Il filosofo di campagna/Atto I
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ATTO PRIMO.
SCENA PRIMA.
Giardino in casa di Don Tritomio.
Eugenia con un ramo di gelsomini, Lesbina con una rosa in mano.
Che sei vago in sul mattino,
Perderai, vicino a sera,
La primiera - tua beltà.
Lesbina. Vaga rosa, onor de’ fiori,
Fresca piaci ed innamori,
Ma vicino è il tuo flagello,
E il tuo ello - sparirà.
(a due Tal di donna la bellezza,
Più ch’è fresca, più s’apprezza,
Il bel verde - dell’età.
Eugenia. Basta, basta, non più.
Che codesta canzon, Lesbina mia,
Troppo mi desta in sen malinconia.
Lesbina. Anzi cantarla spesso,
Padrona, io vi consiglio,
Per sfuggir della rosa il rio periglio.
Eugenia. Ah! che sotto d’un padre
Asprissimo e severo,
Far buon uso non spero
Di questa età, che della donna è il fiore.
Troppo, troppo nemico ho il genitore.
Lesbina. Pur delle vostre nozze
Lo intesi ragionar.
Eugenia. Nozze infelici
Sarebbero al cuor mio le divisate
Dall’avarizia sua. Dell’uomo vile,
Che Nardo ha nome, ei mi vorria consorte.
L’abborrisco, e mi scelgo anzi la morte.
Lesbina. Non così parlereste,
S’ei proponesse al vostro cor Rinaldo.
Eugenia. Lesbina... oimè!..
Lesbina. V’ho fatto venir caldo?
Vi compatisco; un cavalier gentile,
In tutto a voi simile,
Nell’età, nel costume e nell’amore,
Far potrebbe felice il vostro cuore...
Eugenia. Ma il genitor mi nega...
Lesbina. Si supplica, si prega,
Si sospira, si piange, e se non basta,
Si fa un po’ la sdegnosa, e si contrasta.
Eugenia. Ah, mi manca il coraggio.
Lesbina. Io vi offerisco
Quel che so, quel che posso. È ver che sono
Ma posso, se m’impegno,
Far valere per voi l’arte e l’ingegno.
Eugenia. Cara, di te mi fido. Amor, pietade
Per la padrona tua serba nel seno;
Se son felice appieno,
Almen fa ch’io non sia sìri sventurata.
Lesbina. Meglio sola che male accompagnata!
Così volete dir; sì, sì, v’intendo.
Eugenia. Dunque da te qualche soccorso attendo.
Se perde il caro lido.
Sopporta il mar che freme;
Lo scoglio è quel che teme
Il misero nocchier.
Lontan dal caro bene,
Soffro costante e peno,
Ma questo cuore almeno
Rimanga in mio poter 1. (parte
SCENA II.
Lesbina, poi Don Tritemio.
Affé, la compatisco.
Quest’anch’io la capisco.
Insegna la prudenza:
Se non si ha quel che piace, è meglio senza.
Tritemio. Che si fa, signorina?
Lesbina. Un po’ d’insalatina
Raccogliere volea pel desinare.
Tritemio. Poco fa v’ho sentito a cantuzzare.
Lesbina. È ver, colla padrona
Mi divertiva un poco.
Che cantate s’avranno
Canzonette d’amor.
Lesbina. Oh, non signore.
Di questo o di quel fiore,
Di questo o di quel frutto,
Si cantavan le lodi.
Tritemio. Il crederò?
Lesbina. Le volete sentir?
Tritemio. Le sentirò.
Lesbina. (Qualche strofetta canterò 2 a proposito...). (da ti
Tritemio. (Oh ragazza!... farei uno sproposito). (da sè
Lesbina. Sentite, padron bello 3,
La canzonetta sopra il ravanello.
Quando son giovine,
Son fresco e bello,
Son tenerello,
Di buon sapor;
Ma quando invecchio,
Gettato sono;
Non son più buono
Col pizzicor.
Tritemio. Scaccia questa canzon dalla memoria.
Lesbina. Una ne vuò cantar sulla cicoria.
