Il mio diario di guerra/II/Un mese tra le montagne della Carnia

Un mese tra le montagne della Carnia

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Un mese tra le montagne della Carnia
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Un mese tra le montagne della Carnia



25 Marzo.

Cerco da cinque giorni il mio battaglione.

L’ho lasciato a Serpenizza a riposo. So che è rimasto dieci giorni a Pinzano sul Tagliamento. Poi è partito per la Carnia, ma per destinazione ignota. Giro da cinque giorni, in lungo e in largo, la Carnia, a piedi e in ferrovia. Da Tolmezzo a Paluzza. La colonna dei bersaglieri che tornano dalla licenza invernale è scortata da due carabinieri a cavallo. Attraversiamo il ponte del But che «irrompe e scroscia». Si marcia in ordine. Ecco Terzo, Cedarchis, Enemonzo, Arta. Ho appena il tempo di leggere l’epigrafe che ricorda il soggiorno di Giosuè Carducci in questi luoghi.

Un po’ di sole. La strada s’inoltra fra abetaie foltissime e odoranti. C’è nell’aria il tepore della primavera. I torrenti ingrossati dal disgelo urlano tra le gole dei monti. Verso Paluzza, la valle del But si allarga. A Paluzza, il maggiore degli alpini, che sta al Comando di tappa, mi dice, finalmente, dove si trova il mio battaglione. Lo [p. 120 modifica]raggiungerò domani. Passo la serata a Paiuzza, popolala da soldati di ogni arma. Il paese è intatto. L’artiglieria nemica non lo ha mai raggiunto. Timau, invece, secondo quanto mi dicono abitanti di Paiuzza, è una rovina. Timau è l’ultimo abitato che si trova, prima di raggiungere le posizioni ormai famose del Pal Piccolo, Pal Grande, Freikofel.

26 Marzo.


Giunge dal Freikofel il rombo ininterrotto del cannone. Si combatte. Ma l’eco della battaglia vicina non sembra turbare eccessivamente i cittadini di Paiuzza. La caratteristica chiesetta, dinanzi alla fontana, rigurgita di gente che ascolta la messa. Gruppi, fra i quali sono molti soldati, stanno davanti alla porla principale e a quelle laterali. Un sergente maggiore del Comando di tappa mi informa che da Timau si sono chieste, «tutte le ambulanze disponibili». Ciò dà un’idea della gravità del combattimento.

Alle undici ci raduniamo per partire. Siamo accompagnati dal sottotenente Menini, lombardo. Addio Paluzza! Attraversiamo il But e tocchiamo Cercivento. Segue Ravascletto, dove troviamo la neve. Siamo a 947 metri. Vecchi e donne sono nelle strade a godersi il sole e il riposo domenicale. Un particolare significativo che denota il patriottismo di queste popolazioni. A Ravascletto — paese di poche centinaia di anime — sono state sottoscritte ben 25 mila lire per il terzo prestito [p. 121 modifica]nazionale. Sosta per il rancio che confezioniamo in casa di un contadino che ci offre le marmitte. In marcia! Ora la strada riscende. Il panorama che si offre allo sguardo è sempre incantevole. Carnia pittoresca e ospitale!! Breve tappa a Paularo: un villaggio. Entriamo in una casa — che ha una certa grazia di villetta signorile — per bere un sorso d’acqua. Ci viene offerta, con gentilezza, dalle donne di casa. Tre ragazze: Mina, Antonietta, Maddalena. Noto un grande ritratto di Benedetto Cairoli e uno piccolo di Gabriele d’Annunzio. Donne italianissime. Cantiamo insieme l’inno di Oberdan. Saluti e auguri.

Ecco Comegliaus, da dove comincia la valle del Degano. Tappa serale a Rigolato, pieno di alpini del 3°. Sono giovani del ’96 provenienti da Torino. Le osterie sono affollate di soldati. Nelle strade non ci sono fanali. Buio pesto. Ma da un accantonamento, non lungi dalla strada principale, si leva un coro:

Al 27 maggio

Al tramonto del sol,
Affondavasi una barca
Nel Lago Maggior.

· · · · · · ·
Bella che dormi

Sul letto dei fior,
Svegliati e poi ricevi

Un bacio d’amor...
Il coro lento a tre voci si diffonde con una certa solennità nella notte stellata. [p. 122 modifica]

27 Marzo.


Da Rigolato a Forni ci sono 7 km. e mezzo di strada maestra. A Forni ce il Comando del mio battaglione. Lungo la strada, il solito movimento delle retrovie: biciclette, carri, camions.

Incontriamo una piccola automobile della Croce Rossa inglese, guidata da uno chauffeur coll’inevitaile pipa corta in bocca. A Forni, dove giungiamo verso le 11, ci dicono dove si trova la mia compagnia. Ci mettiamo al seguito della colonna dei muli che portano i viveri. Di rimarchevole a Forni non ho visto che un palazzo delle scuole elementari, quasi grandioso. Siamo una decina di bersaglieri. E’ con noi l’aspirante ufficiale Baldesi, toscano. Tre ore di marcia lungo una mulattiera che attraversa un abetaia così folta, che impedisce al sole di giungere a terra.

A quota 1576, alla destra del torrente Bordaglia, che nasce dal laghetto omonimo, trovo il 1° plotone della mia compagnia. Sono arrivato. Il plotone è ricoverato — insieme con altri bersaglieri ciclisti del 10° — in una baracca di legno a tre piani. Di fianco c’è la cucina e uno sgabuzzino, sulla cui porta mal connessa sta scritto pomposamente: Sala convegno per fumatori. C'è il fumo, ci sono i fumatori, ma quanto alla sala è... un'esagerazione. La stanchezza mi concilia rapidamente il sonno. [p. 123 modifica]

28 Marzo.


Alba grigia. Qualche raffica di nevischio, attenuata da ondate di sole. Bizzarria della montagna. Il Comando della nostra compagnia è 300 metri più in alto. Vi salgo per presentarmi al capitano. Nel tragitto ho modo di orientarmi sulle nostre posizioni. Siamo fortificatissimi! Tutta la neve, vicino e lontano, è punteggiata dai pali dei nostri reticolati. Di qui, non passeranno mai!

