Atto II

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Atto I Atto III

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ATTO SECONDO.

SCENA PRIMA.

Sala nella locanda.

Eleonora ed Arlecchino.

Eleonora. È così, ti dico; l’ho riconosciuto alla voce.

Arlecchino. Donca vostro marido l’è qua, in sta locanda?

Eleonora. Sì, pur troppo, per mia maggiore disperazione.

Arlecchino. Bella da galantomo! sì vegnuda a posta a cercarlo, l’avì trovà, e avì rabbia d’averlo trovà. Vu altre donne avì la testa come un libro, sempre se volta foggio, se trova sempre delle novità.

Eleonora. Le novità sono queste, che il perfido ha la1 compagnia di una donna. [p. 42 modifica]

Arlecchino. Pol esser che la sia la balia, che l’ha lattà.

Eleonora. Ho sentito io dall’uscio qualche parola, ma parlavano piano, ed era la porta per di dentro così difesa, che non li ho potuti vedere in faccia.

Arlecchino. Chi sa che non abbiè tolto un ravano per una zucca.

Eleonora. No, non mi sono ingannata. La camera dove sono, è di là di quest’altra. Va tu. Arlecchino, entravi con un pretesto. Vedi se vi è tuttavia mio marito, vedi se vi è la donna, e narrami s’ella è giovane, s’ella è vecchia; vedi di rilevar chi ella sia, acciocché io possa prendere le mie risoluzioni, senza mettere piede in fallo.

Arlecchino. Mi ve conseggio de aspettar che i vegna qua da so posta, senza andar incamera a precipitar.

Eleonora. lo non ho bisogno de’ tuoi consigli.

Arlecchino. Ho ben bisogno mi de non andar a farme romper el muso.

Eleonora. E di che cosa hai paura?

Arlecchino. Me ricordo che son sta bastonà cinque volte; no voria che fessimo la mezza dozzena.

Eleonora. Vien gente, mi pare, da quella camera.

Arlecchino. Lassè che i vegna.

Eleonora. È mio marito. Non vo’ per ora ch’egli mi veda. (entra in una camera)

SCENA II.

Arlecchino, poi Ottavio.

Arlecchino. La gh’ha più paura de mi. Le fa cussì ste donne; co le xe sole, le fa le brave, co arriva el mario, le gh’ha paura dell’orzo. Ho ben gusto de vederlo sto sior Ottavio; no l'ho mai né visto, né cognossù.

Ottavio. Siete voi della locanda? (ad Arlecchino)

Arlecchino. Me par, se no m’inganno, de esser in te la locanda.

Ottavio. Siete servitore?

Arlecchino. Son servitor.

Ottavio. Andatemi a comprare della carta da scrivere. [p. 43 modifica]

Arlecchino. Son servitor, ma no son miga servitor della comunità.

Ottavio. Non siete servitore della locanda?

Arlecchino. Son in te la locanda, son servitor, ma la mia patrona no la gh’ha nome Locanda.

Ottavio. (O è sciocco, o io finge). (da sé) Chi è dunque la vostra padrona?

Arlecchino. Una donna femmena.

Ottavio. È alloggiata in questa locanda?

Arlecchino. Patron lustrissimo, signor sì.

Ottavio. È giovane la vostra padrona?

Arlecchino. Più tosto.

Ottavio. È bella?

Arlecchino. No ghe xe mal.

Ottavio. Di che condizione?

Arlecchino. Cussì e cussì.

Ottavio. Sarà persona privata.

Arlecchino. Più tosto pubblica che privata.

Ottavio. Pubblica? in qual maniera?

Arlecchino. La va per el mondo in abito da pellegrina.

Ottavio. Come si chiama?

Arlecchino. Colla bocca.

Ottavio. Eh scioccherie! Come si può fare a vederla?

Arlecchino. Per vederla bisogneria vardarla coi occhi.

Ottavio. Ho inteso; voi siete un furbo; non mi volete dire la verità. Per ora non ho tempo da trattenermi. Ho da scrivere di premura. Tornerò e me la farete vedere, e sappiate ch’io son galantuomo. (Ho curiosità di vedere se è qualche cosa di buono). (da sé, parte)

SCENA III.

Arlecchino, poi Eleonora.