Son fresca e son bella
Cicoria novella.
Mangiatemi presto,
Coglietemi su.
Se resto nel prato,
Radicchio invecchiato,
Nessuno si degna
Raccogliermi più.
Tritemio. Senti, ragazza mia,
Tu sei, Lesbina bella,
Cicorietta novella;
Prima che ad invecchiar ti veda il fato,
Esser colta dovresti in mezzo al prato.
Lesbina. Per me v’è tempo ancora.
Dovreste alla signora
Pensar, caro padrone.
Or ch’è buona stagione,
Or ch’è un frutto maturo e saporito,
Non la fate invecchiar senza marito.
Tritemio. A lei ho già pensato;
Sposo le ho destinato, e avrallo presto4.
Lesbina. Posso saper chi sia?
Tritemio. Nardo è cotesto.
Lesbina. Di quella tenerina
Erbetta cittadina
La bocca d’un villan non mi par degna.
Tritemio. Eh, la prudenza insegna,
Che ogn’erba si contenti
D’aver qualche governo,
Purchè esposta non resti al crudo verno.
Lesbina. Io mi contenterei,
Pria di vederla così mal troncata,
Per la neve lasciar la mia insalata.
Tritemio. Tu sei un bocconcino
Per il tuo padroncino.
Lesbina. Oh oh, sentite
Un’altra canzonetta, ch’ho imparata
Sul proposito mio dell’insalata.
Non raccoglie - le mie foglie
Vecchia mano di pastor.
Voglio un bello - pastorello,
O vuò star nel prato ancor. (parte
SCENA III.
Don Tritemio, poi Rinaldo.
M’ha detto, che con lei non (arò niente.
Eppure io mi lusingo,
Che a forza di finezze
Tutto supererò,
Che col tempo con lei tutto farò.
Per or d’Eugenia mia
Liberarmi mi preme. Un buon partito
Nardo per lei sarà: ricco, riccone;
Un villano, egli è ver, ma sapientone.
Rinaldo. (Ecco della mia bella
Il genitor felice). (da sè, in disparte
Tritemio. Per la villa si dice,
Che Nardo ha un buono stato,
E da tutti filosofo è chiamato.
Rinaldo. (Sorte, non mi tradir), (da sè) Signor.
Tritemio. Padrone.
Rinaldo. S’ella mi permettesse,
Le direi due parole.
Tritemio. Anche quattro ne ascolto, e più se vuole.
Rinaldo. Non so se mi conosca.
Tritemio. Non mi pare.
Rinaldo. Di me si può informare;
Son cavaliere, e sono i beni miei
Vicini ai suoi.
Tritemio. Mi rallegro con lei.
Rinaldo. Ell’ha una figlia.
Tritemio. Sì signor.
Rinaldo. Dirò...
Se fossi degno... Troppo ardire è questo...
Ma5... mi sprona l’amore.
Rinaldo. Dunque, signor...
Tritemio. Dunque, signor mio caro,
Per venir alle corte, io vi dirò...
Rinaldo. M’accordate la figlia?
Tritemio. Signor no.
Rinaldo. Ahi, mi sento morir!
Tritemio. Per cortesia,
Non venite a morir in casa mia.
Rinaldo. Ma perchè sì aspramente
Mi togliete alla prima ogni speranza?
Tritemio. Lusingarvi sarebbe una increanza.
Rinaldo. Son cavalier.
Tritemio. Benissimo.
Rinaldo. De’ beni
Ricco son quanto voi.
Tritemio. Son persuaso.
Rinaldo. Il mio stato, i miei fondi,
Le parentele mie vi mostrerò.
Tritemio. Credo tutto.
Rinaldo. Che speri?
Tritemio. Signor no.
Rinaldo. Ma la ragione almeno
Dite, perchè nemmen si vuol ch’io speri.
Tritemio. La ragion?...
Rinaldo. Vuò saper...
Tritemio. Sì, volentieri.
La mia ragion è questa...
Mi par ragione onesta.
La figlia mi chiedeste,
E la ragion voleste...
