di un odore di donna; odore di biancheria e di capelli; acuto, penetrante, che pareva l’incenso di quel tempio innalzato al culto della beltà femminile.
Il Mouret, intanto, sempre col Vallagnosc, in piedi, davanti alla sala di lettura, respirava quell’odore e se ne inebriava, ripetendo:
— Sono in casa loro; ne conosco di quelle che passano la giornata qui a mangiar pasticcini e scrivere lettere... Non manca altro, che io fornisca a loro anche il letto!
Lo scherzo fece sorridere Paolo cui, nella noia del suo pessimismo, seguitava a parere insulsa la irrequietudine della gente per quei cenci. Quando capitava a far due chiacchiere con l’antico condiscepolo, se n’andava quasi stizzito di vederlo cosí pieno di vita in mezzo a quel suo popolo di civette. Non sarebbe capitata mai una di loro, vuota nel cervello e nel cuore, che insegnasse a costui come la vita è stupida e inutile?
Proprio quel giorno, Ottavio pareva perdesse la sua sicura tranquillità; lui che di solito accendeva la febbre nelle clienti con la pacatezza d’un cerusico, ora era preso anch’esso dalla passione che a poco a poco metteva sossopra i magazzini. Da quando s’era accorto di Dionisia e della Desforges, che salivano lo scalone, parlava a voce piú alta, gesticolava non volendo; e senza mai volgersi dalla parte loro, si animava sempre piú, a mano a mano che piú le sentiva vicine. Il volto gli si accendeva; gli occhi suoi avevano un po’ dell’estasi strana, di cui a lungo andare si abbarbagliavano gli sguardi delle compratrici.
— Ti devon rubare parecchio! — mormorò il Vallagnosc, cui la folla pareva una brigata di malfattori.
Il Mouret spalancò le braccia:
— Non s’arriva nemmeno a immaginarselo!
E, nervosamente, tutto contento d’avere un tema da svolgere, si mise a raccontare fatti, a dar particolari, a fare delle classificazioni. Prima di tutto, c’erano le ladre di professione, ed erano quelle che davano meno noia, perché la polizia le conosceva quasi tutte. Venivano in secondo luogo le ladre per mania, per un pervertimento del desiderio; nuova malattia nervosa che un alienista aveva già studiata, verificando che andava sempre crescendo, per la continua tentazione dei grandi magazzini. Da ultimo, c’erano anche le donne gravide che rubavano un oggetto solo: per esempio, da una di loro il commissario di polizia aveva trovato duecentoquarantotto paia di guanti color rosa, rubati in tutti i negozi di Parigi.
Per questo, — disse il Vallagnosc — le donne han qui certi occhi cosí curiosi! Le guardavo io, e mi parevano quasi pazze con quei visi ingordi e ignobili... Bella scuola d’onestà!
— Dio buono! — rispose il Mouret — per quanto si cerchi di fare che qui siano in casa loro, non si può mica permettere che si portino via la roba sotto il mantello. E persone di buona famiglia, sai? Anche la settimana scorsa, la sorella d’un farmacista e la moglie d’un consigliere di tribunale. Anzi, ora si cerca d’abbuiare.
S’interruppe per additare il Jouve che appunto teneva dietro a una donna incinta; giú, nella sezione dei nastri. Quella donna, la cui pancia enorme doveva patire molto per gli urti della gente, era accompagnata da un’amica che la difendesse da spinte troppo forti; e ogni volta che si fermava davanti a una sezione, il Jouve non le levava gli occhi di dosso, mentre l’amica, accanto a lei, frugava a tutto suo agio nelle scatole.
— Oh, ma ce l’acchiappa! — aggiunse il Mouret — quello lí le sa tutte, le loro arti!
La voce gli tremò, e sorrise forzatamente. Dionisia ed Enrichetta, ch’egli non aveva mai smesso di tener d’occhio, passavano finalmente dietro di lui, dopo avere avuto un bel da fare per uscir dal pigiapigia. Si volse a un tratto, e salutò la cliente col saluto discreto d’un amante che non vuol compromettere la sua donna, fermandola in pubblico. Se non che lei, che già sospettava, s’era accorta molto bene dell’occhiata lanciata su Dionisia. Doveva essere proprio quella la rivale ch’ella era curiosa di conoscere.
