Atto I

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Personaggi Atto II

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ATTO PRIMO.

SCENA PRIMA.

Sala nella locanda dell’Aquila.

Eleonora e Colombina.

Colombina. Compatitemi, signora, se entro in un proposito in cui non ci dovrei entrare; ma l’amore, che ho concepito per la vostra persona, mi obbliga a farlo.

Eleonora. Cara Colombina, conosco che siete una buona giovine, e ho piacere nel trattenermi con voi. So che voi vorreste conoscermi, e che vi svelassi l’esser mio e le mie contingenze, ma questa è l’unica cosa, da cui vi prego di dispensarmi1.

Colombina. Non so che dire, mi avete prevenuto2 appunto di quello volea pregarvi. Sono sei giorni che alloggiate in questa [p. 22 modifica] locanda, e vi ho veduta tanto afflitta e addolorata, che ho desiderato sempre di saperne il motivo, affine di potervi in qualche conto giovare, se non altrimenti, almeno colle parole.

Eleonora. Assicuratevi che non è senza un forte motivo la mia tristezza; ma per ora ho risolto di non parlare. Aspetto ancora due giorni, per vedere se capita una persona qui in Roma, che vi dovea capitare, e poi dopo risolverò, e forse pria di partire vi farò quella confidenza che desiderate.

Colombina. Roma è una città assai grande; come volete fare ad essere informata di tutti quelli che arrivano?

Eleonora. Ho qualche indizio, che la persona che aspetto possa venire ad alloggiare in questa istessa locanda; e quando ciò non accada, Arlecchino mio servitore va girando per la città espressamente, per informarsi nei caffè, negli alberghi e nei luoghi più frequentati, se capita quegli che non dovrebbe tardar molto a venire.

Colombina. Dite la verità, è qualche amante quegli che voi aspettate?

Eleonora. No, non è amante; non m’impegnate a dirvi di più.

Colombina. Veramente una serva di una locanda3 non merita la vostra confidenza.

Eleonora. Non vi offendete del mio silenzio. Tacerei con una dama, con un principe, con chi che sia.

Colombina. Almeno ditemi, se siete maritata o fanciulla.

Eleonora. Colombina, per ora non mi tormentate d’avvantaggio. Ho da scrivere una lettera che mi preme. Lasciate ch’io vada a spicciarmi di questo affare. Ci rivedremo. Può essere che domani vi scopra tutto. Addio. parte)

SCENA II.

Colombina, poi Arlecchino.

Colombina. E ho da star fin domani con questa curiosità in corpo? Quanto più ella continua a nascondermi l’esser suo, [p. 23 modifica] tanto più mi cresce la volontà di saperlo. Ecco il suo servitore che torna in casa; vo’ provarmi se da lui potessi rilevar qualche cosa. È un poco semplice di natura; chi sa che con un poco di arte non mi riesca farlo parlare?

Arlecchino. La patrona dov’ela?

Colombina. È ritirata; e mi ha detto che non entri nessuno, s’ella non chiama.

Arlecchino. Gnanca mi no posso entrar?

Colombina. No, certo; quando vi vorrà, chiamerà. Ehi, dite, è capitato ancora?

Arlecchino. Chi?

Colombina. L’amico.

Arlecchino. Qual amigo?

Colombina. Quello che aspetta la vostra padrona.

Arlecchino. El savì donca, che l’aspetta uno.

Colombina. Lo so, certo.

Arlecchino. Savìu mo chi l’è quel che l’aspetta?

Colombina. Lo so, mi ha confidato ogni cosa.

Arlecchino. Gran donne! la me dis a mi che no diga gnente a nissun, e pò l'è la4 prima a dirlo.

Colombina. Con me si può confidare. Ditemi, è capitato?

Arlecchino. Ancora no se sa gnente.

Colombina. Mi dispiace, povera signora, vorrei vederla contenta.

Arlecchino. Me despias anca mi, perchè son stuffo5 de far sta vita.

Colombina. Siete venuti qui a caso, o con qualche sicurezza di ritrovarlo?

Arlecchino. L’ha da arrivar qua, se el diavolo no lo porta in in qualch’altro logo.

Colombina. Come lo avete saputo che abbia da capitar qui?

Arlecchino. L’è sta scritto alla mia patrona da un so parente, che sta a Venezia.

Colombina. Deve venir da Venezia dunque?

Arlecchino. Siguro, da Venezia. No la ve l’ha dito? [p. 24 modifica]

Colombina. Mi par di sì che me l’abbia detto. E dove lo ha ricevuto questo avviso?

Arlecchino. Al so paese, a Napoli.