La mia ragion sta qui.
Non posso dirvi sì,
Perchè vuò dir di no.
Se non vi basta ancora,
Rispondo: Signor no,
Perchè la vuò così.
E son padron di dirlo:
La mia ragion sta qui. (parte
SCENA IV.
Rinaldo solo.
D’anima vil dell’onestà nemica.
Ma non vuò che si dica,
Ch’io soffra un tale insulto,
Ch’io debb’andar villanamente inulto.
O Eugenia sarà mia,
O tu, padre inumano,
Ti pentirai del tuo costume insano.
Taci, amor, nel seno mio,
Finchè parla il giusto sdegno;
O prendete ambi l’impegno
I miei torti a vendicar.
Fido amante, è ver, son io;
Ogni duol soffrir saprei,
Ma il mio ben non soffrirei
Con viltate abbandonar 7. (parte
SCENA V.
Campagna con casa rustica.
Nardo esce di casa con una vanga, accompagnato da alcuni Villani.
Poi si gode, poi si magna
Con diletto e libertà.
Se da noi fu coltivato!
Presto, presto a lavorare,
A podare8, a seminare,
E dappoi 9 si mangerà;
Del buon vin si beverà,
Ed allegri si starà.
(partonoi Contadini, restandone uno impiegato
Vanga mia benedetta,
Mio diletto conforto e mio sostegno,
Tu sei lo scettro, e questi campi il regno.
Quivi regnò mio padre,
L’avolo, ed il bisavolo, e il tritavolo,
E fur sudditi lor la zucca, il cavolo.
Nelle città famose
Ogni generazion si cambia stato.
Se il padre ha accumulato
Con fatica, con arte e con periglio,
Distrugge i beni suoi prodigo il figlio.
Qui dove non ci tiene 10
Il lusso, l’ambizion, la gola oppressi,
Sono 11 gli uomini ognor sempre gl’istessi.
Non cambierei, lo giuro,
Col piacer delle feste e dei teatri
Zappe, trebbie, rastrei, vanghe ed aratri.
SCENA VI.
La Lena ed il suddetto.
È tutto il suo diletto). (da sè
Se foste un poveretto,
Compatirvi vorrei, ma siete ricco.
La fatica lasciate ai lavoranti.
Nardo. Cara nipote mia,
Piuttosto che parlar come una sciocca,
Fareste meglio maneggiar la rocca.
Lena. Colla rocca, col fuso e coi famigli
Stanca son d’annoiarmi;
Voi dovreste pensare a maritarmi.
Nardo. Sì, volentieri. Presto,
Comparisca un marito. Eccolo qui.
(accenna un Villano
Vuoi sposar mia nipote? Signor sì.
Eccolo, io ve lo do.
Lo volete? Vi piace? (alla Lena
Lena. Signor no.
Nardo. Va a veder, se passasse
A caso per la strada.
Qualche affamato con parrucca e spada.
(al Villano, il quale parie ridendo
Vedi? Ride Mingone, e ti corbella.
Povera vanarella,
Tu sposeresti un conte od un marchese,
Perchè in meno d’un mese,
Strapazzata la dote e la fanciulla,
La nobiltà ti riducesse al nulla.
Lena. Io non voglio un signor, nè un contadino;
Mi basta un cittadino
Che stia bene...
Nardo. Di che?
Lena. Ch’abbia un’entrata,
Qual a mediocre stato si conviene;
Che sia discreto, e che mi voglia bene.
Nardo. Lena, pretendi assai;
Se lo brami così, nol troverai.
Per lo più i cittadini
E non usano molto amar le moglie.
Per pratica comune,
Nelle dttadi usata,
È maggiore l’uscita dell’entrata.
Lena. Il signor don Tritemio
È cittadino, eppure
Così non usa.
Nardo. E vero,
Ma in villa se ne sta,
Perchè nella città vede il pericolo
D’esser vizioso, o diventar ridicolo.
Lena. Della figliuola sua
V’ha proposte le nozze, io ben lo so.