Al «vestiario» le ragazze perdevano la testa. Due di loro erano malate, e la signora Frédéric s’era licenziata il giorno innanzi, facendosi fare alla cassa il conto, e piantando il Paradiso da un momento all’altro, in quel modo stesso che il Paradiso piantava i propri impiegati. Fin dalla mattina, anche in quel trambusto della vendita, non si faceva che discorrere di ciò. Clara, che il capriccio del Mouret faceva sicura e padrona di dire tutto senza timore, reputava l’atto della signora Frédéric molto chic; Margherita raccontava la bile del Bourdoncle; e la signora Aurelia, stizzita, diceva e ripeteva che la Frédéric glie l’avrebbe dovuto dire avanti, perché era una cosa quella lí che non s’era data mai. Per quanto non se ne fosse mai aperta con nessuno, sospettavano che stesse per sposare il padrone d’uno stabilimento di bagni verso i mercati centrali.
— Vuole un mantello da viaggio? — chiese Dionisia alla Desforges, dopo averle offerta una seggiola.
— Sí, — rispose seccamente, col proposito d’essere scortese.
La nuova sezione era ricca ma con serietà: alti armadi di quercia intagliata, specchi grandissimi, un tappeto rosso che attutiva lo scalpiccio continuo delle clienti. Mentre Dionisia era andata a prendere dei mantelli, la Desforges, guardando intorno, si vide in uno specchio e si studiò. Doveva essere un bel po’ invecchiata, se la tradivano cosí per la prima ragazza venuta! Lo specchio rifletteva intera la sezione con tutto l’affaccendamento; ma ella non vedeva che il suo viso pallido, e non sentiva Clara che, dieuna tro le sue spalle, raccontava a Margherita un delle furberie della Frédéric, la quale, mattina e sera, passava per la galleria Choiseul facendo un bel giro, apposta per dare a intendere che stava di casa di là dalla Senna.
— Questi sono gli ultimi modelli disse Dionisia. — Ce ne abbiamo di diversi colori.
E ne spiegò quattro o cinque. La Desforges li guardò sprezzante; a mano a mano che ne guardava uno, diventava piú aspra. Perché c’erano tutte quelle pieghe che striminzivano l’abito? e quell’altro, cosí quadro di spalle, non pareva tagliato con l’accetta? Viaggiare non voleva mica dire insaccarsi!
— Fatemi vedere qualche altra cosa, signorina.
Dionisia spiegava e ripiegava, senza lasciarsi mai sfuggire un gesto di stizza; e quella serena pazienza faceva peggio indispettire la Desforges, che continuamente si rimetteva a guardarsi nello specchio di faccia. Ora che era accanto a Dionisia, poteva far dei confronti. Era possibile mai, che le fosse stata preferita una ragazzuccia come costei! Se ne rammentava bene: era proprio quella che aveva vista, da principiante, sciocca e buona a nulla, come una guardiana d’oche che arrivi dalla campagna. Ora sapeva, certamente, muoversi un po’ meglio nel suo vestito di seta, e aveva un aspetto piú decente. Ma che miseria, che volgarità!
— Le farò vedere altri modelli — diceva tranquillamente Dionisia.
Quando tornò, fu la stessa scena di prima: le stoffe erano troppo pesanti, non valevano un soldo. La Desforges si voltava e alzava la voce cercando d’attrarre l’attenzione della signora Aurelia, con la speranza di farle fare una strapazzata alla ragazza. Ma, da quando quest’ultima era rientrata nella sezione, a poco a poco se l’era saputa amicare: ci stava come in casa propria, ora; e la direttrice notava in lei singolari attitudini per la vendita; dolcezza ostinata, la persuasione sorridente.
— Se mi volesse dire che genere desidera... — domandò di nuovo Dionisia con insistenza imperturbabile e cortese.
— Ma se non avete nulla di buono! — esclamò la Desforges.
S’interruppe, sentendosi posare una mano sulla spalla: era la Marty che correva pel magazzino, trascinata dalla sua furia di spendere. Aveva comprato tanta roba, dopo le cravatte, i guanti, l’ombrellino rosso, che l’ultimo commesso aveva dovuto deporre su una seggiola l’involto per non farsi tribbiare le braccia; e la precedeva strascinandosi dietro la seggiola su cui s’ammucchiavano gonnelle, tovaglioli, tende, un lume, tre stuoini.
