Il Governo Pontificio o la Quistione Romana/Capitolo 19

Capitolo 19

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CAPITOLO XIX


Interessi materiali.


«Io mi caro di politica, diceva un cappuccino, quanto d’una buccia d’arancio. Credo che abbiamo cattivo governo, poichè tutti diconlo, e, soprattutto, perché il re chiuso a Gaeta o a Caserta non osa mostrarsi. Per me, mangio con buon appetito, bevo con gran piacere, e quando il grillare ed il razzente del Lacryma Christi mi ha esilarato, checchè avvenga, io grido: viva il Re.» Un ciacco, che passava per la via dell’Infrascata dove avvenne l’incontro, inclinò la testa, approvando.

La scuola dei ciacchi non è numerosa in Italia, qualunque cosa abbianvi conta su tal proposito i viaggiatori. La nazione più spigliata d’Europa non può far eco al discorso del cappuccino. [p. 186 modifica] Ma suppongo per poco che tutti i sudditi del Papa rinunzino volontarii a tutte libertà religiose, politiche, municipali, anche civili, per tuffarsi nelle felicità dei beni materiali, che abbiam comuni co’ bruti, tali che la sanità ed il nutrimento: trovan poi di che soddisfarsi? Possono, almeno per questa parte, lodarsi del governo? Sono tanto bene trattati come gli animali in gabbia? Il popolo è desso in buono stato?

In tutti i paesi dell’universo, tre sono le sorgenti della pubblica ricchezza: agricoltura, industria, commercio. Tutti i governi che fanno lor dovere, e comprendono loro interesse, favoriscono a chi più può, con generali disposizioni, la masseria, la bottega, l’opificio. Dovunque nazione e capo sono solidali, si vede commercio e industria stringersi attorno al governo ed accrescere fino all’eccesso il movimento dei capitali; l’agricoltura anch’essa fa suoi prodigi nella zona meglio esposta agli influssi del potere. Roma è la città meno industriale e meno commerciante di tutto lo Stato, e il suo distretto rassembra un deserto. Convien fare lungo viaggio, prima di trovare alcun saggio d’industria, e qualche tentativo di commercio.

L’industria si nutre di libertà. Ma, tutte le industrie alquanto importanti costituiscono privilegi che il governo romano concede agli amici suoi. Non solamente i tabacchi e i sali, ma lo zucchero, i cristalli, le candele steariche si fabbricano per privilegio. Fondasi una compagnia per le assicurazioni? ella è [p. 187 modifica]privilegiata. La cestella dei venditori di ciliege è fabbricata esclusivamente da un panieraio privilegiato, e l’ispettor di piazza Navona sequestrerebbe una corba refrattaria che non avesse pagato il tributo al privilegio. Gli speziali di Tivoli, i buccieri di Frascati, ed altri mille simili sono privilegiati: vedete che il privilegio sfavilla da per tutto, ed il commercio ne ha sua parte.

Il commercio non va senza capitali, senza istituzioni di credito, senza facili comunicazioni, e massime senza sicurezza. Vi ho già detto come sicure sieno le vie, ma non vi ho chiariti quanto sieno cattive e insufficienti. Vegnamo a fatti. Nel mese di giugno 1858, percorsi le province del Mediterraneo, prendendo ad ogni passo memorie. Mi assicurai che nel tal comune la libbra di pane costava due bajocchi e mezzo, mentro a 18 o 20 chilometri più lontano, due. Il trasporto delle mercanzie per una via di 18 o 20 chilometri valeva mezzo bajocco per libbra. A Sonnino vendevasi pessimo vino a 14 bajocchi il litro, e a 45 chilometri di là, nella comune di Paliano, il vino mediocre era a 5 bajocchi. Pagavasi dunque 9 bajocchi il trasporto d’un chilogramma à 45 chilometri. Ma dovunque i governi aprono strade, l’equilibrio nel prezzo delle derrate stabiliscesi, come i fluidi nei vasi comunicanti, di per sé.