Nardo. Ed io la sposerò,
Perchè la dote e il padre suo mi piace,
Con patto che non sia
Gonfia di vento, e piena d’albagia.
Lena. L’avete ancor veduta?
Nardo. Ieri solo è venuta.
Oggi la vederò.
Lena. Dunque chi sa
S’ella vi piacerà?
Nardo. Basta non abbia
Visibili magagne;
Sono le donne poi tutte compagne.
Lena. Ammogliatevi presto, signor zio;
Ma voglio poscia maritarmi anch’io.
Di questa poverella
Abbiate carità,
Io son un’orfanella,
Che madre più non ha.
Voi siete il babbo mio.
Vedete, caro zio,
Ch’io cresco nell’età.
Vorrebbe, poverina...
Sapete... m’intendete...
Movetevi a pietà. (parte
SCENA VII.
Nardo solo.
Che contenta sarà.
La si mariterà la poverina;
Ma la vuò maritar da contadina.
Ecco, il mondo è così. Niuno è contento
Del grado in cui si trova,
E lo stato cambiare ognun si prova.
Vorrebbe il contadino
Diventar cittadino; il cittadino
Cerca nobilitarsi;
Ed il nobile ancor vorrebbe alzarsi.
D’un gradino alla volta
Qualchedun si contenta;
Alcuno due o tre ne fa in un salto,
Ma lo sbalzo è peggior quanto è più alto.
Vedo quell’albero
Che ha un pero grosso,
Pigliar nol posso,
Si sbalzi in su.
Ma fatto il salto,
Salito in alto,
Vedo un perone
Grosso assai più.
Prender lo bramo,
M’alzo sul ramo,
Vado più in su.
Ma poi precipito
Col capo in giù. (parte
SCENA VIII.
Salotto in casa di Don Tritemio, con varie porte.
Eugenia e Rinaldo.
Ite lontan da queste soglie. Oh Dio!
Temo che ci sorprenda il padre mio.
Rinaldo. Del vostro genitore
Il soverchio rigor vi vuole oppressa.
Deh, pensate a voi stessa.
Eugenia. Ai Numi il giuro:
Non sarò d’altri se di voi non sono.
Ah, se il mio cuor vi dono,
Per or vi basti, e non vogliate, ingrato,
Render lo stato mio più sventurato.
Rinaldo. Gradisco il vostro cor, ma della mano
Il possesso mi cale...
Eugenia. Oimè! Chi viene?
Rinaldo. Non temete; è Lesbina.
Eugenia. Io vivo in pene.
SCENA IX.
Lesbina e detti.
Eugenia. Il genitore?
Lesbina. Oibò. Sta il mio padrone
Col suo fattore, e contano denari,
Nè si spiccia sì presto in tali affari.
Rinaldo. Dunque chi è che la dimanda?
Lesbina. Bravo!
Voi pur siete curioso?
Chi la cerca, signore, è il di lei sposo.
Eugenia. Che dici?
Lesbina. È giunto
Adesso, in questo punto,
Forte, lesto e gagliardo,
Il bellissimo Nardo; e il padre vostro
Ha detto, ha comandato,
Che gli dobbiate far buona accoglienza,
Se non per genio, almen per obbedienza.
Eugenia. Misera, che (arò?
Rinaldo. Coraggio avrete
Di tradir chi v’adora?
Eugenia. È ver, son figlia,
Ma sono amante ancor. Chi mi consiglia?
Lesbina. Ambi pietà mi fate;
A me condur lasciate la faccenda.
Ritiratevi presto.
Eugenia. Vado. (in atto di partire
Rinaldo. Anch’io. (in atto di seguitarla
Lesbina. Con grazia, padron mio;
Ritiratevi, sì, questo mi preme;
Ma non andate a ritirarvi insieme.
Voi di qua; voi di là: così va bene.
Eugenia. Soffrite, idolo mio. (si ritira in una stanza
Rinaldo. Soffrir conviene 12.
(si ritira in un’altra stanza
SCENA X.
Lesbina, poi Nardo.
Prestamente al partito.