— To’, disse vi comprate un mantello da viaggio?
— Oh, Dio mio! no... — rispose la Desforges. Sono uno peggio dell’altro.
Ma la Marty s’era precipitata su un mantello a righe che non le pareva tanto brutto; e Valentina già lo guardava attentamente. Allora, Dionisia chiamò Margherita perché mostrasse il mantello, ch’era un modello dell’anno innanzi; e Margherita, fatta accorta da un’occhiata della compagna, lo vantò come una occasione straordinaria. Quando le ebbe giurato che era stato ribassato due volte, mettendolo da centocinquanta e da centotrenta a centodieci franchi, la Marty non poté piú resistere alla tentazione del prezzo mite. Se lo comprò, e il commesso che l’accompagnava lasciò lí tutto, seggiola, fatture, mercanzie.
Tra il fervore della vendita, dietro le signore, continuavano intanto le chiacchiere sulla Frédéric.
— Davvero! aveva un amante? — diceva una ragazza venuta di fresco.
— Quello dei bagni, sicuro! — rispose Clara. Le acque chete rovinano i ponti; e poi, si sa, certe vedove cosí tranquille...
Allora, mentre Margherita le stava vendendo il mantello, la Marty si voltò, e, accennando Clara con la coda dell’occhio, disse pianissimo alla Desforges:
— Eccola lí; quella è l’amante del Mouret; un altro capriccio!
L’altra, stupefatta, guardò Clara, poi di nuovo Dionisia, e rispose:
— Ma no, è quella piccolina!
E non osando la Marty affermare piú nulla, la Desforges, a voce piú alta, con un disprezzo da signora che discorra di cameriere:
— La grande, la piccola, tutte quelle che lo vogliono!
Dionisia aveva sentito: impallidí, e alzò i suoi grandi occhi puri sulla signora che la feriva a quel modo, e ch’ella non conosceva nemmeno. Doveva essere colei di cui le avevan parlato, l’amante del Mouret. Nell’occhiata che si dettero, Dionisia ebbe allora una dignità piena di tanta tristezza, tale una schiettezza di candore, che Enrichetta perse un po’ del suo contegno:
— Giacché non avete nulla che mi vada, — disse a un tratto — portatemi ai vestiti.
— Per l’appunto, — esclamò la Marty — ci devo andare anch’io... Volevo comprare un vestito per Valentina.
Margherita prese la seggiola e la trascinò su le gambe di dietro, consunte a lungo andare da quell’uso. Dionisia non portava che i pochi metri di seta comprati dalla Desforges. Dovevan fare un vero viaggio, ora che i vestiti stavano al secondo piano, dall’altra parte dei magazzini.
S’avviarono per le gallerie piene di gente. Prima di tutte veniva Margherita, che si tirava dietro la seggiola come fosse una carrozzina, e adagio adagio faceva la strada alle altre. Fin dalla biancheria la Desforges cominciò a lamentarsi: bella invenzione quella dei bazar, dove, per comprare magari uno spillo, bisognava far due miglia! La Marty diceva che anche lei non ne poteva piú; ma non per questo si divertiva meno profondamente di quella fatica, di quel lento venirle meno le forze, in mezzo all’inesauribile tramestío delle merci.
Il Mouret l’aveva vinta e doma, con quella sua trovata; ogni sezione la costringeva a fermarsi. Si fermò da principio davanti ai corredi, tentata da certe camicie che Paolina riuscí ad appiccicarle; e Margherita fu cosí liberata dalla seggiola che toccò a Paolina con tutte le fatture. La Desforges avrebbe potuto tirar di lungo per lasciar andare avanti Dionisia; ma pareva godesse di sentirsela dietro, immobile e paziente, mentre ella si fermava a consigliare l’amica.
Dinanzi ai corredini pei bimbi le signore andarono in estasi, ma non comprarono nulla. Poi, la Marty non si contenne piú e comprò le une dopo le altre una vita di seta bianca, delle manopole di pelliccia date con ribasso, per via della stagione, delle trine russe da guarnire la biangl’involti facendola scricchiolare, e i commessi cheria da tavola. Sulla seggiola s’ammucchiavano si succedevano, sempre piú stanchi, a mano a mano che il carico era piú grave.