Arlecchino. L’è un omo de bon stomego. A tutto el se tacca, tutto ghe comoda, per quel che sento. [p. 44 modifica]

Eleonora. Che ne dici di mio marito? Tu non l’avevi prima veduto.

Arlecchino. Digo che l’è un bel pezzo de omo, e che l’è un signor de bon gusto, amante delle novità.

Eleonora. Sì, ho inteso la curiosità ch’egli ha di vedermi; non sa ch’io sia la pellegrina che vuol conoscere. Lo saprà a suo malgrado. Ora che non c’è più nella camera il signor Ottavio, va tu a scoprire chi sia la donna colà rimasta.

Arlecchino. Trattandose de una donna, gh’ho un poco manco de suggizion. Vado subito.

Eleonora. Avverti di tornar presto.

Arlecchino. No so, no m’impegno. Co se tratta de parlar con una femmena, delle volte anca mi me perdo in te le felicità. (entra nella camera)

SCENA IV.

Eleonora, poi Arlecchino che torna.

Eleonora. Ma che sono mai questi uomini così volubili, così incostanti? Quando Ottavio mi prese, parea che delirasse d’amore. Ora mi odia, mi perseguita, mi aborrisce e tutte gli sembrano vaghe, fuori della povera sua consorte.

Arlecchino. No ve l’hoggio dito?

Eleonora. Che cosa?

Arlecchino. No la xe una zucca; el xe un ravano.

Eleonora. Non ti capisco.

Arlecchino. Son sta in quella camera. Invece de una donna femmena, ho trova un omo maschio. Per veder se s’aveva scambia el forestier colla forestiera, ho domanda de sior Ottavio; el m’ha dito che el giera andà via in quel momento, che el giera sta là con elo; onde se vede che gh’ave le orecchie fodrae de persutto.

Eleonora. Fa una cosa. Arlecchino. Va da quel signore, e digli che favorisca di venir qui, che una giovane gli vuol parlare.

Arlecchino. No poderessi andar vu a trovarlo? [p. 45 modifica]

Eleonora. Se è un uomo, non mi conviene andare nella sua camera, gli parlerò qui in sala.

Arlecchino. Mo andè là, che sè una donna de garbo! (torna nella camera)

SCENA V.

Eleonora, poi Arlecchino e Beatrice in abito di uomo.

Eleonora. Può essere che mi sia ingannata, ma non lo credo. Tuttavia bramo chiarirmi, e saprò almeno se sia maschio o femmina questa tale persona, e che cosa pensi di fare presentemente quell’ingrato di mio marito.

Arlecchino. Semo qua. Questa l’è la mia patrona, che ve vol parlar. (a Beatrice)

Eleonora. (Al volto pare una femmina). (da sé)

Beatrice. Che mi comanda, signora?

Eleonora. (Anche la voce è donnesca), (da sé) Scusate l’ardire, e prima che altro vi dica, favorite certificarmi se siete un uomo o una donna.

Beatrice. Parmi che non vi voglia molto a conoscere ch’io son donna.

Eleonora. Arlecchino?

Arlecchino. Siora padrona?

Eleonora. Che cosa dici?

Arlecchino. El ravano è deventà una zucca. (parte)

Beatrice. Qual motivo avete di maravigliarvi di questo?

Eleonora. Ditemi in grazia, non era con voi poc’anzi il signor Ottavio?

Beatrice. Verissimo. E lo aspetto fra poco.

Eleonora. Qual confidenza avete voi col signor Ottavio?

Beatrice. Quella che può avere la moglie col marito.

Eleonora. Voi moglie del signor Ottavio?

Beatrice. Io, sì signora.

Arlecchino2. (Questa la godo da galantomo). (da sé) [p. 46 modifica]

Eleonora. Voi mi fate meravigliare.

Beatrice. E voi chi siete, che di lui mostrate tanta premura?

Eleonora. (Non vo’ scoprirmi per ora). (da sé) Sono di lui germana.

Beatrice. Ho piacere di conoscervi e abbracciare una mia cognata. (s’accosta per abbracciarla)

Eleonora. No, signora, non so se da voi questo titolo mi convenga.

Beatrice. Perchè?

Eleonora. Perchè Ottavio aveva in Napoli un’altra moglie, e ho ragion di credere che ancora sia viva.