Si obbietterà che le mie indagini caddero sopra paesi fuori mano. Ebbene, avviciniamoci alla capitale; incontrerem peggio. Le comuni propinque a Roma difettano di strade [p. 188 modifica]rotabili per comunicare fra loro. Che direbbesi del governo francese, se non potessimo andare da Versailles à Saint-Germain senza transitar Parigi? Eppure ciò vedesi da più e più secoli intorno alla capitale del Papa. Volete esempio più rilevante? La seconda città dello Stato, Bologna, è in frequenti e sollecite relazioni con tutto l’universo, eccetto con Roma. Sette corrieri per settimana partono per l’estero, cinque per Roma; o le lettere di Parigi vi giungono qualche ora prima di quelle di Roma; quelle di Vienna un giorno e mezzo in vantaggio. Lo Stato del Papa non è certo assai grande; eppur sembrami troppo, allorchè veggo triplicate le distanze per noncuranza del governo, e insufficienza de’ lavori pubblici. Parlerem noi delle Strade Ferrate? Ve n’ha 20 chilometri aperti alla circolazione, sur una linea di 619 chilometri. Fra poco, forse mercè l’ingegno de’ nostri ingegneri, e l’attività di un grande finanziere di Parigi1, le vaporiere potranno correre un magnifico deserto fra Roma e Civitavecchia. Ma le province adriatiche, che sono meglio popolate, più operose e più rilevanti di tutto lo Stato, non udiranno il fischio delle macchine, prima di 15 anni. La nazione domanda le Strade Ferrate a qualsivoglia prezzo; i proprietarii laici, in luogo di elevare a prezzi fantastici il valore de’loro terreni, vanno volontari incontro all’espropriazione; i soli conventi fanno le asserragliate, come se il diavolo domandasse di [p. 189 modifica]andare da loro. La costruzione d’una linea in Roma eccito comiche difficoltà: ed i nostri malarrivati ingegneri non sapevano ove dar del capo per condurla! Monaci e frati dovunque! Toccavansi i lazzaristi? interveniva il Papa in persona. «Signor ingegnere, grazia pe’ buoni miei lazzaristi. Sono persone date al meditare e pregare, e i vostri carri levano si grande rumore che è una miseria!» Si ricadeva sui vicini; nuovi guai. Si piegava a stanca, incontravasi picciol monastero di donne fondato dalla principessa di Bauffremont. Ma, mi falla il tempo per contarvi un’epopea. Abbiate presente, che le Strade Ferrate verranno a rilento, frattanto il commercio stassi senza strade e comunicazioni vicinali. Il bilancio dei lavori pubblici va tutto per la riparazione delle chiese e per l’edificazione delle basiliche. Sonosi sepolti 12 milioni sulla strada d’Ostia per elevare grandissimo e brutto fabbricato; e se ne spenderanno altrettanti per condurlo a termine: qual vantaggio pel commercio nazionale?

12 milioni! La banca romana ne ha soli dieci per suo capitale! E quando i negozianti si recano con loro cedole allo sconto, non vi ha danaro da dare ad essi, a cui è mestieri rivolgersi agli usurai, fra quali ha luogo distinto il governatore della banca.

La capitale possiede una borsa; ne ho avuto contezza a casaccio, aprendo l’almanacco romano. Cotesto pubblico stabilimento dischiudesi una volta per settimana: argomentate dell’operosità degli affari! [p. 190 modifica]

Se commercio ed industria sono di poca risorsa ai sudditi del Papa, eglino trovano compenso nell’agricoltura, e bene sta. La fertilità del suolo e l’ostinato lavoro dell’agricoltore saranno impedimento che la nazione non muoia di fame. Lorquando essa paga annualmente un tributo di 25 milioni all’industria straniera, l’eccedente delle sue raccolte fa rientrare in paese una ventina di milioni. La canapa ed il fromento, l’olio e la lana, il vino, la seta ed il bestiame sono i suoi migliori redditi.

Che cosa fa il Governo? Semplice saria suo compito e da ridurre a tre parole: proteggere, coadiuvare, incuorare.