29 Marzo.


Stamani, ricognizione volontaria. Sono disceso nella valle, sino alla confluenza del Bordaglia col Volaja. Laggiù una squadra di alpini schyatori si esercitava. Pomeriggio insignificante. La prima squadra è di guardia all’accantonamento. Sono capoposto. Notte tranquilla.

30 Marzo.


Nevica da sedici ore. Tutto è bianco. La mulattiera è sommersa. Pomeriggio: nevica sempre. La posta non è giunta. Ore lunghe. Nella baracca, al primo, al secondo, al terzo piano — totale altezza quattro metri o giù di lì — si gioca a carte, si fuma, si canta. Io, col ventre a terra, scrivo queste note. Tipi di soldati: Meiosi Piacentino, lucchese, tornato dall’America. Classe 1893. E’ il [p. 124 modifica]vero tipo del toscano medio: asciutto, intelligente e provvisto di una buona lingua snodata.

— Sono tornato in Italia per l’onore — egli mi dice, iniziando la nostra conversazione. — Cinque anni or sono andai in America e quando fu chiamata la mia classe, non essendomi presentato, fui dichiarato disertore. In America, a Richmond, capitale dello Stato di Virginia, avevo un piccolo commercio di confettiere. Gli affari non andavano male. Scoppiò la guerra europea. Quando l’Italia entro in campo, sentii che non potevo più oltre restare lontano dalla mia patria e sono tornato. Potevo entrare nella Sanità, ma ho preferito un’arma combattente e sono qui a fare il mio dovere. —

E' un fatto, che i soldati tornati dall’America costituiscono la parte migliore delle truppe al fronte.

Domattina, sveglia alle quattro. Dopo gli attacchi al Pal Piccolo, bisogna vigilare. Tale è l’ordine telefonico del capitano.

L'eventualità di un’azione lusinga i soldati

Nevica sempre Sono cadute due valanghe con un boato tremendo. Non si ha notizia di vittime. I morti in seguito a valanghe non sono stati molti in questa zona: cinque e alcuni feriti.

31 Marzo


Dopo tanta neve, ecco una mattinata meravigliosa di sole. Nella chiarità diafana, trasparente del' orizzonte, si stagliano netti i profili e le [p. 125 modifica]merlettature delle montagne bianchissime. Lontano si vedono le guglie dolomitiche del Cadore.

Una linea sottile di porpora annuncia il sole. Se fossi un poeta!

Intanto, al lavoro. La mulattiera è colma di neve. Anche i sentieri d'accesso alle «ridotte» della prima e della seconda linea sono ostruiti. Dai costoni quasi perpendicolari dei monti di Vas e Omladel che ci stanno di fronte, si staccano frequenti valanghe. Da lontano sembrano cascate mugghianti. Turbinio di neve sulle cime. Pare che la montagna fumighi. Pomeriggio solatio e calmo. Qualche fucilata solitaria. Verso le tre, abbiamo notato due palloni bianchi, altissimi, che il vento spingeva verso di noi, dalle linee nemiche. Si tratta di uno dei soliti trucchi austriaci; il cesto del pallone recava una poesia contro Cadorna — scritta in italiano — e due cartine geografiche: Ciò che otteneva l'Italia senza la guerra e ciò che ha ottenuto in dieci mesi di guerra

Il Comando austriaco che ci fronteggia è rimasto alla tesi del «parecchio» di giolittiana, nonchè ignobile memoria.

— Ma se i tedeschi — commenta un arguto bergamasco — non hanno altri «balloni» da sparare, presto son fritti. —

1° Aprile


Sono capoposto della guardia al «blockhouse» N.2 dei posti avanzati di prima linea, oltre il [p. 126 modifica] valloncello della valanga. Il «blockhouse» N. 3 è stato travolto e sommerso da una valanga. Per for- tuna, era stato abbandonato in tempo e non ci sono state vittime. Ho con me i bersaglieri Reali Oreste di Milano, Alcenzo Memore di Fiume Marina, Marano Arturo di Codroipo, Ruggeri Pietro di Fabriano, Mastromonaco Giuseppe del Molise, Scacchetti Ezio nato a Costantinopoli da genitori mantovani e Tonini, piacentino.

I quattro «blockhouse» o ridotte, costituiscono la nostra prima linea. La consegna è di difenderli sino all’arrivo dei rinforzi della seconda linea e se i rinforzi non arrivano, difenderli egualmente sino all’ultima cartuccia. Sono ridotte costruite con grossi tronchi d’albero, resistenti a granate di piccolo calibro. Per giaciglio, un tavolaccio ricoperto e reso un po’ soffice da uno strato di fronde d’abete che emanano l’odore grato e resinoso delle conifere. Nel pomeriggio, intermittente e innocuo bombardamento a shrapnels. Passa un Taube altissimo, oltre il tiro possibile del nostri fucili. Fila veloce in direzione della Valle del Degano.


2 Aprile.


Sole. Appena giorno, muoviamo in ricognizione verso le posizioni austriache.

Siamo in cinque. La neve poco resistente ci impedisce di camminare con velocità. Siamo giunti in prossimità del Passo di Giramondo, dominato alla sinistra per chi sale lungo il Rio Volaja dal [p. 127 modifica]Picco di Giramondo che appare come un «Termine » gigantesco posto dalla natura per segnare i contini d’Italia. Verso le 10 il solito Taube è venuto sulle nostre posizioni.

Quantunque fosse molto alto, abbiamo fatto fuoco egualmente. Dopo il secondo rancio, quando scendono dai monti le prime ombre della sera, mentre sulle cime si attarda la luminosità del crepuscolo, i soldati si riuniscono e cantano in coro. Sono vecchie canzoni semplici di parole e di melodia, che si prestano al canto a più voci.

Ieri nel mio blockhouse» venne cantato il Lamento del soldato per la morte della fidanzata.

Ecco le parole. I versi sono rozzi, ma c’è in essi una fresca vena di sentimento:

Trenta mesi che faccio il soldato

E una lettera mi vedo arrivar.

Sarà forse la mia amorosa
Che ho lasciata nel letto ammalà.

A rapporto, signor capitano,
Se in licenza mi vuole mandar.