Beatrice. No certo, assicuratevi ch’ella è morta.

Eleonora. Lo sapete di certo?

Beatrice. Ne son certissima.

Eleonora. (Te ne avvedrai, s’io son morta). (da sé)

Beatrice. Ma come siete qui con questo abito?

Eleonora. Vado in traccia di mio marito. Il perfido mi ha abbandonata.

Beatrice. Vostro fratello non vi ha per anche veduto?

Eleonora. Non ancora. Son pochi momenti, che qui son giunta.

Beatrice. Se io lo vedo prima di voi, volete che glielo dica?

Eleonora. Se a lui lo dite, non ve lo crederà.

Beatrice. Perchè?

Eleonora. Perchè tutti si aspetterà di vedere, fuori di me.

Beatrice. La sorpresa gli sarà piacevole.

Eleonora. Può essere che molto non gli sia cara.

Beatrice. Non vi ama forse?

Eleonora. Pochissimo.

Beatrice. E pure il signor Ottavio è un uomo di ottimo cuore.

Eleonora. Signora, voi ancora non lo conoscete. Ottavio è un perfido. Lo proverete voi stessa. Ditelo a lui, che poco mi preme; e se vi domanda chi ha parlato così, ditegli che la persona a lui più congiunta lo sa, lo ha detto, ed è prontissima a sostenerlo. (parte) [p. 47 modifica]

SCENA VI.

Beatrice sola, poi Tonino.

Beatrice. Costei mi pare una pazza. Dice mal del fratello, dice mal del marito. Questi l’ha abbandonata, quegli non ha amore per lei; segno che non merita di essere amata.

Tonino. Oe, putti, zoveni, camerieri. Caro quel zovene, feme un servizio; ho cura delle ostreghe che ho portà da Venezia, porteme da lavar le man.

Beatrice. Signore, mi maraviglio di voi. Per chi mi avete preso? per un servitore?

Tonino. Chi seu, sior?

Beatrice. Sono una persona forestiera, alloggiata qui, come siete voi.

Tonino. Via, no gh’è un mal al mondo. Ho falà, e la xe fenia.

Beatrice. Mi pare peraltro...

Tonino. Da che paese xela, patron?

Beatrice. Di Firenze.

Tonino. Dove che i magna le fortaggie de un vovo solo?

Beatrice. E voi di dove siete?

Tonino. Venezian, per servirla.

Beatrice. Il vostro nome?

Tonino. Tonin Bella grazia.

Beatrice. (Questi è il giovane che conduce Ottavio a viaggiare). (da sé)

Tonino. La diga, xela la verità che qua no se usa troppo a dar del lustrissimo?

Beatrice. Certamente, tra galantuomini questo titolo si risparmia.

Tonino. E a Fiorenza?

Beatrice. A Firenze ancora. Non si dà che dai servitori e dalla gente bassa.

Tonino. Co l’è cussì, torno a Venezia. Me piase sentirme a dar del lustrissimo. Sentirme a dir, co passo per strada: Lustrissimo sior Tonin, bondì a Vussustrissima. Vussustrissima sarà servida. Me sgionfo; vegno tanto fatto3. [p. 48 modifica]

Beatrice. (Me l’ha detto il signor Ottavio che è debole di cervello). (da sé)

Tonino. (Sto sior al me par un musico, che ha cantà a Venezia). (da sé)

Beatrice. (Mi guarda con attenzione. Conoscerà che sono una donna). (da sé)

Tonino. (Certo me par de cognosserlo, ma no vorave falar). (da sé)

Beatrice. (È meglio che mi dia da conoscere). (da sé)

Tonino. La prego in grazia... se se pol... se xe lecito...

Beatrice. Parlate pure con libertà.

Tonino. No xela ela?... no credo de ingannarme seguro.

Beatrice. Probabilmente non v’ingannerete.

Tonino. No certo, perchè la ciera no fala.

Beatrice. Mi avete conosciuto dunque.

Tonino. Subito, alla prima. So chi se; la memoria me serve.

Beatrice. Mi avete forse veduto a Venezia?

Tonino. Giusto, a Venezia. No v’arecordè quella volta...

Beatrice. Quando, signore?

Tonino. Quando che ve sbatteva le man.

Beatrice. Le mani? non me ne ricordo.