— Per di qua, signora, — diceva Dionisia dopo ogni fermata, senza mai lamentarsi.
— È una stupidaggine bella e buona! — esclamava la Desforges. — Non si arriva mai! Come si fa a non aver messo i mantelli accanto alle «confezioni»? Un bell’imbroglio è questo!
La Marty, con gli occhi spalancati, ubriacata da tante belle cose che le passavan dinanzi agli occhi, si abbandonava ormai intera alla furia di spendere, contentandosi di borbottare fra i denti:
— Dio mio! che ne dirà mio marito? Avete ragione voi! non c’è ordine, in questo magazzino. Ci si perde la testa, e si fanno delle sciocchezze.
Nel gran pianerottolo di mezzo, la seggiola quasi quasi non poté passare. Il Mouret l’aveva ingombrato con un monte di oggetti parigini, tazze col piede di zinco dorato, astucci e portaliquori, perché gli era parso che ci fosse troppo posto vuoto, è la gente non ci si accalcasse abbastanza. Ed aveva cosí permesso, a uno dei suoi venditori, d’esporre su un tavolino le curiosità della Cina e del Giappone, gingilli da pochi soldi, che le signore si leticavano. Era un buon successo inaspettato; pensava di già a ingrandire quella vendita. La Marty, mentre i due garzoni portavano la seggiola al secondo piano, comprò sei bottoncini d’avorio, dei topini di seta, e un portafiammiferi di smalto a colori.
Al secondo piano il viaggio ricominciò. Dionisia, che dalla mattina non faceva che andare, cosí, su e giú con le signore, moriva di stanchezza; ma non usciva dalla pacata cortesia. Dové aspettare ancora alle stoffe per mobili; dove un crétonne splendido fermò la Marty. Poi, ai mobili, questa comprò un tavolino da lavoro. Le tremavano le mani, supplicava ridendo la Desforges a trattenerla dallo spendere dell’altro, quando lo imbattersi nella Guibal le forní una scusa verso se medesima.
Nella sezione dei tappeti la Guibal era finalmente salita a rendere certe portiere turche che aveva comprate cinque giorni innanzi; e stava discorrendo col commesso, un pezzo di giovinotto, che dalla mattina alla sera smoveva pesi da ammazzare un bove. Era naturale che costui fosse scontentissimo d’una resa che gli portava via il suo tanto per cento; e quindi egli faceva di tutto per mettere nell’impiccio la cliente, immaginando Dio sa che indelicatezze; per lo meno un ballo dato con le portiere del Paradiso, per risparmiare anche quei pochi franchi del nolo. Sapeva che qualche volta i borghesi economi fan cosí. La signora, insomma, doveva avere una qualche ragione per riportarle: era il disegno? era il colore? glie ne avrebbe fatte vedere delle altre; ce n’era un bellissimo assortimento. Ma la Guibal rispondeva con una dignità da regina, che non le piacevan piú, senza aggiungere altra spiegazione. Non volle veder piú nulla; e toccò a lui striderci, perché i commessi avevan l’obbligo di riprendere le merci, anche se si accorgessero ch’erano state adoperate.
Mentre le tre signore se n’andavano insieme, la Marty ebbe un po’ di rimorso per il tavolino da lavoro, di cui non aveva punto bisogno; ma la Guibal, con la sua solita pace, le osservò:
— Che vuol dire? lo renderete!... Avete visto? non ci vuol niente... Fatevelo portare a casa: lo mettete nel salotto, gli altri ce lo vedono; poi, quando v’è venuto a noia, lo riportate.
— To’! questo mi piace! — esclamò la Marty. — Se mio marito se la prende un po’ troppo calda, riporto ogni cosa.
E con quella scusa non stette piú a fare i conti, ma comprò, e comprò col bisogno intimo di tener tutto per sé; perché non era davvero di quelle donne che riportano.
Finalmente giunsero ai vestiti. Ma mentre Dionisia stava per consegnare a una delle ragazze la seta della Desforges, questa parve si ricredesse, e disse che voleva pigliare uno di quei mantelli da viaggio, quello grigio chiaro, col cappuccio; e allora Dionisia dové aspettare pazientemente per ricondurla all’altra sezione.