Colombina. Ah sì, non me ne ricordavo. La vostra padrona è napolitana.

Arlecchino. Oibò, no l’è miga napolitana. No la ve l’ha dito che l’è bergamasca, maridada in t’un Napolitan?

Colombina. Mi ha parlato di Napoli, mi ha detto che suo marito è napolitano; ho creduto che fosse napolitana essa pure.

Arlecchino. No voria che me dessi da intender che la v’ha dito tutto, e che no fusse vero, e che fessi per tirarme zo.

Colombina. Oh guardate che cosa si va immaginando! So tutto, vi dico, mi ha detto tutto, e mi ha confidato che per amore è fuggita.

Arlecchino. Ella è fugida?

Colombina. Oh appunto. Ella no; sarà egli fuggito.

Arlecchino. Seguro; so marido è scampado via.

Colombina. Ed ha abbandonato la moglie.

Arlecchino. Seguro.

Colombina. E si è portato in Venezia.

Arlecchino. Giusto cussì.

Colombina. Ed ora se ne viene in Roma.

Arlecchino. Bravissima.

Colombina. E la vostra padrona, avvisata da un suo parente in Venezia, è venuta qui per incontrarsi con lui.

Arlecchino. Pulito.

Colombina. Vedete se io so tutto?

Arlecchino. L’è vero, e ho gusto, perchè da qua avanti parleremo con libertà.

Colombina. Mi ha detto anche il nome di suo marito, ma ho poca memoria e me l’ho scordato.

Arlecchino. V’hala dito: Ottavio Aretusi?

Colombina. Appunto Ottavio Aretusi. (Maledetto! lo conosco costui). da sé)

Arlecchino. Colombina, vardè ben che sia la verità che la mia [p. 25 modifica] patrona ve l’abbia dito, no me sassinè, che son un omo, che co se tratta de taser, me faria mazzar più tosto che dir una mezza parola.

Colombina. Vi dirò di più, ch’ella mi ha confidato essere il signor Ottavio suo marito un cabalone di prima riga, nato assai bassamente, che vive d’industria, che la vuol spacciare da grande e che, dopo di averla condotta a Napoli, l’ha crudelmente piantata.

Arlecchino. Co l’è cussì, son contento. V’hala mo dito che semo qua senza un paolo, e che el patron della locanda stamattina n’ha fatto el complimento de licenziarne?

Colombina. Questo me l’ha detto il padrone. Ma il signor Brighella è un uomo di buon cuore, e non è capace di usare una crudeltà. Quello che gli dispiaceva era il non sapere chi fosse la vostra padrona, ma ora che lo saprà, avrà qualche maggior tolleranza.

Arlecchino. Mi no ghe digo gnente siguro.

Colombina. Glielo dirò io.

Arlecchino. E a vu l’è la patrona che l’ha dito, mi no.

Colombina. Certamente.

Arlecchino. De mi no la v’ha parlà gnente?

Colombina. Niente affatto.

Arlecchino. No la v’ha dito che son bergamasco?

Colombina. Questo lo so, perchè voi me l’avete detto sino dal primo giorno.

Arlecchino. V’hoggio mai dito, che son stuffo de servir e che me voria maridar?

Colombina. Questo non l’avete detto.

Arlecchino. Se no ve l’ho dito prima, vel digo adesso.

Colombina. Per dir la verità, me n’importa poco.

Arlecchino. Poi esser che v’importa d’un’altra cossa, che v’ho da dir.

Colombina. Cioè?

Arlecchino. Cioè che se anca vu avessi genio de maridarve, poderessi far capital de mi.

Colombina. Perchè questa cosa m’importi, conviene ch’io sappia che fondamento avete per prender moglie. [p. 26 modifica]

Arlecchino. Mi credo d’aver i fondamenti6, che pol aver ogni galantomo che se vol maridar.

Colombina. Avete niente al vostro paese?

Arlecchino. Niente affatto.

Colombina. Che mestiere sapete fare?

Arlecchino. Niente affatto.

Colombina. E volete ammogliarvi?

Arlecchino. Elo un mestier difficile el maridarse? l’imparerò.7

Colombina. Bene, bene, discorreremo.

Arlecchino. Ma no gh’è tempo da perder.

Eleonora. Arlecchino. chiama per di dentro)

Arlecchino. La servo. Adessadesso se vederemo.

Colombina. Non dite niente alla vostra padrona di quello che abbiamo fra di noi parlato.

Arlecchino. Circa al matrimonio?

Colombina. No, circa all’esser suo e di suo marito.