Tonino. No ve recordè? in teatro.

Beatrice. Mi ha veduto in teatro?

Tonino. Sì ben, là v’ho cognossù. Quando che fevi de qua, de là, con quel bel spazzizo4, con quei motti, con quella bella azion. (fa Vari atteggiamenti sgarbati, volendo imitare l’azione di un musico)

Beatrice. Io non so di aver fatto simili scioccherie.

Tonino. Giusto! no ve recordè, co cantevi quell’aria: La la ra la la la la la ra la la la...

Beatrice. Ma signore, per chi mi prendete?

Tonino. Oh bella! per un musico.

Beatrice. Io musico? credevo che mi conosceste, ma siete in errore.

Tonino. Ma chi seu, sior?

Beatrice. Sior? Siora, dovete dire, signor Veneziano.

Tonino. Cossa? Siora?... Xela forsi?... oh magari! (allegro) [p. 49 modifica]

Beatrice. (È curioso costui). (da sé)

Tonino. Me pareva e no me pareva... donna... femena!

Beatrice. Vi vuol tanto a capirlo?

Tonino. Donna! colle braghesse! oh cara! co te godo!

Beatrice. Adagio, adagio; non mi state a far l’insolente.

Tonino. Me xe vegnù el ballon sul brazzal, e la vol che perda una botta?

Beatrice. Siate prudente, altrimenti...5

Tonino. Mi vegno alle curte. Cossa fala qua in sta locanda? xela vegnuda a posta per mi?

Beatrice. Non signore, non vi ho nemmeno per il pensiero.

Tonino. No importa. Sala per cossa che mi son vegnù a Roma?

Beatrice. Per che cosa?

Tonino. Per maridarme.

Beatrice. E vi vorreste maritare così su due piedi?

Tonino. Mi son cussì; le mie cosse le fazzo presto.

Beatrice. Che cosa direbbe il signor Ottavio?

Tonino. Lo conossela sior Ottavio?

Beatrice. Lo conosco sicuro.

Tonino. No la ghe diga gnente, che avemo parla.6 Faremo le cosse in scondon.

Beatrice. Avete soggezione di lui?

Tonino. No gh’ho suggizion, ma gh’ho gusto che nol lo sappia.

SCENA VII.

Ottavio e detti.

Ottavio. (Che fa costui con Beatrice?) (da sé, non veduto)

Beatrice. (Mi divertisco moltissimo con questo sciocco). (da sé)

Tonino. Se me vorè ben, ve darò dei zecchini.

Beatrice. Avete del danaro dunque. [p. 50 modifica]

Tonino. I mii bezzi li tien sior Ottavio, ma aspetterò che el dorma, e ghe li roberò fora de scarsella.

Beatrice. Volete rubare la roba vostra? Piuttosto domandategli il vostro bisogno.

Tonino. Co ghe ne domando, nol me ne vol dar. El xe un can, el xe un fio... (vede Ottavio, e si perde)

Ottavio. Bravo, signor Tonino.

Tonino. Una donna con le braghesse. (ad Ottavio, ridendo)

Ottavio. Andate nella vostra camera.

Tonino. Tolè; no me posso mai devertir un poco. Sempre el me cazza in camera, sempre el me cria. Voi tornar a Venezia.

Ottavio. (Bisogna ch’io lo diverta un poco per non perderlo). (da sé) Andate a casa del signor Fabrizio; trattenetevi colà fin ch’io vengo.

Tonino. Oh sì; anderò da quella putta romana, che la me dirà: sì signore.

Beatrice. È grazioso il signor Tonino.

Ottavio. Sì eh? me ne consolo. (a Beatrice, ironico)

Tonino. Sior omo e donna, la reverisso. (No la ghe diga gnente). (piano a Beatrice)

Ottavio. Che sono questi secreti?

Tonino. Gnente. Vago via. (La me voggia ben). (piano a Beatrice, e parte)

SCENA VIII.

Ottavio e Beatrice.

Beatrice. Quanto mi ha fatto ridere.

Ottavio. Ho inteso i concerti che si facevano.

Beatrice. Concerti di che?

Ottavio. Vi piacerebbe ch’egli avesse degli zecchini.

Beatrice. Che importa a me del denaro degli altri? non ho il mio bisogno?