In licenza ti manderia
Purché ritorni da bravo soldà.

Glielo giuro, signor capitano,
Che ritorno da bravo soldà.

Quando giungo vicino al paese,

Le campane io sento a suonar.
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Sarà, forse, la mia amorosa

Che la portano a sotterrar.

O becchino, che porti la bara
Per favore, riposati un po’.

Se da viva, non l’ho mai baciata,
Or ch’è morta, la voglio baciar!

La sua bocca, ora, sente di terra,

Mentre prima odorava di fior!

Sono le canzoni sgorgate dall’anima primitiva del popolo. Sono passate da generazione a generazione e i soldati se le sono trasmesse da una classe all’altra.

Ore quindici. Riapparizione del Taube nemico, che vola altissimo. Verso il tramonto, duello stracco delle opposte artiglierie. Distribuzione del tabacco governativo, con le relative tre cartoline in franchigia.

Si scrive. Si fuma. Il fumo è una distrazione.

3 Aprile.


Grande sole. Stamani nella solita «ricognizione» ci siamo spinti ancora più in là. Erano con me i caporali Pietroantonio, un giovane abruzzese tornato dall'America per fare il soldato, e Serrato Antonino, un valido e animoso siciliano del distretto di Cefalù. Verso le 11, l'artiglieria nemica ha battuto con granate shrapnels le nostre [p. 129 modifica]posizioni della Selletta fra il But e l’Omladet. Le granate, scoppiando, chiazzavano di nero la neve. Pomeriggio di silenzio alto, interrotto soltanto dal rombo delle valanghe. Le quali non sono le valanghe dirò così «classiche» che si formano col «sasso che dal vertice» rotola giù nella valle. Sono in vece, grandi strati di neve che slitta dai costoni più ripidi, per effetto del vento o del peso della neve stessa. Qua e là, la montagna comincia a mostrare le sue rocce. E la primavera? Un tenente del battaglione ciclisti mi regala, come suo ricordo, una fotografia delle posizioni del Passo di Giramondo e del Volaja. Ieri, mentre gli alpini operavano il «cambio» dei piccoli posti in Bordaglia Alta, furono scoperti dalle vedette austriache. Tre morti dei nostri sono caduti nel camminamento tra la neve.

4 Aprile.


Ricognizione mattutina al valico del Volaja. Siamo ridiscesi per il torrente omonimo sepolto sotto la neve. Nel pomeriggio, nuova ricognizione su Bordaglia Alta. Siamo saliti per un pendìo ripidissimo. Erano con me il tenente Santi e tre alpini della compagnia volontari alpini. Indossavano il camice bianco. Questi volontari sono in gran parte carnioli e friulani. Gente del paese. Di tutte le età. Di tutte le condizioni sociali. Sbarrando i passi ai confini d’Italia, essi difendono le loro case, le loro famiglie, i loro villaggi che sarebbero i [p. 130 modifica]primi a subire le violenze dell'invasore. Gente simpatica. Siam giunti al laghetto di Bordaglia, completamente gelato. Dal laghetto ha origine il torrente omonimo che si getta a Pierabech nel Fleons o Degano, dopo aver ricevuto, come confluente, il Volaja.

Il tenente Santi — che oltre ad essere il mio superiore, è un mio amico carissimo — ci ha fatti sostare per alcuni minuti in posizione conveniente per vedere, senza essere visti, le linee nemiche. Col binocolo si vedono benissimo, anche nei dettagli, i «blockhouses» austriaci che presidiano il Passo di Giramondo.

Il tenente Barnaba, territoriale, della compagnia dei volontari alpini, è stato lieto di incontrarmi, e ci ha offerto un sorso di cognac. Di lassù, lo sguardo abbraccia un panorama di montagne meraviglioso. Le Dolomiti della sinistra del Cadore lanciano al cielo le loro guglie sottili. L’anima — dinanzi a questa visione — si dilata e si esalta. La montagna, come il mare, fa «sentire» l’immensità.

5 Aprile.


Nebbia, maltempo. Mattinata grigia. Nessuna ricognizione. I soldati hanno brevi momenti di tetraggine, seguiti da esplosioni di gioia e di allegria talvolta fanciullesca. La neve se ne va. I bucaneve — primi fiori della montagna — cominciano a tappezzare i tratti scoperti. Oggi, non una cannonata e nemmeno fucileria. Quiete assoluta. [p. 131 modifica]Divaghiamo. Tipi di soldati. Ascenzo Memore, del distretto di Savona, marinaio di mestiere. Basta mostrargli una cartolina illustrata con una barca per fargli sentire tutte le acute nostalgie del mare.

Nato a Final Marina. I suoi racconti de la vita marinaresca m’interessano. Fa il soldato volentieri e odia i tedeschi. Lo chiamiamo marinaretto. Abbiamo invece affibbiato il soprannome di arabetto a Ezio Lucchetti che è nato e vissuto a Costantinopoli, dove la famiglia sua è rimasta sotto la protezione degli Stati Uniti, mentre lui tornava volontariamente in Italia per la guerra. Ha un po’ la silhouette del turco. Calmo, flemmatico parla in italiano con un leggero accento esotico un po’ turco e un po' francese. Fuma... come un turco. Una sigaretta gli pende continuamente dalla bocca un'altra sta, di riserva, sull'orecchio destro. Quando Ascenzo vuole «sfottere» l'Arabetto, lo chiama «aggregato all'Italia». E allora l' Arabetto perde la sua calma abituale e «scatta» per proclamarsi «italiano» di razza e di sentimento

Pomeriggio. Arriva la posta. Tutta roba in ritardo. La posta nuova non ha ancora, come diciamo nel nostro gergo, «trovata la strada».

6 Aprile.


Giornata movimentata quella d’oggi. Scrivo queste righe, a notte alta, nel «blockhouse» illuminato da un mozzicone di candela. I miei compagni dormono. Stamani ho compiuto la solita [p. 132 modifica]ricognizione. Siamo giunti sino al costone che per la sua strana conformazione viene chiamato «spina di pesce». In quel punto la neve è alta oltre dieci metri. Ha colmato gli scoscendimenti e formato una specie di pianoro.