Arlecchino. Mo no v’hala ela conta tutto?

Colombina. Sì, è vero, ma non vorrà che voi lo sappiate. Fate a mio modo, non le dite niente.

Arlecchino. Non dirò gnente. A revederse. (in atto di partenza)

Colombina. Addio.

Arlecchino. Me scordava de dirve una cossa.

Colombina. Che cosa?

Arlecchino. Volème ben, che ve ne voio anca mi. (parte)

Colombina. Affé che l’ho indovinata. Il semplice è caduto, ed ho saputo ogni cosa. Povera disgraziata! è moglie di Ottavio Aretusi! Sta bene con quel birbone. (parte)

SCENA III.

Beatrice, vestita da uomo, e Brighella.


Beatrice. Eccovi, signor Brighella, una lettera che vi dirà chi sono. (dandogli un foglio chiuso) [p. 27 modifica]

Brighella. Con so licenza, che leza. (apre la lettera)

 Carissimo Messer Brighella.

 La presente vi sarà recata da una giovane Fiorentina, che a voce vi dirà l’esser suo. Ve la raccomando fino al mio arrivo, che sarà probabilmente il giorno sei del corrente...
Oggi ne avemo sei, el doveria capitar a momenti.

Beatrice. Così credo. Io dovea arrivare tre giorni prima, ma per le nevi non ho potuto passare.

Brighella. Date alla signora che vi dirigo un comodo appartamento, e un altro riserbatene per me, con due camere. Conduco meco un giovane Veneziano, ricco e semplice, raccomandato alla mia custodia; il che vi serva di regola, e caramente salutandovi sono8

Vostro affet.9amico
Ottavio Aretusi.


 (L’è ben raccomanda sto pollastro. Se el gh’averà delle penne, sior Ottavio ghe darà una bona pelada). (da sé) E eia, padrona, chi xela? (a Beatrice)

Beatrice. Io sono Beatrice Anselmi, fiorentina.

Brighella. Ela amiga o parente de sior Ottavio?

Beatrice. Per confidarvi la verità, sono a lui promessa in consorte.

Brighella. Promessa in consorte? (Se so che le maridà, e che so muggier l'è a Napoli!) (da sé)

Beatrice. Sono rimasta vedova in Venezia, dove morì mio marito, che mi ha lasciato dei mobili e del danaro; il signor Ottavio non ha potuto colà sposarmi per la mancanza de’ suoi attestati; doveva egli partire sollecitamente per Roma; onde, per non perder tempo, mi ha spedito qui innanzi di lui, ove per la vicinanza di Napoli, che è la sua patria, potrà più facilmente sposarmi.

Brighella. Hala portà con ela i danari?

Beatrice. Li ho consegnati al signor Ottavio. [p. 28 modifica]

Brighella. (Anca ela la sta fresca). da sé)

Beatrice. Sento gente. Non vorrei esser veduta. Datemi il mio appartamento.

Brighella. La resta servida con mi. Ghe n’ho tre in libertà, la se scieglierà quello che più ghe piase.

Beatrice. Prego il cielo che arrivi presto. Non vorrei che gli fosse accaduto qualche sinistro10. (parte)

Brighella. Povera diavola! el gh’ha dà da intender de esser da maridar, per magnarghe quei pochi de quattrini. (parte)

SCENA IV.

Ottavio, da viaggio. Tonino, parimente da viaggio, cogli stivali
da cavalcare e goffamente vestito.

Ottavio. Animo, signor Tonino. Siamo in Roma; vi riposerete, vi cesserà l’incomodo cagionatovi11 dal cavalcare.

Tonino. Sior Ottavio, ve lo digo e ve lo protesto, mai più in cavallo.

Ottavio. Voi dite in cavallo, come si dice in gondola. Dovete dire a cavallo.

Tonino. O a cavallo, o in cavallo. El m’ha rotto le tavarnelle, son sconquassa, son desnombolà; nol me cucca più.

Ottavio. Per causa delle nevi non si è potuto proseguire il viaggio in calesse, ha convenuto venire come si è potuto.

Tonino. Gnanca el calesse no me piase troppo. Sia pur benedetto le gondole. Almanco se sta comodi, stravaccai12, no se se sbatte, no se se rompe i ossi. Sior Ottavio, per un mese fé conto che mi no ghe sia.

Ottavio. Perchè? che cosa volete fare in un mese?

Tonino. Star in letto, e remetter la carne che ho perso in sto viazo.

Ottavio. Vergogna! Giovane come siete, essere così poltrone! non voglio sentirvi parlar così. [p. 29 modifica]

Tonino. Via, no andè in collera. Farò tutto quel che volè. Almanco per carità feme cavar sti stivali13, che me par de aver le gambe incastrae in t’una montagna.

