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camminare per la stanza; ma le fu forza d’appoggiarsi ai mobili, perché zoppicava ancora. Sperava, camminando, di vincere il male; ma non aveva accettato l’invito quella sera a pranzo dallo zio Baudu, e aveva pregato la zia di portare a spasso Beppino, che aveva rimesso dalla Gras. Gianni, che il giorno avanti era venuto a farle visita, doveva anche lui desinare dallo zio.

Pian piano si sforzava a camminare, con l’intenzione d’andare a letto presto, per riposarsi la gamba, quando la sorvegliante, la Gabin, picchiò e le diè una lettera con aria di mistero.

Chiuso l’uscio, Dionisia, meravigliata del sorriso furbo di quella donna, aprí la lettera. Diventò pallida pallida, e si lasciò andare su una seggiola. Era una lettera del Mouret, nella quale egli, dicendosi contentissimo di saperla guarita, la pregava, giacché non poteva uscire, di scendere la sera a desinare con lui. Il tono di quel biglietto, familiare a un tempo e paterno, non aveva nulla d’offensivo, ma non c’era da fraintenderlo; tutti nel Paradiso sapevano ciò che quegli inviti volessero dire, e ne avevano ormai fatta una leggenda. Anche Clara aveva pranzato col padrone, ed anche tante altre; tutte quelle che gli piacevano. Dopo il desinare, dicevano quei burloni dei commessi, veniva il dolce. E le gote pallide della giovinetta si fecero a poco a poco di fiamma.

Allora la lettera le scivolò dai ginocchi, e Dionisia, mentre il cuore le batteva forte, rimase con gli occhi fissi su una delle finestre. L’aveva confessato fra sé piú volte, in quella camera stessa, nelle ore d’insonnia; se tremava ancora quand’egli passava, lo sapeva che non era per paura; e quel malumore di prima, quella sua antica


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