Ecco il ricco villano;
Ora son nell’impegno;
Tutta l’arte vi vuol, tutto l’ingegno.
Nardo. Chi è qui?
Lesbina. Non ci vedete?
Per ora ci son io.
Nardo. Bondì a vossignoria.
Lesbina. Padron mio.
Nardo. Don Tritemio dov è?
Lesbina. Verrà fra poco.
Potete in questo loco
Aspettar, se v’aggrada.
Nardo. Aspetterò.
Voi chi siete, signora?
Lesbina. Io non lo so. (modestia
Nardo. Sareste per ventura
La figliuola di lui, venuta qui?
Lesbina. Potria darsi di sì.
Nardo. Alla ciera mi par...
Lesbina. Così sarà.
Nardo. Mi piacete davver.
Lesbina. Vostra bontà.
Nardo. Sapete chi son io?
Lesbina. No, mio signore.
Nardo. Non ve lo dice il core?
Lesbina. Il cor d’una fanciulla,
Se si tratta d’un uom, non sa dir nulla.
Nardo. Eh furbetta, furbetta. Voi mi avete
Conosciuto a drittura.
Delle fanciulle al cor parla natura.
Lesbina. Siete forse...
Nardo. Via, chi?
Lesbina. Nardino bello?
Nardo. Sì, carina, son quello;
Lesbina. Con licenza, signor, m’hanno chiamato.
Nardo. Dove andate?
Lesbina. Non so.
Nardo. Eh restate, carina.
Lesbina. Signor no.
Nardo. Vi spiace il volto mio?
Lesbina. Anzi... mi piace...
Ma...
Nardo. Che ma?
Lesbina. Non so dir... che cosa sia.
Con licenza, signor; voglio andar via.
Nardo. Fermatevi un momento.
(Si vede dal rossor ch’è figlia buona). (da sè
Lesbina. (Servo me stessa, e servo la padrona). (da sè
Compatite, signor, s’io non so.
Son così, non so far all’amor.
Una cosa mi sento nel cor,
Che col labbro spiegar non si può.
Miratemi qua,
Saprete cos’è.
Voltatevi in là,
Lontano da me.
Voglio partire, mi sento languire.
Ah! col tempo spiegarmi saprò. (parte
SCENA XI.
Nardo, poi Don Tritemio.
Che la natura in lei parla innocente.
Finger anche potrebbe, è ver, purtroppo;
Ma è un cattivo animale
Quel che senza ragion sospetta male.
Compatite se troppo trattenuto
M’ha un domestico impaccio;
Vi saluto di core.
Nardo. Ed io vi abbraccio.
Tritemio. Or verrà la figliuola.
Nardo. È già venuta.
Tritemio. La vedeste?
Nardo. Gnor sì, l’ho già veduta.
Tritemio. Che vi par?
Nardo. Mi par bella.
Tritemio. È un po’ ritrosa.
Nardo. La fanciulla va ben sia vergognosa.
Tritemio. Disse niente? Parlò?
Nardo. Mi disse tanto,
Che sperare mi fa d’esser amato.
Tritemio. È vero?
Nardo. È ver.
Tritemio. (Oh il Ciel sia ringraziato). (da sè
Ma perchè se n’andò?
Nardo. Perchè bel bello
Amor col suo martello
Il cor le inteneriva,
E ne aveva rossore.
Tritemio. Evviva, evviva 13.
Eugenia, dove sei? Facciamo presto;
Concludiamo l’affar.
Nardo. Per me son lesto.
Tritemio. Chi è quella?
Nardo. È mia nipote.
SCENA XII.
La Lena e detti, poi Lesbina.
Lena. Con sua licenza,
Alla sposa vorrei far riverenza.
Tritemio. Ora la chiamerò.
Nardo. Concludiamo le nozze.
Tritemio. Io presto fo. (parte
Lena. Signor zio, com’è bella?
Nardo. La vedrai. È una stella.
Lena. È galante e graziosa14?
Nardo. È galante, è graziosa ed è amorosa15.
Lena. Vi vorrà ben?