Sentiva come la signora la volesse trattare da serva, con quei capricci da cliente imperiosa; ma voleva non sgarrare una linea dal suo dovere, e si serbava apparentemente tranquilla, per quanto ogni tanto si sentisse sul punto di ribellarsi. La Desforges non comprò nulla alla sezione dei vestiti.
— Mamma! — disse Valentina — quel vestitino lí, se mi stesse!...
La Guibal stava spiegando sommessamente alla Marty in che modo procedeva lei. Quando un vestito le piaceva, se lo faceva mandare, ne ricavava il modello e poi lo rimandava. E la Marty comprò il vestito per la figliuola, sussurrando:
— Questo sí ch’è un buon consiglio! Eh siete pratica voi, cara signora!
Avevano dovuto lasciar la seggiola nella sezione dei mobili, accanto al tavolino da lavoro, perché i piedi di dietro minacciavano rompersi: e tutte le compre dovevano essere portate ad una delle casse per andar poi all’ufficio delle spedizioni.
Sempre guidate da Dionisia, le signore se la passeggiavano in santa pace per tutte le sezioni: non si vedevano che loro per le scale e lungo le gallerie; ogni momento si fermavano. Fu cosí che, accanto alla sala di lettura, trovarono la Bourdelais con i suoi bambini carichi d’involti. Maddalena aveva sotto il braccio un vestitino per sé, Edmondo una collezione di scarpine, e il più piccino, Luciano, aveva in capo un berrettino nuovo.
— Anche tu? — disse ridendo la Desforges alla compagna di collegio.
— Non me ne parlare! — esclamò la Bourdelais. — Son fuor di me dalla rabbia... O che non vi acchiappano ora, mettendo su queste creaturine? Per me, tu sai, non spendo un soldo; ma come si fa a resistere ai bambini che vogliono tutto quel che vedono? Ero venuta a fare una passeggiata, e guarda... porto via con me mezzo magazzino!
Per l’appunto il Mouret, che era ancora lí col Vallagnosc e il De Boves, la stava a sentire sorridendo. Lei se n’accorse e, con un po’ di stizza vera, si lamentò scherzosamente di quei tranelli tesi alla bontà delle mamme: il pensiero d’aver ceduto all’inganno della propaganda le faceva rabbia; ed egli continuava a sorridere, a inchinarsi, a godere di quella vittoria. Il De Boves, intanto, aveva fatto in modo da avvicinarsi alla Guibal, cui tenne poi dietro, cercando un’altra volta di liberarsi dal Vallagnose; ma questi, stanco di tanta calca, s’affrettò a raggiungerlo.
Dionisia s’era da capo dovuta fermare per aspettare le signore, e voltava loro le spalle; il Mouret stesso faceva le viste di non vederla. Allora la Desforges, con l’istinto delicato della gelosia, non ebbe nessun dubbio. Mentre egli le faceva complimenti, e l’accompagnava un po’ da quel padron di casa galante che era, ella studiava il modo di fargli confessare il tradimento.
In questo mentre il De Boves e il Vallagnosc che camminavano innanzi con la Guibal eran giunti alle trine. Accanto alle «confezioni» ci era una sala di gran lusso, con mobili di quercia scolpita, le cui cassette si aprivano tirandone giú le parti dinanzi. Intorno a certe colonne, ricoperte di velluto rosso, salivan a spirale le trine bianche: da una parte all’altra della stanza correvano merletti; sui banchi si ammucchiavano rotoli di valenciennes e di malines. In fondo, due signore stavano a sedere davanti a un trasparente di seta color malva, su cui il Deloche metteva le trine di Chantilly, e guardavano senza mai risolversi e senza aprir bocca.
— Guarda! — esclamò il Vallagnosc, strabiliato. — Dicevate che la signora si sentiva poco bene... Ed eccola, invece, accanto a quel banco laggiú, con la signorina Bianca.
Il conte non poté frenare uno scossone, con un’occhiata di traverso sulla Guibal.
— Per bacco! son proprio loro!
Nella sala c’era un gran caldo, le voci svanivano in un confuso mormorío. Le signore vi si sentivano soffocare, e avevano il viso pallido e gli occhi lucenti. Si sarebbe detto che tutte le seduzioni del magazzino conducessero a quella tentazione suprema, e che quella fosse la stanza intima della colpa, l’angolo dove le piú forti cadevano, in mezzo alle trine. Le mani, nel tuffarsi in quel morbido candore, tremavano dal piacere.