Ottavio. Or ora andremo nelle camere che ci avranno preparate. Aspettiamo Brighella, il padrone della locanda.

Tonino. No ghe xe donne in sta locanda?

Ottavio. Che cosa vorreste far delle donne?

Tonino. Che le me vegnisse a cavar i stivali.

Ottavio. Queste sono cose che si fanno dagli uomini e non dalle donne.

Tonino. Ma mi, caro sior Ottavio, compatime, gh’ho più gusto a farme servir da le donne, che no xe dai omeni.

Ottavio. Lo so che in questa parte siete male inclinato, ma ve lo leverò questo vizio. Imparate da me: le donne le lascio stare.

Tonino. No songio vegnù a Roma a posta per maridarme?

Ottavio. I vostri congiunti non vi fanno viaggiare per questo, ma per isvegliarvi, per farvi apprendere un poco di mondo.

Tonino. Se i vol che me desmissia, che i me daga muggier.

Ottavio. Se capiterà una buona occasione o qui, o altrove, non dubitate che procurerò che siate contento.

Tonino. Sieu benedetto! lasse che ve daga un baso, (vuol abbracciare Ottavio, e gli stivali gl’impediscono di poter camminare) Co sti stivali no me posso mover.

Ottavio. Ora ve li caverete. Chi è di là? e’è nessuno?

SCENA V.

Brighella e detti.

Brighella. Oh signor Ottavio, ben arrivado.

Ottavio. Ben trovato il mio caro messer Brighella.

Brighella. Questo èlo quel signor Venezian?...

Tonino. Sior sì, mi son un lustrissimo da Venezia, che xe vegnù a Roma per maridarse. [p. 30 modifica]

Brighella. La troverà delle fortune quante che la vol.

Ottavio. (È capitata l’amica? ) (piano a Brighella)

Brighella. (Sior sì. No sarà mezz’ora). (piano ad Ottavio)

Ottavio. (Dove si trova? ) (come sopra)

Brighella. (Nella camera della Stella). (come sopra)

Ottavio. Amico, fate cavare al signor Tonino gli stivali, e accompagnatelo nella sua camera, che or ora vengo.

Tonino. Caro sior Ottavio, no me lasse solo, per carità; a Roma no ghe son più stà, no son pratico, no so gnente.

Ottavio. Brighella v’informerà di tutto, e poi or ora sarò14 con voi. (parte)

SCENA VI.

Brighella e Tonino.

Brighella. Hala fatto bon viazo, signor?

Tonino. Oh che viazo cattivo! Son tutto rotto.

Brighella. La se comoda qua, la se metta a seder, fina che i omeni i dà una spazzadina alla camera, perchè l'è un pezzo che no gh’è sta nissun dentro. (gli dà una sedia)

Tonino. Se poderave per finezza, per grazia, per carità, cavarme sti maledetti stivali?

Brighella. No i ha nissun servitor con lori?

Tonino. A Venezia ghe n’aveva do. I xe vegnui con mi fina a Bologna, e pò sior Ottavio li ha licenziai.

Brighella. (Capisse. Sior Ottavio no voi zente che ghe dia suggizìon). (da sé) Adessadesso vegnirà qualcun dei mi omeni a servirla.

Tonino. Vardè se son un omo desfortunà. Xe tre dì e tre notte che nevega. Se rompe el calesse, no se pol vegnir avanti, bisogna andar in cavallo, e a mi m’ha tocca quello dalle stanghe, che m'ha fatto tanto insaccar, che me andava le buele fora del corpo.

Brighella. No l’era mai più stà a cavallo?

Tonino. Mai più. No son mai sta fora de Venezia. Mio lustrissimo sior padre m’ha tegnù in collegio fina a vinti do anni. Col xe morto, son sta sempre a casa co mia lustrissima siora madre. [p. 31 modifica] Adesso anca eia la xe morta, e mio lustrissimo sior barba l’ha volesto che fazza sto viazo, acciò che impara el viver del mondo, perchè pò, co torno a casa, possa dir che son stà, che ho visto, e che possa contar quel che ho visto.

Brighella. L’è vegnù a Roma donca solamente per spasso, no15 per nissun interesse.

Tonino. Gh’averia un interessetto da far, se me capitasse.

Brighella. Cossa vorielo far?

Tonino. Per dirvela in confidenza, me voria maridar.

Brighella. A Venezia no l’ha trova nissun partido a proposito?