Ottavio. Perchè animarlo dunque a domandarmene? Ho inteso tutto.

Beatrice. Mi credete capace di una simile debolezza? [p. 51 modifica]

Ottavio. Io non so di che siate capace.

Beatrice. Mi maraviglio che mi parliate così.

Ottavio. Ed io mi maraviglio della vostra mala condotta. (Se sapessi come fare a liberarmene di costei). (da sé)

Beatrice. E questa la ricompensa di quel che ho fatto per voi?

Ottavio. Eccoci sempre ai consueti rimproveri. Sono stanco di soffrirli.

Beatrice. Ed io sono stanca di vivere in questo stato. O sposatemi, o mettetemi in libertà.

Ottavio. Chi è che vi lega? Fate quel che vi aggrada.

Beatrice. Datemi il mio denaro e penserò a qualche risoluzione.

Ottavio. Il denaro è in mano di mercadanti. Non si può avere per ora. Non vi ho mangiato un baiocco; e parlate bene di me.

Beatrice. Via, caro Ottavio, sapete pur che vi amo.

Ottavio. Poco m’importa dell’amor vostro.

Beatrice. Povera me! così mi parlate, dopo di aver io per voi lasciata la patria, i parenti e dopo avervi dato tutto il mio nelle mani?

Ottavio. Queste seccature mi annoiano.

Beatrice. Signor Ottavio, risoluzione.

Ottavio. Son pronto a prenderla quando volete.

Beatrice. Sposatemi, ch’è ormai tempo.

Ottavio. Perchè questo succeda, mi resta molto a pensare.

Beatrice. Ah sì, vedo pur troppo che quello che di voi mi fu detto, è la verità.

Ottavio. Che vi hanno detto di me?

Beatrice. Che siete un perfido.

Ottavio. Chi è che ha avuto ardire di dirlo?

Beatrice. Una persona a voi congiunta; anzi la più congiunta del mondo.

Ottavio. (Fosse qui venuta mia moglie?) (da sé)

Beatrice. (Si confonde per la reità del suo cuore). (da sé)

Ottavio. Si può sapere chi vi abbia di me parlato?

Beatrice. Ve lo dirò per mortificarvi. Chi vi conosce e vi accusa, è la vostra istessa germana. [p. 52 modifica]

Ottavio. Mia germana? (lo non ho mai avuto germane), (da sé)

Beatrice. E quando ella lo dice, non può esser che vero.

Ottavio. L’avete voi veduta questa mia germana?

Beatrice. Sì, l’ho veduta e le ho parlato.

Ottavio. Dove?

Beatrice. In questa istessa locanda.

Ottavio. (Che imbroglio è questo?) (da sé)

Beatrice. Però, pensateci bene. O risolvete di rendermi buona giustizia, o troverò chi saprà farmela a vostro malgrado, (parte)

SCENA IX.

Ottavio, poi Arlecchino.

Ottavio. Sono in una confusione grandissima. Che questa mia sorella fosse Eleonora, mia moglie?

Arlecchino. Oh apponto. Son qua a reverirla e a dirghe che la pellegrina l’aspetta.

Ottavio. Ma chi è questa pellegrina?

Arlecchino. La mia padrona.

Ottavio. Come si chiama? Non mi rispondete al solito con degli spropositi. Come ha nome?

Arlecchino. Non ve lo posso dir.

Ottavio. Ha detto che non me lo diciate?

Arlecchino. Giusto cussì.

Ottavio. Un zecchino sarebbe bastante a farmelo dire?

Arlecchino. Chi sa, se pol provar.

Ottavio. Eccolo. Proviamo. (dà un zecchino ad Arlecchino)

Arlecchino. La gh’ha nome Eleonora.

Ottavio. (Povero me!) (da sé)

Arlecchino. Vienlo in camera?

Ottavio. Ditele che ora vengo.

Arlecchino. Vorlo saver altro?

Ottavio. Mi basta così.

Arlecchino. (A forza de zecchini, mi digo tutto). (da sé, e parte) [p. 53 modifica]

SCENA X.

Ottavio, poi Colombina, poi Brighella.

Ottavio. Mia moglie in Roma? Sono precipitato.

Colombina. Signor Ottavio, la sua signora consorte è in una camera, che l’aspetta.