— Quelle signore vi rovinano! — riprese il Vallagnosc, che si divertiva moltissimo a quell’incontro.
Il De Boves fece un gesto da marito sicurissimo della moglie, tanto piú che non le dava mai un centesimo. Essa, dopo aver corso per tutte le sezioni con la figliuola senza comprar nulla, era giunta alle trine stizzita di bramosia insoddisfatta. Stanca morta, pur continuava a guardare; e i milioni di merci che aveva veduti, tutta quella roba che desiderava e non poteva portar via con sé, l’accecavano, la sbalordivano. Per un po’ rimase tra la gente che faceva ressa al banco: e frugava nel mucchio delle trine, sentendosi salire brividi caldi su per le braccia, fino alle spalle; poi a un tratto, mentre la figliola si era voltata da un’altra parte e il commesso s’allontanava, volle nascondere sotto il mantello una pezza di trina d’Alençon. Ma ebbe un sussulto e la lasciò ricadere, sentendo la voce del Vallagnosc che diceva allegramente:
— Vi abbiamo scoperta, signora mia!
Per qualche secondo tacque, bianca come un panno lavato; poi si mise a spiegare come s’era sentita meglio e aveva voluto pigliare una boccata d’aria. E accorgendosi alla fine che suo marito era con la Guibal, si riebbe del tutto, e li guardò con aria di tanta onestà, che costei dové dire:
— Ero con la Desforges, e ho incontrati questi signori.
Giungevano in quel punto le altre signore. Il Mouret le aveva accompagnate e le trattenne ancora un momento per mostrar loro il Jouve, che pedinava sempre la donna gravida e l’amica.
Era da non credere quante ladre restavan colte mentre rubavan trine. La De Boves, che ascoltava, si vedeva già messa tra due guardie, alla sua età di quarantacinque anni, col suo lusso, con un marito che esercitava un cosí alto ufficio; eppure non sentiva rimorso, e pensava che avrebbe fatto meglio a ficcarsi la trina in una manica. Il Jouve intanto, disperando di coglierla sul fatto, s’era risolto di fermare la donna gravida, quasi sicuro che si fosse empita anche le tasche con una sveltezza di mano tale, da non farsi scorgere. Ma quando l’ebbe tirata da parte e la frugò, rimase male a non trovarle addosso nemmeno una cravattina, nemmeno un bottone. L’amica se n’era andata. Allora capí; la donna gravida era per tenerlo a bada, e chi aveva rubato era l’amica.
Le signore ci si divertivano moltissimo. Il Mouret, un po’ stizzito, si contentò di dire:
— Il buon Jouve questa volta è stato messo nel sacco... ma si vendicherà!
— Oh! — conchiuse il Vallagnosc — non mi pare troppo adatto... Già, se vi rubano, fanno bene: chi v’insegna a metter lí in mostra tanta roba? Non si devono tentare, fino a questo punto, le povere donne senza difesa.
Furon le ultime parole che sonarono come la nota stridula della giornata, nel tumulto crescente dei magazzini. Le signore si separarono, attraversando un’ultima volta le sezioni affollate. Erano le quattro; i raggi del sole che si volgeva al tramonto entrarono obliquamente per le larghe aperture della facciata a illuminare le invetriate delle corti; e in quel chiarore d’un rosso d’incendio salirono come un aureo vapore i polviscoli sollevati nella mattina dallo scalpiccio della folla. La luce coglieva per mezzo la grande galleria centrale, e sul fondo rosso spiccavano le scale, i ponti, tutto quel ferro sospeso per aria. I mosaici e le porcellane dei cornicioni lampeggiavano; il verde e il rosso delle pitture si accendevano nei fuochi di quell’oro. Pareva una brace viva dove ardessero le mostre, i palazzi di guanti e di cravatte, le ghirlande di nastri e di trine, gli alti mucchi di lana e bordato, le aiuole fiorenti delle sete. Gli specchi luccicavano. L’esposizione degli ombrelli, rigonfi come scudi, gittava riflessi metallici. Lontano, di là dalle strisce d’ombra, apparivano le sezioni splendenti e brulicanti, indorate dal sole.