Tonino. Ve dirò; a Venezia me son prova a far l’amor, ma quelle galiotte de quelle putte no le fava altro che minchionarme. Gera deventà el barònzolo16 de tutti. E pò le Veneziane no le me piase. Ho sentio a dir che a Roma ghe xe de le belle Romane; e quel che stimo, le Romane i dise che le xe de ben cuor, e che le xe virtuose, e mi co me marido, voggio una muggier virtuosa.

Brighella. Virtuosa de musica?

Tonino. Ve par che un par mio abbia da tor una cantatrice? Voggio una vertuosa, figuremose, che la sia poetessa; perchè anca mi son poeta.

Brighella. La xe poeta? me ne rallegro. (Gh’ho un gusto matto co sto pandolo). (da sé)

Tonino. Gh’aveu gnente vu per le man?

Brighella. Cussì presto la vol pensar a sta cossa?

Tonino. Mi, se me capitasse, me mariderave anca adesso.

Brighella. De che condizion la voravela?

Tonino. Civil, da par mio.

Brighella. Se è lecito, de che condizion elo Vussignoria?

Tonino. Vussignoria. Coss’è sto Vussignoria? poderessi dir Vussustrissima. Mio lustrissimo sior padre gera uno che viveva d’intrada, e mia lustrissima siora madre gera una Cittadina17, cascada [p. 32 modifica] in bassa fortuna, ma de una casa che xe più antiga del ponte de Rialto18.

Brighella. Vussustrissima sarà ricco, m’imagino.

Tonino. Se son ricco? Domandeghe a sior Ottavio. Son fio solo e gh’averò d’intrada... no so gnente, domandeghelo a sior Ottavio; el lo sa elo meggio de mi.

Brighella. Se la vol maridarse, vederemo de trovar qualche bon partido.

Tonino. Via, me raccomando a vu, che saverò le mie obligazion.

Brighella. Certo che qualcossa bisognerà spender; bisognerà regalar qualchedun; per mi niente, ma se l’avesse intanto un per19 de zecchini per metter in bona speranza uno de questi, che ha pratica del paese, se poderia prencipiar a far delle diligenze.

Tonino. Volentiera, se no basta do zecchini, anca quattro, anca sie, ma bisogna domandargheli a sior Ottavio.

Brighella. A sior Ottavio? Vussustrissima no gh’ha soldi in scarsela?

Tonino. Mi no gh’ho gnanca un bezzo. Tutti i mi bezzi li tien sior Ottavio.

Brighella. (Cattivo negozio co s’ha da dipender da sior Ottavio). (da sé) Se la se vol cavar i stivali, andemo in camera; vedo che i servitori i ha fenio de giustar.

Tonino. Andemo. (si alza da sedere) Deme man, che no posso camminar.

Brighella. La se comoda. (gli dà braccio)

Tonino. Oh poveretto mi! no me posso mover. Mai più cavallo, mai più stivali. (parte con Brighella, zoppicando)

SCENA VII.

Ottavio, poi Brighella.

Ottavio. Sono in un imbarazzo grandissimo con questa donna. L’avidità d’aver nelle mani la roba sua e il suo danaro, mi ha fatto fare una risoluzione, di cui ne sono oramai pentito. Se fosse morta mia moglie in Napoli, forse forse la sposerei; [p. 33 modifica] chi sa? Sono mesi che non ho nuova di lei, potrebbe darsi che più non vivesse. Ma intanto come contenermi con Beatrice? Ella è un’onestissima donna, che colla fiducia di essere da me sposata, si è lasciata condurre sin qui, e mi ha fatto padrone di tutto il suo. L’inganno non può durar lungamente; sono imbrogliato, ma troverò la via d’uscirne.

Brighella. Oh che bel mobile, sior Ottavio, che avè condotto a Roma! Sto sior Tonin l’è el più bel capo d’opera che abbia visto.

Ottavio. È uno sciocco, consegnatomi da certi parenti suoi, che si vergognano di averlo vicino.

Brighella. Halo dei quattrini?

Ottavio. È ricco, ma non sa egli medesimo che cos’abbia. I suoi congiunti possedono molti de’ suoi effetti, e vorrebbono che più non tornasse, per goderseli pacificamente. Ciò non ostante, l’assegnamento che gli hanno fatto è bastante a farlo vivere comodamente; tutto passa per le mie mani e io gli faccio l’economo.

Brighella. E no ghe de gnanca un soldo da comprar del tabacco?

Ottavio. Credete voi che in questo viaggio non voglia io avanzarmi un migliaio di scudi?