La rubrica dell’incoraggiamento troppo non aggreva il bilancio. Alcuni proprietarii e fittajuoli, che hanno lor domicilio in Roma, domandano facoltà di fondare un’associazione agraria: ma si oppone il Governo. Per giungere al fine loro, ei s’infiltrano come di straforo e a scappellotti in una società d’orticoltura, che era stata già autorizzata. E, organandosi a modo, espongono allo sguardo de’ Romani una bella collezione di bestiame, distribuiscono alcune medaglie d’oro e d’argento, offerte dal duca Cesarini. Non vi par risibile, che un’esposizione di bestiame, per esser tollerata, e passare, come a dire, inosservata, s’abbia a nascondere dietro i ranuncoli e le camelie? Non solo i sovrani laici favoriscono apertamente l’agricoltura, ma l’incuorano a grandi spese, nè credono gettare il danaro dalla finestra. Ben sanno [p. 191 modifica]che donare 5,000 lire all’inventore di ben adatto coltro gli è impiegare picciol capitale ad enorme interesse. Il reame ne approfitterà, e i loro figli saranno più doviziosi: ma il Papa non ha figli; ed ama perciò seminare nella Chiesa per raccorre in Paradiso.

Non potrebbe almeno coadiuvare cotesti poveri campagnoli che dannogli a vivere?

Uno statistico di grande ingegno e lealtà2 ha dimostrato che nella Comune di Bologna le proprietà rurali pagavano 160 lire d’imposizione per 100 lire di rendita imponibile. Il fisco, non contento di assorbire tutto il reddito, rosicchia ogni anno un pochetto del capitale. Che vi pare di cotesta moderazione?

Nel 1855 l’uva era attaccata dalla malattia, dovunque. I governi sollevarono con ogni sforzo i proprietari sventurati. Il cardinale Antonelli profittò dell’occasione per gravitar sulle uve con un’imposizione di 1,862,500 lire. E siccome non v’era uva per pagare, cosi quella cadde sulle Comuni. Or, qual fu più terribile flagello, la crittogama o il cardinale Antonelli? Non certo la crittogama, che è sparita, mentre il cardinale è rimasto.

Tutti i grani raccolti nell’Agro romano pagano un diritto fisso di 2 scudi e 2|10 per rubbio. Il rubbio vale, in media, 8 o 10 scudi. Gli è dunque almeno 22 0|0, che il governo preleva sul ricolto. Sembravi imposizion moderata? Vi ha più del doppio della decima: ed eccovi in qual maniera sono coadiuvati i produttori del fromento! [p. 192 modifica]

Tutti prodotti agricoli pagano diritto d’esportazione. Io conosco governi che premiano coloro che esportano, è questo addimandasi incoraggiare l’operosità nazionale: ne conosco altri, ed è il maggior numero, che lasciano uscire liberamente l’eccedente de’ricolti; questo non si addimanda incoraggiare, si coadiuvare i lavoratori. Il Papa preleva, in media, 22 per 1000 sul valore totale delle mercanzie esportate, 160 per 1000 sul valore delle importazioni: il governo piemontese contentasi del 13 per 1000, nel primo caso, e del 58 nel secondo: io amerei meglio coltivar la terra in Piemonte.

Il bestiame è sottomesso a tasse vessatorie che ragguagliansi a 20 o 30 per centinaio del suo valore. Paga pel pascolo; paga fino a 28 lire per testa andando al mercato; e paga finalmente nell’esportazione. Intanto l'allevare il bestiame è una delle maggiori risorse del paese, e di quelle che vorrebbero essere coadiuvate.

I cavalli che ingrandiscono nella campagna di Roma, pagano 5 0|0 del loro valore ogni volta che sono venduti. Se cangiano padrone venti volte durante loro vita, il Governo ne approda egualmente che il venditore. E quando dico Governo, m’inganno. La tassa dei cavalli non è compresa nel bilancio, è una prebenda ecclesiastica. Il cardinal Datario la incassa, alla rinfusa, co’ redditi dei vescovadi.

«Il buon pastore dee tosar sue pecore, ma non scorticare.» È un imperatore Romano che lo ha detto. [p. 193 modifica]

Frattanto non oso più chiedere al santo Padre alcuna misura di protezione che avrebbe per sicuro risultamento di addoppiare il reddito di sua corona e il numero de’ suoi sudditi.

Ho detto che la statistica del 1857 non credeva esagerare la ricchezza territoriale de’ Romani estimandola a 2 miliardi e 610 milioni. Il prodotto grezzo di cotesto capitale si ragguaglia a più di 262,847,086 lire, ovverossia, al 10 0|0. È poco. Ricordivi che in Polonia ed in altri paesi di gran coltura, le terre danno fino a 12 0|0 di reddito netto, che vale almeno 20 al centinaio di prodotto greggio. Le terre romane darebbono altrettanto se il Governo vi prestasse mano.