Durante tutta la mattinata, violento duello delle artiglierie di medio e grosso calibro. All’una del pomeriggio ho ricevuto un ordine-fonogramma di intensificare la vigilanza e di lavorare attorno al «blockhouse» essendoci probabilità di un attacco nemico. Ci siamo messi immediatamente al lavoro.

Mentre le artiglierie ricominciavano il loro bombardamento reciproco, abbiamo scavato una trincea a destra e una a sinistra della ridotta. Qui opporremo la prima resistenza. Poi ci chiuderemo nel «blockhouse» che ha tante feritoie quanti sono gli uomini di guardia. La consegna è semplice e categorica. I «blockhouses» devono resistere a oltranza, sino all’ultima cartuccia. Abbiamo infatti un’abbondante dotazione di munizioni.

Il tenente ci ha detto:

— In caso di attacco, voi siete i «sacrificati» se i rinforzi non giungono in tempo. —

Posa di reticolati. Oltre i posti di vedetta, i fili di ferro dentato sono intricatissimi.

Il bombardamene nemico sul Volaja è durato sino a notte. Due granate sono cadute poco lungi da noi, ma senza scoppiare.

— Vigilare! Occhi aperti, stanotte, e orecchie spalancate! — [p. 133 modifica]

7 Aprile.


Solita ricognizione. Ci siamo spinti oltre il costone Lambertenghi, così chiamato in onore del tenente degli alpini, che scendendo dal Volaja in ricognizione, vi fu colpito a morte da una fucilata austriaca. Qui, alcuni mesi fa, venne catturata dai bersaglieri una piccola pattuglia nemica. Cielo nubiloso. Pochi colpi di cannone nel pomeriggio.

II «morale». Posso scriverne dopo tanti mesi di consuetudine coi soldati? Che cosa è il «morale»? Definirlo in maniere precisa, racchiuderlo in un breve giro di frasi come un ordine di servizio è impossibile. Il «morale» appartiene alla categoria degli «imponderabili»: non lo si misura, lo si sente, lo si avverte, lo si intuisce. Il «morale» è il maggiore o minor senso di responsabilità, il maggiore o minore impulso al compimento del proprio dovere, il maggiore o minore spirito di aggressività che un soldato possiede. Il «morale» è relativo, variabile da momento a momento; da luogo a luogo. Questo stato d’animo che si riassume globalmente col termine «morale» è il coefficiente fondamentale della vittoria, preminente in confronto dell’elemento tecnico o meccanico. Vincerà chi vorrà vincere! Vincerà chi disporrà delle maggiori riserve di energia psichica volitiva. Centomila cannoni non vi daranno la vittoria, se i soldati non saranno capaci di muovere all’assalto; [p. 134 modifica]se non avranno il coraggio — a un dato momento — di «scoprirsi» e di affrontare la morte. Non si può giudicare il «morale» dei soldati da un semplice episodio o da un contatto occasionale. Il gesto di un soldato vi può far credere che tutto l’esercito sia composto di eroi, la parola di un altro vi può far pensare esattamente il contrario. L’errore della «generalizzazione» è quello nel quale cadono coloro che parlano di «morale» senza aver vissuto coi soldati ed essendosi limitali, invece, ad una rapida visita o ad un fugace colloquio. Il «morale» dei soldati in prima linea è diverso da quello dei soldati delle retrovie; le classi anziane e le classi giovani hanno un «morale» diverso; i soldati contadini presentano differenze di «morale» in confronto dei soldati nati e vissuti nelle città.

Il «morale» dei soldati che hanno battuto le vie del mondo, è più alto di quello dei soldati che non mossero mai piede oltre la cerchia del borgo natio; le sfumature sono infinite, come innumerevoli sono i tipi umani. Rivendico il diritto di trattare la questione, perchè ho «studiato» coloro che mi circondano, che dividono meco il pane, il ricovero, i disagi, i pericoli; ho «sorpreso» i loro discorsi, fissati i loro atteggiamenti spirituali e nelle più svariate contingenze di tempo e di luogo che la guerra impone al soldato: in prima linea e in seconda linea; in trincea e in riposo; durante il fuoco, prima e dopo il fuoco; nel treno attrezzato; all’ospedale, nelle tradotte; al deposito di rifornimento, durante le marce di giorno e di notte; sotto la pioggia, sotto la neve, sotto la mitraglia... [p. 135 modifica]E la mia conclusione è questa: il «morale» dei soldati italiani è buono: i soldati italiani sono disciplinati, coraggiosi, volonterosi. Sapendoli prendere per il loro verso, considerandoli capaci di ragionamenti e non semplici numeri di matricola, si può ottenere dai soldati italiani tutto ciò che si vuole; dal lavoro oscuro della corvée all’assalto irruente e micidiale della baionetta.

Una compagnia in guerra ha circa 250 uomini. Dal punto di vista del «morale» si possono dividere in gruppi nella maniera seguente.

Ci sono 25 soldati — artigiani, professionisti e volontari italiani — che sentono le ragioni della nostra guerra e la combattono con entusiasmo.

Altri 25 sono quelli tornati volontariamente dai paesi d’Europa o da quelli d’oltre Oceano. Gente che ha vissuto; gente che ha acquistato una certa esperienza sociale. Sono soldati ottimi sotto ogni rapporto. Ci sono una cinquantina d’individui — giovani — che fanno la guerra volentieri. Il grosso della compagnia — un centinaio — è rappresentato da coloro che stanno fra i rassegnati e i volonterosi: accettano il fatto compiuto, senza discuterlo. Sarebbero rimasti volentieri a casa, ma ora la guerra c’è e sanno compiere il proprio dovere.

Ci sono in ogni compagnia una quarantina di individui indefinibili, che possono essere valorosi o vigliacchi, a seconda delle circostanze. Il rimanente si compone di refrattari, di incoscienti, di qualche canaglia che non sempre ha il coraggio di rivelarsi, per la paura del Codice Militare. [p. 136 modifica]Queste cifre possono variare, ma la proporzione è quella. In definitiva, il «morale» dei soldati dipende da quello degli ufficiali che li comandano.

Non è il caso — ora — di dire ciò che si è fatto per tenere alto il «morale» dei soldati italiani e ciò che non si è fatto. Verrà il tempo anche per questo discorso.