Brighella. Lo credo benissimo, e credo che meggio incontro de questo no podessi trovar. Ma digo, sior Ottavio, quella zovene vestia da omo èlo negozio vostro, o del Venezian?

Ottavio. Tonino non l’ha nemmen da vedere. È cosa mia quella.

Brighella. Cossa penseu de farghene? In casa mia no voggio pastizzi.

Ottavio. È una vedova, che ho da sposar quanto prima.

Brighella. Èla morta vostra muggier?

Ottavio. Sì, è morta che saranno due mesi.

Brighella. Vardè ben quel che fé. Semo in t’un paese che ste cosse no le se passa cussì facilmente.

Ottavio. Fidatevi di me, non dubitate. Vi farò veder tutto. Ora debbo andare col signor Tonino a fare una visita.

Brighella. Da chi?

Ottavio. Dal signor Fabrizio del Mantice, mercante romano, presso [p. 34 modifica] di cui ho una lettera di raccomandazione, per introdurlo in qualche luogo, affine di tenerlo divertito, acciò non si stufi, perchè mi preme tirar di lungo colla mia direzione.

Brighella. El dise che el se vol maridar.

Ottavio. Pensate voi, se quella è figura da dargli moglie. Lo tengo anch’io in isperanza di contentarlo, ma fin che posso, non me lo lascio fuggire. Quando capita un boccon buono, è pazzo chi non se ne sa profittare. (parte)

Brighella. Noi podeva capitar in meggio man de quelle de sior Ottavio. Povero semplice! el me fa compassion. (parte

SCENA VIII.

Camera in casa di Fabrizio, con sedie.

Florindo e Rosaura.

Rosaura. Ma signor Florindo, questo passare sì francamente nelle mie camere, mi pare un coraggio troppo avanzato.

Florindo. Fra gli amanti, cara signora Rosaura, non si osservano le cerimonie.

Rosaura. Che dirà mio zio, se qui vi trova?

Florindo. Non so che dire.... Eccolo ch’egli arriva.

SCENA IX.

Fabrizio e detti.

Fabrizio. Nipote mia, abbiamo de’ forestieri.

Rosaura. Ci penso poco, signore.

Florindo. La signora Rosaura vorrebbe che il suo signor zio pensasse un poco più seriamente alle sue premure.

Fabrizio. Domani ne parleremo. Intanto vediamo chi sono questi forestieri, che mi vengono raccomandati da un amico di Venezia. Mi hanno mandata l’ambasciata, e or ora li aspetto.

Rosaura. Riceveteli pure, che io mi ritiro.

Fabrizio. No, ho piacere che ci siate anche voi, ed anche il signor Florindo. [p. 35 modifica]

Florindo. lo resterò, se si tratta di soddisfarvi.

Rosaura. Ma caro signor zio, vi prego...

Fabrizio. Eccoli, eccoli.

SCENA X.

Ottavio e Tonino in abito di soggezione, e detti.

Tonino. (Vien facendo molte riverenze caricate, alle quali tutti ragionevolmente corrispondono.)

Fabrizio. Signori, bramo l’onor di conoscerli, per avere il vantaggio di poterli servire.

Ottavio. Questa lettera, che vi presento, vi darà conto di noi. (Dà una lettera a Fabrizio, che la riceve e legge. Frattanto ch’ei legge piano, Tonino seguita a far le sue riverenze affettale principalmente a Rosaura, che mostra d’infastidirsi; e Ottavio di quando in quando guarda bruscamente Tonino, che si mortifica.)

Fabrizio. Ho inteso. Il signor Ottavio napolitano, il signor Tonino veneziano non hanno che a comandarmi, che io non mancherò di servirli. Nipote mia, questi signori sono venuti a godere la nostra città; mi sono addirizzati da un amico mio di Venezia. Questa è mia nipote, e vostra serva. (ad Ottavio e a Tonino)

Tonino. (Le sue solite riverenze.)

Ottavio. Ho il vantaggio di conoscere persone di merito, per le quali professo tutta la stima e la venerazione. Non dite niente, signor Tonino?

Tonino. Dirò, dirò; son ancora un poco stracco dal viazo.

Fabrizio. Ehi! da sedere a questi signori. Favoriscano accomodarsi. (tutti sedano, fuor che Tonino incantato a mirar Rosaura)

Ottavio. (Via che fate, che non sedete?) (piano a Tonino)

Tonino. (La xe bella! bella da galantomo!) (fa varie riverenze, poi siede)

Fabrizio. Quel signor Veneziano è più stato a Roma? (verso Tonino)

Tonino. (La gh’ha un non so che, che m’incontra). (da sé)

Ottavio. Parla con voi; dice se siete più stato a Roma, (a Tonino)

Tonino. No, vedela, no ghe son più sta. Cossa gh’ala nome quella signora? (verso Rosaura)

Rosaura. Rosaura, per servirla. [p. 36 modifica]

Tonino. Rosaura! mo che bel nome! Rosa aurea: una rosa d’oro. Le rose le se ghe vede in tel viso, l’oro m’imagino che la lo tegna sconto.