Nardo. Si vede
Da un certo non so che,
Che l’ha la madre sua fatta per me.
Appena ci siam visti,
Un incognito amor di simpatia
Ha messo i nostri cuori in allegria.
Son pien di giubilo,
Ridente ho l’animo,
Nel sen mi palpita
Brillante il cor.
Lena. Il vostro giubilo
Nelle mie viscere
Risveglia ed agita
Novello ardor.
Lesbina.2 Sposino amabile, (esce da una camera
Per voi son misera,
Mi sento mordere
Dal dio d’amor.
Sposina mia.
Lena. Signora zia,
A voi m’inchino.
(a tre Dolce destino,
Felice amor!
Lesbina. Parto, parto: il genitore.
Nardo. Perchè parti?
Lesbina. Il mio rossore
Non mi lascia restar qui.
(entra nella camera di dove è venuta
Nardo. Vergognosetta
La poveretta
Se ne fuggì.
Lena. Se fossi in lei,
Non fuggirei
Chi mi ferì.
Tritemio16. La ricerco, e non la trovo.
Oh che smania in sen io provo!
Dove diavolo sarà?
L’ho cercata qua e là.
Nardo. Fin adesso è stata qua.
Tritemio. Dov’è andata?
Lena. È andata là. (accenna ov’è entrata
Tritemio. Quando è là, la troverò,
E con me la condurrò, (entra in quella camera
Potrà ben il suo rossore.
Lena. Non è tanto vergognoso
Il suo core collo sposo.
(a due Si confonde nel suo petto
Il rispetto - con l’amor.
Lesbina. Presto, presto, sposo bello, (esce di nuovo17
Via, porgetemi l’anello,
Che la sposa allor sarò.
Lena. Questa cosa far si può.
Nardo. Ecco, ecco, ve lo do. (le dà un anello
Lesbina. Torna il padre, vado via.
Nardo. Ma perchè tal ritrosia?
Lesbina. Il motivo non lo so.
Lena. Dallo sposo non fuggite.
Lesbina. Compatite, - tornerò. (nella camera di prima
Nardo. E l’anello già le ha dato.
Tritemio. Alla figlia?
Tritemio. Quel ch’è fatto, fatto sia.
Che la sposa - vergognosa
Alla fin si cangerà;
E l’amore - nel suo core
Con piacer trionferà.
Fine dell’Atto Primo
Note
- ↑ Quest’aria ch’è nelle prime edizione originale del Fenzo, ma fu soppressa nelle ristampa del 1756, non si trova nelle edd. Guibert-Orgeas e Zatta.
- ↑ Guibert: Qualche strofetta a proposito; e Zatta: Qualche strofa a preposito.
- ↑ Guibert e Zitta: padron mio.
- ↑ Guibart a Zatta: Sposo le ho destinato; avrallo presto.
- ↑ Nel testo c’è qui l’esclamativo.
- ↑ Zatta: Sciocca ragion sol degna.
- ↑ Manca quest’aria nelle edd. Guibert e Zatta, perchè soppressa nella ristampa veneziana del 1756.
- ↑ Così nelle stampe di Bologna, Bergamo, Torino ecc. Nelle edd. Fenzo e nelle ristampe Guibert e Zatta: prodare.
- ↑ Ed. Fenzo: doppoi.
- ↑ Nelle edd. Guibert e Zatta manca questo verso e il senso non corre.
- ↑ Zatta: Fanno.
- ↑ Nella ristampa del Filosofo di campagna che si fece nel 1756, per la nuova recita nel teatro di S. Samuele, seguono qui due arie, l’una di Eugenia, l’altra di Rinaldo, che si possono leggere nell’Appendice.
- ↑ Nelle edd. Fenzo: e viva, e viva.
- ↑ Guibert e Zatta: È galante, è graziosa?
- ↑ Guibert e Zatta: ed amorosa.
- ↑ Qui nell’ed. Zatta, arbitrariamente, si fa cominciare un’altra scena, cioè “Scena XIII. - Don Tritemio e detti”.
- ↑ Manca nal tasto questa didascalia.