8 Aprile.


Sono smontato di guardia dai «posti avanzati». Nel pomeriggio, le solite cannonate. Chi ci bada più?

10 Aprile.

Un volontario italo-inglese così scrive al fratello Marano Arturo, della mia squadra; è un documento interessante:

«Caro fratello, sono sette mesi che mi trovo sotto le armi inglesi, ma ancora non sono stato in battaglia, ma se mi toccasse di andare sarei [p. 137 modifica] contento di andare a combattere con quei barbari germanesi, sarei contento di morire, ma prima vorrei che qualche germanese mi passasse fra le mani. Caro fratello, tu mi dici perchè non ho raggiunto le nostre armi italiane. Se avessi potuto sarei venuto. Ho scritto al Consolato italiano a Vancouver in Canadà e non mi ha mai risposto. Così raggiunsi le armi inglesi e per la verità non si sta male. Io non parlo l’inglese, ma mi «rangio» per bene. Diamoci coraggio tutti e tre i fratelli sino alla vittoria e dopo raggiungeremo la casa paterna tutti e tre insieme, per non più abbandonarla».


11 Aprile.


Fatto due trincee e un sentiero che unisce tutta la linea delle nostre «ridotte». Nel pomeriggio, dodici cannonale a shrapnels.


12 Aprile.


Questa è la guerra del buio, della notte. Le giornate trascorrono in una grande tranquillità: le notti invece sono sempre movimentate. Si comincia a combattere nel crepuscolo e si continua a tenebre alte. Stanotte fuoco vivo di fucileria in Bordaglia Alta. Lo scoppiettare secco dei fucili era, di quando in quando, coperto dal fragore delle bombe a mano.

Stamani una leggera nevicata. Poi, sole. Siamo [p. 138 modifica] andati ad ultimare le trincee. Quando si tratta di questi lavori, i soldati non «battono la fiacca». Le due trincee dominano tutte la valle del Volaja. Campo di tiro vastissimo, efficace, inibitorio. Me lo ha detto il capitano Ricchieri, dei bersaglieri ciclisti, che conosce a meraviglia queste posizioni. Poiché l’ultima trincea in alto è stata disegnata da me e scavata sotto la mia direzione, il capitano Ricchieri mi tributa un piccolo elogio. Ho preparato su due tabelle di legno, che abbiamo inchiodato su due tronchi mozzali, i nomi delle trincee. La più lunga, che è quella più in basso, sarà chiamata d’ora in poi il «Trincerone dei bersaglieri», quella in alto «Trincea Cadorna» in onore del nostro generalissimo.

Voci del gergo di guerra:

trottapiano = pidocchio;
spazzolino = attendente;
cartolina in franchigia = soldato buffo;
sigarette = cartucce fucile modello 1891
una busta con quattro carabinieri = lettera assicurata.


13 Aprile.


Mattinata e pomeriggio di calma. A sera fatta, quando eravamo già distesi sui nostri giacigli di è paglia ormai triturata, siamo stali svegliati dal fuoco. Le nostre mitragliatrici e quelle austriache cantavano a gola, cioè... a «nastro» spiegato e la fucileria crepitava intensa su Bordaglia Alta e [p. 139 modifica]Navagnist. Silenzio fatto d’attesa. Poi una voce ha gridato:

— All’armi! —

Alzarci, armarci, riempire il tascapane di cartucce è stato l’affare di un minuto primo. Siamo discesi in attesa di ordini. Mentre i minuti passavano senza ordini, io osservavo i miei commilitoni. I giovani tradivano una certa emozione, erano impazienti e temevano di giungere in ritardo a portare soccorso ai «fratelli» attaccati in prima linea, ma i vecchi, invece, se ne stavano calmi, quasi impassibili e forse un po’ scettici... Più previdenti dei giovani, non avevano dimenticalo il pane, e nemmeno la cicca. Falso allarme?

Già: falso allarme. Ci rigettiamo a terra, armali, per essere pronti al primo appello.

14 Aprile.


Pomeriggio di intenso bombardamento. Proiettili di tutti i calibri infuocano l’aria. Gli austriaci si svegliano. La psicologia del vecchio soldato dinanzi al cannone è in queste espressioni. Se è un colpo isolato, il soldato si limita ad osservare:

— E’ il buon giorno! Il buon appetito! La buona sera! —

Se i colpi sono frequenti, vi presta una certa attenzione. Di dove vengono? Ad ogni scoppio, si dice:

— E’ un 75! Un 155! Un 280! Un 305! — Difficile sbagliare. L'orecchio è abituato. [p. 140 modifica]Infine se il bombardamento è continuo, ininterrotto per ore e ore, una vaga inquietudine afferra l’anima del soldato, che si domanda:

— Che cosa succede? —

Oggi il cannone non sosta. A sera ci giungono notizie incerte sugli effetti del bombardamento. La più provata è stata la sesta compagnia che occupa posizioni laterali alle nostre, sul Paralba. Un «blockhouse» avanzato è stato preso di mira. Una granata da 155 è scoppiata in pieno sul «blockhouse». Dei nove bersaglieri che lo difendevano, sei sono morti, tre gravemente feriti. Si sono salvate le due vedette perchè stavano quindici metri più innanzi.

15 Aprile.


Sole, ma soffia un vento di tramontana gelidissimo. Esplorazione sulle propaggini del Volaja. Siamo investiti da bufere di neve. Nelle ore pomeridiane, intenso bombardamento. Ci sono alcuni feriti leggeri, nella mia compagnia.

I monti che ci circondano sono quasi tutti alti più di 2000 metri:

Monte Coglians, 2781;
Passo di Giramondo, 1930;
Monte Creta Verde, 2519;
Paralba, 2693;
Pizzo di Monte Garnico, 1363;
Pizzo Timau, 2221;
Monte Crostis, 2251.

[p. 141 modifica]Stanotte sono stato posto di guardia con sei uomini al «blockhouse» n. 2 bis. Notte plenilunare, ma freddo cane. Il vento che veniva dalle gole del Volaja ci tagliava la faccia.

17 Aprile.


Stamani, violento, reciproco bombardamento.

Nel pomeriggio, una ventina di granate sono scoppiate sulla linea dei nostri «blockhouses» di seconda linea, ma senza far danno.