Florindo. I nomi non hanno che fare colle qualità personali.

Tonino. Sì, patron, anzi i nomi i par più bon, co i xe compagni della persona. Per esempio, mi son Tonin Bella grazia; ghe par che al nome corrisponda la20 macchina? (fa qualche atteggiamento ridicolo)

Ottavio. (Non istate a far delle sgarbatezze). (piano a Tonino)

Tonino. (Se me criè, me confondo). (piano ad Ottavio)

Florindo. Veramente è grazioso il signor Tonino. (con ironia)

Rosaura. Anzi graziosissimo. (con ironia)

Tonino. Obbligatissimo alla bontà della so compitezza.

Fabrizio. Come gli piace questa nostra città?

Tonino. Assae, assaissimo, infinitamente, massimamente perchè la xe bella assae.

Ottavio. (Per dire degli spropositi non vi è il più bravo). (da sé)

Rosaura. Quanto tempo è che Vossignoria21 è in Roma? (a Tonino)

Tonino. Son arriva stamattina.

Rosaura. E così presto ha veduto le belle cose di Roma?

Tonino. Eh, mi in t’una occhiada vedo tutto. E pò cossa ghe xe de meggio da veder de quel che vedo?

Fabrizio. Che cosa è quello che voi vedete? (a Tonino)

Tonino. Vedo el bel visetto de sta patrona, che lo stimo più del Tevere e del Culiseo.

Rosaura. (Questa mi pare un’impertinenza). (da sé)

Ottavio. (Non occorre che mi fidi più di condurlo). (da sé)

Fabrizio. Signore, qual confidenza vi prendete voi con mia nipote? (a Tonino)

Tonino. La compatissa. Sala per cossa che sia22 vegnù a Roma?

Fabrizio. Non lo so, se non me lo dite.

Tonino. Son vegnù a Roma per maridarme.

Ottavio. (Che bestia! ) (da sé) [p. 37 modifica]


Fabrizio. A Venezia non ci sono partiti per maritarvi?

Tonino. A Venezia non ho trova gnente, che me daga in tel genio; e sì, tutte le putte me correva drio. Co passava per strada, l’istà spezialmente, senza tabarro, colla perucca stuccada, ziogando alla bandiera col fazzoletto de renso23, le correva tutte al balcon, le se buttava de logo24; le se diseva una con l’altra: Putte, xe qua sior Tonin Bella grazia: vardè el lustrissimo sior Tonio Bella grazia. Le me buttava dei fiori, mi li chiappava per aria, me li metteva in sen. Gh’aveva una camisa de renso, che sfiamegava. Un per de maneghetti de recamo, alti fin su le ongie. Fava luser i aneli; tirava fora una scatola da tabacco, che m’aveva dona siora nona. Putte de qua, putte de là, no saveva da che banda vardarme. Le me fava un mondo de burle. Chi me spuava adosso, chi me schizzettava dell’acqua, chi buttava dei scorzi; ma gnente mostrava de aggradir le finezze, ma no le me piaseva nissuna. Le me pareva tutte senza sesto e senza modelo. Mi son un putto che m’ha sempre piasso le cosse... cussì... alla romana. Me piase toscaneggiar. No me piase sentirme a dir: sioria, patron, lustrissimo, la reverisso; gh’ho gusto che le me diga: serva sua, serva divota, sì signore, illustrissimo sì signore. E cussì in circa; giusto come ela, patrona. (a Rosaura)

Rosaura. (È la cosa più ridicola di questo mondo). (da sé)

Ottavio. (Credo che lo soffrano per divertimento). (da sé)

Florindo. A lei dunque si deve dare dell’illustrissimo, (a Tonino)

Tonino. No voria? Son zentilomo da Torzelo. Mio sior pare xe sta marcante, i mi parenti i xe tutti marcanti, ma mi m’ho volesto nobilitar; ho volesto comprar la nobiltà de Torzelo.

Fabrizio. Che è questo Torcello?