E in quell’ora suprema, in mezzo a quell’atmosfera ardente, le donne imperavano: avevan presi d’assalto i magazzini e là si accampavano come in terre conquistate, quasi un’orda invadente fermatasi tra la rovina delle merci. I commessi, sbalorditi, rotti dalla fatica, erano in loro balia, ed esse comandavano con tirannia da sovrana. Alcune pigiavano a spinte la gente; perfino le piú sottili volevano stare al largo, e diventavano arroganti. Tutte con la testa alta, senza nessun riguardo l’una per l’altra, usando del da magazzino e abusandone piú che potessero, furibonde. La Bourdelais, per riprendere i quattrini spesi, aveva portato daccapo i tre bambini a bere sciroppo: la gente vi si accalcava ora come se non ne potesse piú dalla sete; le mamme stesse s’inzuppavano di malaga: dalla mattina non c’erano voluti meno di ottanta litri di sciroppo, cinquanta di vino. Dopo aver comprato il mantello, la Desforges s’era fatta dare alla cassa delle figurine; e se n’andava pensando come far venire Dionisia da lei per umiliarla in presenza del Mouret stesso, e nel loro aspetto scernere la verità. Finalmente mentre il De Boves riusciva a sperdersi nella folla con la Guibal, la De Boves, con Bianca e il Vallagnosc, aveva avuto il capriccio di chiedere un palloncino rosso benché non avesse comprato nulla. Faceva sempre cosí; a mani vuote non se ne voleva andare; l’avrebbe regalato al bambino del portinaio. Dei palloncini ne avevano già dati via piú di trentanovemila; e questi quarantamila palloncini, usciti dall’aria calda dei magazzini, volavano già come una nuvola rossa da un capo all’altro di Parigi levando al cielo il nome del Paradiso delle signore.
Sonaron le cinque. Soltanto la Marty era rimasta con la figliuola a mirar l’ultimo moto della vendita; né aveva la forza di staccarsene, sfinita, stracca, ma trattenuta da vincoli cosí forti che tornava sempre sui suoi passi, senza bisogno, tanto per portare attorno per le sezioni la curiosità insaziata. Era l’ora che la gente, eccitata dal baccano dei richiami in gloria del gran magazzino, si dava addirittura per vinta: i sessantamila franchi di avvisi pagati ai giornali, i diecimila cartelli affissi sui muri, i duecentomila cataloghi sparsi dappertutto, dopo aver votato le borse, lasciavano a quei nervi di donna il sussulto della ebrezza: e le donne restavano commosse ancora delle invenzioni del Mouret, i prezzi bassi, la resa, le galanterie infinite. La Marty s’indugiava dinanzi alle rauche grida dei venditori, tra il tintinnio dell’oro versato nelle casse e il rumore degl’involti che cadevano nel sotterraneo: attraversò un’altra volta il pianterreno, la biancheria, la seta, i guanti, le lane, e poi risalí abbandonandosi alla vibrazione metallica delle scale, dei ponti, tornò alle «confezioni», alla biancheria, alle trine, e montò fino al secondo piano tra i letti e la mobilia.
Dappertutto i commessi, l’Hutin, il Favier, il Mignot, il Liénard, il Deloche, Paolina e Dionisia, reggendosi appena ritti, davano il colpo di grazia, e, aiutati da quell’ultima febbre, atterravano le clienti. La febbre non aveva fatto che crescere, dalla mattina in poi, a poco a poco, come l’ebrezza che vaporava dalle stoffe smosse e rimosse. Fiammeggiava la calca sotto l’incendio del sole delle cinque. La Marty aveva il viso animato e nervoso d’un bambino che ha bevuto troppo vino puro. Era venuta con gli occhi limpidi, con la pelle fresca pel freddo della via, e a un po’ per volta s’era infiammata gli occhi e il viso nell’avida contemplazione di quel lusso, di quei colori accesi, da cui le veniva attizzata e rinfocolata la passione. Quando finalmente uscí, dopo aver detto che avrebbe pagato a casa, atterrita dal conto, aveva i lineamenti contratti e gli occhi infossati come una malata. Bisognò che desse assai spinte per uscire dalla ressa ostinata sulla porta; si ammazzavano quasi, contendendosi gli scarti. Poi, quando fu sul marciapiede ed ebbe ritrovata la figliuola che aveva perduta, si sentí un brivido a quell’aria pungente, e rimase stordita, stralunata, nello spossamento di tanto sussulto nervoso.