18 Aprile.


In seguito al bombardamento di ieri, il cambio della guardia ai posti avanzati è stato eseguito prima dell’alba. Sveglia alle tre. Mattinata grigia.

La «ridotta» N. 8 che occupo io è stata la più bersagliata dalla artiglieria nemica. Abbiamo raccolto dei cimeli. Schegge, alcune pallette di shrapnels, un bossolo da 125 e due spolette di shrapnels graduate a 64 ettometri. Neve per dodici ore di seguito. Gli abeti incappucciati nuovamente di bianco danno alla zona l’aspetto di un paesaggio polare, come se ne vedono nelle vecchie illustrazioni di Natale. Freddo. Silenzio. Malinconia.

Ouesta guerra è il grande crogiuolo che mischia e fonde tutti gli italiani. Il regionalismo è finito. Degli uomini che compongono la mia squadra, il Reali è milanese, il Balisti mantovano, il Tonini [p. 142 modifica]è piacentino, Melosi lucchese, Ruggeri marchigiano, Mastromonaco del Molise.

Verso sera, un po' di sole. Ma poi la neve riprende...

20 Aprile.


Una notte di plenilunio nell'alta montagna tutta bianca di neve è uno spettacolo magico, indimenticabile. Ho appreso dal Popolo, che mi arriva abbastanza regolarmente, la notizia della morte di Gaetano Serrani. Povero amico! Era buono e bravo: non poteva non essere valoroso. Ricordi. Tristezza. Stamani, i soliti innocui colpi di cannone. Pomeriggio invernale. Il vento fischia dal Volaja a Navagnist. Nella «ridotta» la conversazione gela. I miei commilitoni sono attorno alla stufa.


22 Aprile.


Vigilia di Pasqua. Un vento sciroccale improvviso ha cambiato la neve in pioggia. L'acqua filtra a guisa di stillicidio. Fragore di valanghe che rovinano tra il Vas e l'Omladet. Il Bordaglia non è più coperto dalla neve e fa sentire fra le rocce la sua voce urlante. La cantilena delle sue cascate predispone al sonno. E' giunta la posta. Molte [p. 143 modifica]cartoline illustrate. Domani è Pasqua. Senza le cartoline illustrate, nessuno si sarebbe ricordato della solennità.

Pasqua del 1916.


Quando, prima dell’alba, mi sono alzato per ispezionare la vedetta, pioveva. Poi, la pioggia è diventata nevischio e neve. Nella «ridotta» è tutto uno sgocciolamento. Sul piancito c’è già un bel guazzetto.

— Fra poco si va in buca... — dice qualcuno.

Le ore trascorrono lente, interminabili. Si canticchia:

Ed anche la Terribile

Dice eli è stala in guerra;
E’ stata a Serpenizza

A ramazzar la terra.

Non attacca. Mezzogiorno: nevica sempre. Pomeriggio: nevica ancora. Un giornale. L’annuncio dell’arrivo dei soldati russi in Francia, la conquista del Col di Lana e la conquista di Trebisonda sollevano gli spiriti. Crepuscolo. Nevica sempre. Pasqua bianca.

26 Aprile.


Notte un po’ agitata. Verso le due le mitragliatrici austriache hanno incominciato a «cantare»; [p. 144 modifica]nove bombe sono cadute in prossimità della nostra «ridotta» ed anche alcuni shrapnels.

Corre voce che abbandoniamo questa posizione, per recarci in altra del fronte, ma sempre in zona Carnica. Smontato di guardia.

Quando si è costretti a vivere in molti, bisogna abbrutirsi quel tanto che basti per sopportare gli inevitabili inconvenienti, d’ordine materiale, ma soprattutto spirituale, della promiscuità.

Nel pomeriggio, una valanga enorme di neve si è staccata da pendii dell’Omladet e ha imboccato due canaloni: a un certo punto, la massa bianca faceva un salto di un centinaio di metri, e riempiva col suo fragore la valle. Finalmente il Volaja mostra la sua gobba nuda e non più circondata da nebbia e nuvole.

Verso sera violento bombardamento delle nostre posizioni, sulla selletta, tra il Vas e l’Omladet.

C’è l’ordine di movimento. Si parte!

28 Aprile.


Sveglia di buon’ora. Il Volaja ci ha voluto regalare — a guisa di addio — - un’ultima bufera di [p. - modifica]
[p. 145 modifica]neve. Giungono i primi soldati di fanteria che ci danno il cambio. Zaino in spalla. Scendiamo. Prima tappa al bivio di Pierabech-Navagnist, per attendere gli altri plotoni della compagnia. Giù nella valle non c’è più neve e fa caldo. Seconda tappa a Forni, per l’adunata di tutte le compagnie del battaglione. Due ore di libertà. Colazione all’albergo della Corona. E’ con me Reali. Una stanzetta al piano superiore chiara e pulita. Alla parete un bel ritratto a penna di Camillo Cavour, con questa dicitura in francese: Premier Ministre du Roi de Sardaigne. Una vecchia — di età assai avanzata, ma ancora arzilla — sta agucchiando, vicino alla finestra. Le domando:

— Il confine è molto lontano di qui?

— Non molto. Due ore o più.

— E Come si chiama il primo paese tedesco dopo il confine?

— Luckau.

— Ci siete stata?

— Una volta sola. A Luckau c’è un grande Santuario e tutti gli anni, prima della guerra, si facevano dei pellegrinaggi. Ci vogliono cinque ore di cammino. Si passa da Pierebech e si rimonta il Fleons.

La vecchia mi racconta, poi, l’episodio dello sgombro di Forni, avvenuto alcuni mesi fa, sotto la minaccia di una incursione del nemico.

— Un giorno, all’improvviso, il Sindaco ci diede l’ordine di andar via. Nessuno restò nel paese.

Tutte le case furono chiuse e abbandonate. Che confusione! Che disperazione! Le famiglie povere [p. 146 modifica]non sapevano come fare, nè dove recarsi. Noi ci fermammo a Ivaro, altri a Rigolata. Donne e bambini piangevano. Scene da piangere. Siamo rimasti lontano quaranta giorni che mi sono sembrati quarant’anni. Ma se tornassero un’altra volta, io non partirei più, anche se fossi sicura di morire fucilata da quei cani. Sono tanto vecchia! —

Ma il caso non si ripeterà. Le nostre difese nella zona dell’Alto Degano sono semplicemente formidabili. Scendere, significa votarsi all’inutile massacro.