Ottavio. Mia consorte? Quando è venuta?

Colombina. Questa mattina, in abito di pellegrina, e si lamenta di vossignoria.

Brighella. Sior Ottavio, gh’è dei guai. So siora consorte s’ha informà del palazzo del governator, e la va a ricorrer contra de vu.

Ottavio. Eleonora?

Brighella. No siora Eleonora, siora Beatrice.

Colombina. Quella vestita da pellegrina ha nome Beatrice, o Eleonora? (a Brighella)

Brighella. Beatrice gh’ha nome quella ch’è vestida da omo.

Colombina. Che imbroglio è questo? Quante mogli ha il signor Ottavio?

Ottavio. (Sì sì, convien partire bentosto e lasciarle tutte due nell’impiccio. Andrò dal signor Fabrizio a ricercar di Tonino). (da sé) Se di me vi domandano, dite che sono andato per un affare, (a Colombina e Brighella) (Prendo il danaro, lascio i bauli, e qui non mi lascio più ritrovare). (da sé, e parte)

Colombina. Mi pare il bel farabutto. (parte)

Brighella. De ste bone teste ghe ne capita spesso per le locande. (parte)

SCENA XI.

Camera in casa di Fabrizio.

Rosaura ed un Servitore.

Rosaura. Oh questa cosa m’incomoda. Il signor Veneziano potrebbe tornare. L’ho io da ricevere così sola? Non vi è mio zio... Ma egli mi ha detto appunto ch’io lo tratti con [p. 54 modifica] cortesia; lo crede per me un buon partito, ed io non voglio se non quello ch’ei mi consiglia. Lo riceverò dunque. Ditegli ch’è padrone. (al Servitore, che parte) Il signor Florindo ci patisce un poco, ma che serve? egli non è al mio caso. Penso a star bene, se posso, e non m’importa di lasciar Roma. Il signor Tonino è un po’ scioccarello, ma questo suo difetto non non mi darà grande incomodo.

SCENA XII.

Tonino e la suddetta.

Tonino. (Viene cantando)

               Ritorna al caro bene.
               Rinnova i dolci amplessi;
               Il cor, che vive in pene.
               Ritorna a consolar.

Rosaura. Viva il signor Tonino.

Tonino. Ah? cossa disela? Tutto per ela.

Rosaura. Ella è un signore garbato.

Tonino. Oh, me scordava al meggio. Patrona riverita. Bondì a Vussustrissima; me rallegro e me consolo de reverirla. Stala ben? Hala dormio ben sta notte? Cossa disela de sto caldo? Cossa fa so sior barba? Vala a spasso? Se divertela? Gh’ala morosi? Come staghio7 in te la so grazia?

Rosaura. Tutte queste cose in una volta?

Tonino. Pazzo per no me le desmentegar.

Rosaura. Le ha imparate a memoria?

Tonino. No fazzo altro che studiar cerimonie.

Rosaura. Si vede che ha dello spirito, del talento.

Tonino. Se la savesse quante belle cosse che so!

Rosaura. Sarei virtuosa di molto. Ella averà studiato.

Tonino. Oh, siora sì, assae. Specialmente de istorie ghe ne so un spettacolo. So anca le istorie romane, sì ben che no son [p. 55 modifica] più sta a Roma. M’arecordo Lucrezia Romana, che xe stada sforzada... me par da Silvestro... o da Tranquillo, da uno de sti do certo. Hala letto ela quando che Guerino, detto el Meschino, ha trova i àlbori del sol? Hala letto quando che Bertoldin xe sta porta in aria dalle grue? Hala letto ste cosse?

Rosaura. Io non ho letto tanto. Voi siete assai erudito.

Tonino. So anca recitar.

Rosaura. Avete mai recitato coi dilettanti?

Tonino. Siora sì, tante volte.

Rosaura. Che parti avete fatto?

Tonino. Ho sempre fatto da prima donna.

Rosaura. Ditemi qualche bella scena.

Tonino. Volentiera; mi no me fazzo pregar. Vorla sentir una scena de quella bell’opera intitolada el gran Didon?

Rosaura. Il Didone? Didone era uomo o donna?

Tonino. Omo, omo; no sentela? Didon, Didon, omo senz’altro8.