La sera, mentre Dionisia usciva da desinare, un garzone la chiamò:
— Signorina, vi vogliono alla Direzione.
S’era dimenticata l’ordine del Mouret, di passare nel suo studio dopo la vendita. Egli l’aspettava in piedi. Nell’entrare, Dionisia non si tirò dietro l’uscio, che restò aperto.
— Siam contenti di voi, signorina, e abbiamo pensato di attestarvelo in qualche modo... Sapete come la signora Frédéric ci abbia lasciati, e in che modo indecente. Fin da domani prenderete il posto di lei.
Dionisia stava a sentire, immobile dalla meraviglia. Poi mormorò con voce tremante:
— Ma ci sono di quelle innanzi a me, nella sezione!
— Che vuol dire? Voi siete la piú brava, la piú seria; e scelgo voi, è naturale... Siete contenta?
Allora ella arrossí; sentiva insieme una contentezza e un imbarazzo piacevole, in cui svaniva la paura di poco fa. Perché mai il suo primo pensiero era volato ai sospetti onde sarebbe accolto quell’insperato favore? Ma, per quanto grande fosse l’impeto della riconoscenza, quel pensiero la rendeva confusa. Il Mouret la guardava, sorridendo, vestita di seta semplice, senza un gioiello, senz’altro lusso che quello della regale chioma bionda. S’era fatta piú elegante; la pelle le si era schiarita; aveva l’aspetto serio e delicato. La sua inespressiva esilità di prima si era mutata in una grazia attraente, incantevole.
Lei è troppo buono, — balbettò — e non so come esprimerle...
Ma non poté seguitare. Nel vano dell’uscio il Lhomme si presentava tenendo nella sua unica mano un gran sacchetto di cuoio, e col braccio mutilato stringendosi al petto un portafoglio enorme; dietro lui, il figlio suo, Alberto, portava un carico di sacchetti da rompergli le braccia.
— Cinquecentottantamila duecentodieci franchi, e trenta centesimi! — gridò il cassiere, cui il volto s’illuminò d’un raggio di sole nel pronunziar tanta cifra.
Il Paradiso non aveva guadagnato mai quanto quel giorno. Lontano, dalla profondità dei magazzini che il Lhomme aveva lentamente attraversati col passo pesante d’un bove troppo carico, si sentiva il clamore della meraviglia e della gioia che l’immane incasso lasciava dovunque passava.
— Bene! — disse il Mouret gongolando. — Mio bravo Lhomme, posate qui tutto e riposatevi perché non ne potete piú. Ci penserò io a far portare il danaro alla cassa centrale... Sí, sí, tutto lí sul mio banco: voglio vedere il monte!
Era allegro come un bambino. Il cassiere e il suo figliuolo si scaricarono. Il sacco mandò un acuto tintinnio d’oro; due dei sacchetti si strapparono lasciando cascare argento e rame; e dal portafoglio fecero capolino biglietti di banca. Quasi mezzo il gran banco ne fu coperto; era un patrimonio piovuto giú in dieci ore.
Quando il Lhomme e Alberto se ne furono andati, asciugandosi la fronte, il Mouret rimase immobile un istante, sopra pensiero, con gli occhi fissi sul danaro. Poi, alzando il capo, vide Dionisia che s’era scostata; e ricominciò a sorridere, la fece riavvicinare, e alla fine le disse che le voleva dare quanto oro potesse pigliare con una manciata. In fondo allo scherzo c’era una dichiarazione d’amore.
— Qui nel sacco! scommetto che non pigliate mille franchi! Avete la mano tanto piccina!
Ma Dionisia, impallidita, dava addietro. Dunque le voleva bene? E a un tratto capí, sentí la fiamma crescente del desiderio, di cui egli la ricingeva da ch’era tornata al Paradiso. E il cuore le batteva in modo da quasi spezzarsi. Perché la offendeva con quel suo denaro, quando ella traboccava di gratitudine, e una parola sola l’avrebbe fatta svenire? Lui s’avvicinava continuando a scherzare, quando, a sommo suo dispetto, comparve il Bourdoncle col pretesto di dirgli quanta gente era entrata: nientemeno che settantamila persone!
Dionisia ringraziò daccapo, e s’affrettò ad andarsene.