Partenza per Comeglians. Nel prato sono rimasti alcuni bersaglieri ritardatari. Due sono ubriachi fradici. Li portano via in barella. Lungo la strada, oltrepassiamo altri soldati, che il soverchio vino bevuto ha gettato a terra. Spettacolo non edificante! La guerra nelle retrovie è così. In prima linea il soldato è sobrio e schietto. Giunto nelle retrovie, riprende le vecchie abitudini della bettola mistificatrice. Ecco Comeglians. Grazioso. I suoi dintorni sono, certo, fra i più panoramici di tutta la Carnia. Questa regione afferra il cuore.


29 Aprile.

Mattinata di sole radioso. I boschi offrono all’occhio tutte le più delicate sfumature del verde primaverile, C’è della gioia nella chiarezza diafana dell’orizzonte, nel Degano che rompe le sue acque impetuose fra i sassi, nel bianco della chiesa [p. 147 modifica]solitaria che dall’alto di una rupe scoscesa domina il paese, nel fumo delle nostre cucine apprestate dietro un costone perpendicolare, che forma — come mi dice un competente — un angolo morto totale. Oggi, nel paese, ce più silenzio e più ordine. Le sentinelle vigilano agli accantonamenti. Anche Comeglians — come tutti gli altri paesi della Carnia è senza uomini giovani. Si vede qualche vecchio; molti bambini e donne. Ho avuto occasione di conoscere il Sindaco che è proprietario di un albergo.

— Sono lieto — egli mi dice — di averlo avuto mio ospite e conto di rivederlo a guerra finita. —

Parlo con un innamorato della montagna:

— Quando — egli dice — sono giunto alla più alta vetta, mi par di essere il re dei re...


30 Aprile.

Sveglia prestissimo. E’ ancora notte. Zaino in spalla. Da Comeglians a Villa Santina ci sono 13 km. e 800 metri. Arriviamo a Villa Santina verso le sei e ci fermiamo in un prato nelle vicinanze della stazione per consumare il rancio unico. Il sottotenente avv. Antonino Isola, catanese, viene a cercarmi. Ci vediamo per la prima volta, ma ci conosciamo — epistolarmente — da molto tempo. E ufficiale al 3º fanteria, composto esclusivamente di siciliani.

— Ottimi elementi, e non lo dico per regionalismo! I miei piccoli siciliani hanno dato e [p. 148 modifica]daranno magnifica prova. Non desiderano che l’attacco alla baionetta... — Partiamo da Villa Santina alle 8,12, in treno speciale. Nei vagoni si beve, si canta. Passiamo, senza fermarci, Tolmezzo e Amaro. Breve tappa a Stazione per la Carnia, In treno sino a Chiusaforte. Di qui a Dogna, a piedi. Tappa notturna.


Primo Maggio.

Sveglia all’alba. Prendiamo la strada del Canal Dogna. Una strada carrozzabile, bellissima, creata ex-novo. Prima non esisteva che una primitiva mulattiera. Il lavoro è stato iniziato dalla 4 a compagnia del 5º Genio minatori, è stato proseguito e ultimato dalla Territoriale e da squadre di operai. Questa strada è un lavoro che dovrebbe essere visto da quanti negano a noi — latini — ogni capacità di organizzazione e di tenacia. Questa strada che, domani, costituirà una ottima via commerciale fra Dogna e Touvin, rappresenta il non plus ultra della modernità. Ad ogni svolta ci sono le cantoniere vigilate dalle sentinelle; gallerie, scavate nella roccia, offrirebbero un riparo alla truppa in caso di bombardamento della valle; ci sono delle fontane a zampillo per bere; una teleferica che abbrevia il tratto cosiddetto delle «rampe». Dopo sette chilometri di cammino, giunti a quota 900-1000, ci fermiamo. Siamo al posto. Parte della compagnia si accantona in un gruppetto di case [p. 149 modifica]coloniche abbandonate, il mio plotone e il secondo piantano le tende. Il capitano fa adunare i graduati della compagnia e ci comunica che dal Comando del settore dell'Alto Degano sono pervenuti due elogi alla nostra compagnia per il servizio di guerra compiuto lassù.

Qui, le montagne sono più scoscese di quelle che abbiamo lasciato. Abbiamo di fronte la vera parete del Montasio, la cui cima tocca i 2754 metri ed è incappucciata di bianco.

2 Maggio.


Dopo tanti mesi, ho dormito nuovamente sotto la tenda. La prima volta, dopo il mio richiamo, fu a Caporetto, nel settembre. Sonno dolce, profondo, riparatore. Stamani, grande sole. In fondo, scroscia il Dogna. La valle è angusta: meglio, non esiste. Le montagne, a destra e particolarmente a sinistra, scendono a picco. Poche ore di lavoro intenso e abbiamo trasformato l’accampamento. Sotto la tenda abbiamo messo uno strato di fronde di abete e di muschio profumato. Ai lati abbiamo piantato degli alberi per nasconderci alla vista dall’alto. Si respira. Vita semplice- Penso a Rousseau e al suo «ritorno alla Natura». [p. 150 modifica]

3 Maggio.


Un Taube ci ha fatto una prima visita, ma volava altissimo. Conoscenza di alcuni soldati del Genio minatori. Sono interventisti. Uno di essi Nicola Pretto, di Valdagno (Vicenza) mi ha dato da leggere un volume degli «Scritti». di Giuseppe Mazzini. Pomeriggio di calma assoluta. Ho letto la Nuit de Rimini. Peccato che il testo sia lardellato di errori di stampa. Mazzini vi afferra. Ho divorato la Lettera a Carlo Alberto. L’avevo letta da studente. C’è in questo scritto di Mazzini qualche cosa di profetico. Ho trascritto sul mio taccuino:

«Non v’è guerra possibile per la Francia ove non sia nazionale; ove non s’appoggi sulle passioni delle moltitudini, ove non s’alimenti d’uno slancio comunicato ai 32 milioni che la compongono».