Tonino. El xe un paese.... mi no ghe son mai sta veramente; ma so che el ghe xe sto paese. Diseghelo vu, sior Ottavio, che saverè dir più pulito de mi. [p. 38 modifica]

Ottavio. Torcello è una città antichissima, poche miglia distante da Venezia: distrutta quasi del tutto dalle guerre dei barbari, ma che conserva ancora alcuno de’ primi suoi privilegi, e specialmente un’immagine dell’antica sua nobiltà.

Florindo. Quanto costa il farsi nobile di quel paese?

Tonino. Diese ducati.

Florindo. (Costa più un asino). (da sé)

Ottavio. La maggior nobiltà del signor Tonino consiste in un’entrata ch’egli avrà di sette o otto mila ducati l’anno.

Tonino. E gh’ho un orto alla Zuecca, che gh’ha de tutto: peri, pomi, fighi, uva marzemina, e fina delle zizole25 e dei lazarioli26.

Fabrizio. (Per ragione delle sue facoltà, non sarebbe cattivo partito per mia nipote, ma alle mani di questo suo condottiere, non è da compromettersi). (da sé)

Tonino. E cussì, tornando al nostro proposito...

Ottavio. Signori, è tempo che vi leviamo l’incomodo. (si alza)

Tonino. Volè andar via cussì presto? (ad Ottavio)

Ottavio. Non dobbiamo essere più importuni.

Tonino. Dasseno che gh’aveva chiapà gusto a star qua.

Fabrizio. Perchè, signore?

Tonino. Perchè co vedo una bella putta, m’incanto; mo in verità, siora... no m’arecordo più el so nome.

Rosaura. Rosaura.

Tonino. Sì, siora Rosaura, dasseno, più che la vardo, più la vardarave. La someggia tutta tutta a una bella putta che ho visto a Venezia, fia de un zaffo da barca.

Rosaura. Un bell’onor che mi fate; paragonarmi alla figliuola di un birro. (parte)

Tonino. Patrona.... (salutandola)

Florindo. In Roma non vi è bisogno di simili malagrazie27. (a Tonino, e parte)

Tonino. Sior marzocco28 caro.

Ottavio. Compatite, signore, le sue stravaganze; non ha avuto [p. 39 modifica]educazione finora. Spero col tempo di regolarlo. Vi sono umilissimo servitore. (a Fabrizio)

Fabrizio. Ha bisogno veramente di essere meglio istruito.

Tonino. Patron reverito. Co no saverò dove andar, vegnirò a favorirla. La me voggia ben e se la vol mandar la so putta, la fazza capital de mi, e la s’arecorda che el lustrissimo sior Tonin Bella grazia el xe vegnù a Roma a posta per maridarse. (parte)

Ottavio. (Sciocco, bestia, ignorante). (parte)

Fabrizio. Non ho veduto niente di più ridicolo. Ma è ricco, e questo basta per una giovane che ha poca dote. Chi sa? non lo voglio perder di vista. (parte)


Fine dell’Atto Primo.

  1. Edd. Savioli e Zatta: vi prego dispensarmi.
  2. Zatta: prevenuta.
  3. Zatta: di locanda.
  4. Zatta: l’è ela la.
  5. Così in tutte le edd.
  6. Savioli e Zatta: il fondamento.
  7. Nelle edd. Savioli e Zatta si legge invece: «Arl. E perchè no?»
  8. Savioli e Zatta: vi sono.
  9. Zatta; affezionatissimo.
  10. Zatta aggiunge: accidente.
  11. Savioli e Zatta: cagionato.
  12. Sdraiati: v. Boerio.
  13. Savioli e Zatta: stivai.
  14. Savioli e Zatta: sono.
  15. Savioli e Zatta: .
  16. Zimbello: v. Boerio.
  17. A Venezia i cittadini originari, che erano ammessi a fungere nelle cancellerìe della Repubblica, formavano quasi un secondo ordine di nobiltà, più umile, inscritta al libro d’argento.
  18. Così Savioli e Zatta ecc.; Paperini: del Ponte Rialto.
  19. Paio.
  20. Savioli e Zatta: che el nome corrisponda alla.
  21. Sav. e Zatta: vussignoria.
  22. Zatta: per cossa sia.
  23. «Tela di lino bianca finissima, così detta dalla città di Reims»: Boerio. Diz. cit.
  24. Buttarse de logo per qualcun, fig. «impegnarsi oltre al convenevole in che che sia a favore d’alcuno »: Boerio.
  25. Giuggiole, o frutti del giuggiolo: v. Boerio.
  26. Pomi lazarioli, frutti del melo lazzarolo: v. Boerio.
  27. Sav. e Zatta: male grazie.
  28. «Allocco, zotico» ecc.: v. Boerio.