Rosaura. Ed Enea, che cos’era?

Tonino. Enea? no sentela? Enea: donna, come Jarba.

Rosaura. (Si puol dare maggiore ignoranza?) (da sé)

Tonino. La senta, la stima la memoria e la bona grazia; quando quel bravo Didon parlava d’amor colla so cara Enea, colla so morosa:

          «Idolo mio, che pur sei
          «Onta nell’intestino, idolo mio.
          «Che posso dir? che giova
          «Rovinar coi sospiri il tuo dolore?
          «Ah, se per me in tel cuore
          «Qualche tenero affetto avesti mai...
          «Spacca l’ordegno... ah mia Serena... ahi9!

(affettando somma caricatura)

Ah, cossa disela; no gh’oggio bona disposizion?

Rosaura. Anzi ottima. Ella, ch’è veneziano, dovrebbe far bene da Pantalone. [p. 56 modifica]

Tonino. Ho anca fatto. La senta se la burlo. «Flaminia. Fia mia. Dove seu? Dove diavolo ve cazzeu? Portème el panimbruo. Mio compare xelo vegnuo? Cossa xe stao? Mio fradelo Stefanelo dove diavolo xelo andao? Oimei, oimei, el mio cattaro. Son vecchio. Son cotecchio10. No posso più; o che cattaro becco cornù».

Rosaura. Certo che per una conversazione vale un tesoro.

Tonino. Se la vol che balemo, ghe farò vedar se so ballar.

Rosaura. Se ci fosse un violino.

Tonino. No la gh’ha nissun in casa, che sappia sonar el cimbano?

Rosaura. Non vi è in casa nè il gravicembalo, né la spinetta.

Tonino. No digo el caocimbano11, digo el cimbano che se sona alla veneziana; quel cosso tondo de carta bergamina co le campanelle, che se batte coi dei e colla palma della man, e che se canta:

               E nio, e nio, e nio.
               Putte care, coreve drio,
               Coreve drio fin domattina,
               Rosaura bella, ti xe la mia nina.

Rosaura. Sempre più bravo, sempre più spiritoso. Sa recitar, sa cantar, sa ballar, sa un poco di tutto.

Tonino. No la sa che son anca poeta?

Rosaura. Caspita! Poeta ancora?

Tonino. Vorla che ghe diga un sonetto?

Rosaura. Lo sentirò volentieri.

Tonino. Un ritratto in t’un sonetto. Pittor e poeta.

Rosaura. Ma di chi è il ritratto?

Tonino. Per dirghe la verità el xe un sonetto che xe sta fatto per far el ritratto de mia siora nona, ma el va giusto pulito anca per eia.

Rosaura. Io dunque somiglio a vostra nonna?

Tonino. Co la giera zovene, siora sì; tutta ela. La senta se el ghe piase. [p. 57 modifica]

           SONETTO.
          Occhi belli, più bei della bellezza;
               Fronte, del Dio d’amor spaziosa piazza;
               Naso, maschio real della fortezza;
               Bocca, più dolce assae de una smeggiazza12.
          Petto, più bianco d’ogni altra bianchezza,
               Ondeselle d’un mar che xe in bonazza;
               Vita, dretta e zentil come una frezza;
               Fianchi, pan de bottiro, o sia fugazza.
          Man, puina zentil, che alletta e piase;
               Penin, fatto col torno, o col scaipelo;
               Gamba, d’un bel zardin colona e base.
          Quel che vedo, ben mio, xe tutto belo.
               Son pittor, son poeta, e me despiase
               Che de più no so far col mio penelo.

Rosaura. Ma come fate mai ad avere in mente tante belle cose?

Tonino. Mi gh’ho una mente che pensa a diese cosse alla volta; ma adesso, in sto ponto, penso a una cossa sola.

Rosaura. Ora a che cosa pensate?

Tonino. «Risponderò come da me si suole:

«Liberi sensi in semplici parole.

Rosaura. Di chi son questi bei versi?

Tonino. Del Tasso. El Tasso lo so tutto a memoria. Anca là dove che el dise:

«Intanto Erminia infra le ombrose piante

«D’antica selva s’ha cava la scuffia.

Rosaura. Dice così veramente?

Tonino. O cussì, o colà. Vegnimo alle curte. Me vorla per so mario?