E più oltre:

«Le grandi cose non si compiono coi protocolli, bensì indovinando il proprio secolo. Il segreto della Potenza è nella Volontà...».

E più oltre ancora, nello scritto intitolalo: Di alcune cause che impedirono finora lo sviluppo della libertà in Italia (1832):

«Mancano i capi; mancarono i pochi a dirigere i molti, mancarono gli uomini forti di fede e di sacrificio, che afferrassero intero il concetto fremente delle moltitudini — che ne intendessero ad un tratto le conseguenze — che, bollenti di tutte le generose passioni, le concentrassero in una sola, quella della vittoria — che calcolassero lutti gli elementi diffusi, trovassero la parola di vita e di [p. 151 modifica]ordine per tutti — che guardassero innanzi, non addietro — ostacoli con la rassegnazione di uomini condannati ad essere vittime dell’uno o degli altri; che scrivessero sulla loro bandiera riuscire o morire, e mantenessero la promessa».

Non c’è — in questi brani — la divinazione degli eventi odierni? Quale meraviglioso «viatico», per un soldato combattente, gli scritti di Mazzini! Ma chi li conosce fra questi miei 250 commilitoni?

6 Maggio.


Il reggimento, dopo dieci mesi passati nella zona dell’Alto Isonzo, è venuto qui a riposo. Ne aveva bisogno. Ma riposo, non significa ozio. Riposo, se significa non combattere, vuol dire lavorare. Strade, baracche, trincee, spostamento di cannoni.

Stanotte, tempesta. Pareva che la nostra fragile casa di tela dovesse venir spazzata via dal vento impetuoso che mugghiava. La pioggia scrosciava sulla tela, ma dentro non una goccia. Bisogna non toccare la tela. Oggi, dopo cinque giorni di attesa, la posta. Ho ricevuto fra l’altro una cartolina con questo indirizzo: Cap. B. Mussolini — Armée Italienne — Zona di Guerra (Italia). Ha impiegato un mese giusto a trovarmi. Leggo: [p. 152 modifica]

Du front belge, le 18-4-916.


«Un petit soldat belge à qui vous avez rendu un immense service vous envoie toutes ses félicitations et son admiration. Vous envoie aussi ses plus ferventes voeux pour le succèss des armées de la grande et noble Italie. Un petit frère d’armes qui vous pense bien souvent ainsi sur toute votre grande armée

Antoine Gaston 3.ème Section Armée Belge - B. 132


Nel pomeriggio, Padre Michele, che non rivedevo dal Rombon, è venuto alla nostra tenda. Non per catechizzarci. Ci ha lasciato due pacchetti di eccellenti sigarette brasiliane e alcune copie dell'opuscolo di Giorgio del Vecchio: Le ragioni morali della nostra guerra. Bellissimo, ma troppo difficile. Vi sono — nel breve testo — lunghe citazioni in latino e in francese. Vi si parla di trascendenza e di contingenza. Buono per il pubblico del- le Università, non per i soldati, la maggioranza dei quali scrive stentatamente alla Propria famiglia.

Voci del gergo soldatesco:

lima e raspa = personaggi simbolici;

un fonogramma = una cannonata.

10 Maggio.


Ho conosciuto il capitano comandante la 4ª compagnia minatori. Mi sono trattenuto con lui [p. 153 modifica]qualche ora. Si chiama Simoni. Piemontese, un antigiolittiano e interventista fervente. Mi ha narrato e vicende guerresche di questa zona che è la più tranquilla — forse — dell’intera fronte. Mi ha parlato d’una compagnia di alpini, conosciuta in tutta la zona del Fella, col nomignolo di «Compagnia dei Briganti»

Questa compagnia non si compone affatto di ex inquilini delle patrie galere o di gente particolarmente feroce. Si tratta di individui dal fegato sano. Hanno conquistato delle posizioni dominanti e ci sono rimasti, malgrado i contrattacchi ostinati degli austriaci. Al 18, 19, 20 ottobre - mi racconta il capitano Simoni — i «briganti» dovettero sostenere una dura battaglia. Dopo tre giorni di violento bombardamento, gli austriaci pronunciarono un violento attacco. La proporzione delle forze, nel tratto di fronte ai «briganti», era questa: 123 alpini contro almeno un migliaio di nemici. Questi mossero all’attacco, con lo zaino in spalla e ricoperti di fronde, per dissimularsi. Dopo aver resistito a lungo, i nostri alpini chiesero un rinforzo e andò in linea una compagnia di minatori. — La mia! — mi dice con vivo e legittimo orgoglio il capitano Simoni. — La rotta degli austriaci fu completa. Abbiamo contato, dico contato, 460 cadaveri nemici.

Le nostre perdite furono quasi insignificanti. Avemmo poche decine di uomini fuori combattimento. Dall’ottobre gli austriaci rinunciarono ad ogni azione. [p. 154 modifica]

14 Maggio.


Ho trascorso un pomeriggio pieno di gioia e di schietta fraternità. Alcuni soldati minatori del 5° Genio mi hanno invitato a un amicale simposio nel loro accantonamento che è a due passi dal nostro. I commilitoni del Genio ci hanno preparato un banchetto quasi sontuoso. Ho trascorso sette ore bellissime. Abbiamo parlato di guerra, di politica, di vittoria. Alla fine, per suggellare il ricordo della bella giornata e il vincolo nuovo dell’amicizia, ci siamo scambiati dei messaggi. Non trascrivo il mio perchè non lo ricordo, ma mi piace di riportare quello dei miei commilitoni del 5° Genio, in quanto può documentare del «morale» dei soldati italiani dopo un anno di guerra.

Eccolo:

«A Benito Mussolini, che intese la voce delle fumanti rovine del Belgio martire e della Francia invasa e fu assertore fecondo dei diritti della civiltà contro la forza bruta, con ammirazione di italiani, con affetto di commilitoni».

Cap. magg. Nicola PrettoRamella EvaristoGiuseppe CanepariDe Bernardi Edoardo — Serg. Salvadori AlceoCeccali NapoleoneVincenzo Maffei.

E’ un documento che conserverò fra i più cari ricordi della mia vita.

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