Rosaura. Piacemi questa maniera laconica.

Tonino. Oh, mi no patisso la colica.

Rosaura. Voglio dire che andate alla breve.

Tonino. Cossa serve? I brui13 longhi a mi no i me piase. Son vegnù a Roma per maridarme. Se la me vol, son qua. [p. 58 modifica]

SCENA XIII.

Florindo e detti.

Florindo. Signora, vi domanda il signor Fabrizio, e vi aspetta nella sua camera.

Rosaura. Andiamo dunque a vedere quel che comanda il signor zio.

Tonino. Andemo?14 vegnirò anca mi.

Florindo. Lasciatevi servire. (vuol dar la mano a Rosaura)

Tonino. Cavève, sior; tocca a mi, che son forestier, a servirla. Ho studia anca mi el Galateo. Vardè come che se fa a servir la macchina15. (dà braccio a Rosaura, con caricatura)

Florindo. Questa è un’impertinenza.

Rosaura. Chetatevi, che avete il torto. (a Florindo)

Tonino. Me voressi insegnar a mi? Son zentilomo da Torcello, e so trattar co le donne civili, e so le regole della zentilomenaria16.

Florindo. Che pretendete voi sopra di questa giovane?

Tonino. I fatti mii no ve li digo a vu, sior martuffo.

Florindo. Così si parla con un par mio?

Rosaura. Signori, dovreste usare un poco più di prudenza.

Tonino. Brava, la parla con vu. (a Florindo)

Florindo. Mi maraviglio che la signora Rosaura vi soffra. So perchè lo fa, e perchè tace. Ma s’ella tace, non tacerò io: signor Veneziano, fuori di questa casa mi renderete conto dell’ingiuria che mi avete detto, colla spada alla mano.

Tonino. Co la spada? mi, compare, la spada la porto per usanza e no la so manizar. Se volè che femo una mostra de pugni, ve servirò.

Florindo. Sentite che bello spirito!

Rosaura. Orsù, signor Florindo, contentatevi di andare altrove. In casa mia voi non ci comandate.

Florindo. Ho inteso. Con quel signore ci parleremo con comodo. Intanto andrò a fare le mie doglianze con vostro zio. (parte) [p. 59 modifica]

SCENA XIV.

Rosaura e Tonino.

Rosaura. Andiamo, signor Tonino.

Tonino. Per dirghe la verità, gh’ho un pochetin de paura.

Rosaura. Fin che siete con noi, non dubitate di niente.

Tonino. Donca stago con ela, no vago più via de qua.

Rosaura. Andiamo dal signor zio.

Tonino. Andemo da sior barba. La me daga man, che la voggio servir.

Rosaura. Mi farete grazia. (gli dà la mano)

Tonino. La varda se son un omo che serve con pulizia. Me par adesso esser giusto... come sarave a dir... giusto cussì...con una nave d’alto bordo. Subito do versi all’improvviso:

          «Cara, vu sé una nave alla moderna:
          «Mi sarò el capitan, che la governa. (partono)



Fine dell’Atto Secondo.

  1. Savioli e Zatta: è in.
  2. Distrazione goldoniana. Arlecchino, vedi sopra, non è più in scena.
  3. «Divento e grasso rigoglioso»; v. Boerio, l. c. alla voce tanto fato.
  4. Passeggio; v. Boerio.
  5. Nelle edd. veneziane Savioli e Zatta il dialogo è abbreviato, così: «Tonino. Donna! colle braghesse! Beatrice. E che! vi è da farne le maraviglie? Ton. Mi vegno alle curte ecc.».
  6. Le parole di Tonino, che seguono, mancano nelle edd. veneziane.
  7. Sto io.
  8. Sivioli e Zatta: Didon, Didon, senz’altro è nome mascolino.
  9. Parodia. Vedi Metastasio. Didone abbandonata, A. II. sc. 4.
  10. Vecchio cotecchio, molto vecchio.
  11. Zatta: caocimbalo. Nel Diz. del Boerio è detto caocembalo.
  12. Migliaccio: v. Boerio.
  13. Brodi: v. Boerio.
  14. Zatta ha virgola.
  15. La cicisbea, come spiega altrove Goldoni stesso.
  16. Savioli: zentilomeneria; Zatta: zentilomeria.