Lo Stato dividesi in terre coltivate, e terre incolte. Le coltivate, ossia le piantate ad alberi utili, fecondate dagl’ingrassi, sottomesse regolarmente al lavoro dell’uomo, e seminate tutti gli anni, sono situate, la più parte, nelle province dell’Adriatico, lontane dalla veduta del Papa. In cotesta metà dello Stato Romano, la più degna d’interesse e la meglio conosciuta, venti anni di residenza dei Francesi hanno lasciato eccellenti tradizioni. Lo stravagante diritto di primogenitura vi è abolito, se non nelle leggi, almanco nei costumi; l’eguaglianza de’ figli d’un padre stesso reca, di conseguenza, la divisione delle proprietà, favorevol cotanto ai progressi dell’agricoltura. Vi si trova, come da per tutto, qualche gran proprietario, che in vece di abbandonare i suoi beni alla rapacità d’un [p. 194 modifica]intendente od amministratore, egli divideli da sè ed affidali in picciole porzioni al lavoro di scelti mezzadri. Egli fornisce terreno, fabbricati, bestiame e fondiaria: il mezzadro o colono fornisce le braccia di sua famiglia, paga le contribuzioni accessorie, e divide il ricolto col padrone del suolo. Sistema eccellente, pel quale le province adriatiche non sariano a compiangere se fossero sbrattate dagli assassini, protette contro le inondazioni del Po e del Reno, e sollevate dalle mostruose tasse che le schiacciano.

Le imposizioni sono manco pesanti che dall’altra banda degli Apennini; e vi hanno proprietarii nei dintorni di Roma, i quali non ne pagano punto. La Consulta di Stato, nel 1834, ragguagliava le terre privilegiate alla somma di 90 milioni. Ma parliam d’altro, e tocchiam dei terreni incolti.

Sul piovente del Mediterraneo, a mezzodì e a notte, al levante ed al ponente di Roma, e dovunque può giungere la benedizione del Papa, il paese piatto, che forma una grande distesa, è, in un medesimo, il paese più deserto, incolto e malsano.

Gl’intelligenti han fatto vaghissimi discorsi sul miserevole stato di cotesta bella ed abbandonata parte dello Stato.

Un dice: «Essa è incolta, avvegnachè è deserta: in che modo coltivarla senz’uomini? È deserta, perchè malsana, nè gli uomini, sapendo che v’andrebbe della vita, s’inducono ad abitarvi. Risanatela dapprima, e vedretela in breve da sè ripopolata; e gli [p. 195 modifica]abitanti faranno a gara per coltivarla, che, affè di Dio, non v’è suolo al mondo più fertile nè più ricco.»

Un secondo soggiunge: «Siete fuori di correggiata, e scambiato l’effetto con la causa e questa con quello. Il paese è malsano perchè incolto: gli strati vegetali accumulati gli uni sugli altri da secoli fermentano ai cocenti raggi solari. I venti ne sfiorano buona parte di miasmi sottili, impercettibili all’odorato, e nullameno nicidiali. Se tutte coteste piante fossero coltivate due o tre volte, se facessesi penetrare l’aere e la luce sino alla crosta del suolo, la febbre che cova sotto le erbe accumulate evaporerebbesi senza mai più ritornare. Adoperate coltri od estirpatori, e primo frutto che raccorrete sarà la sanità.»

Un terzo dice ai precedenti: « Bene vi apponete entrambi: il paese è malsano perchè incolto: ed incolto perchè malsano: gli è un cerchio vizioso di cui non uscirem si di leggieri. Gli è per cotesto che meglio mette lasciare i Santi in Chiesa, e quando delle febbri sarà venuta la triste stagione noi ce n’andrem lontan lontano, a godere del rezzo sotto i grandi alberi di Frascati.»

Se l’ultimo oratore non fosse prelato, affèche ne sarei maravigliato. Ma badate, monsignore! Frascati cotanto in rinomo, già tempo, pel cielo suo purissimo e salubre, ora non merita la fama di che gode; e fate ragione, che il medesimo può dirsi di Tivoli. į più sani quartieri di Roma, tali che il [p. 196 modifica]Pincio, a mo’ d’esempio, incominciano da pochi anni ad immalsanire. La febbre acquista terreno in proporzione dello scemar che fa la cultura; cui dovete arrogere le proprietà delle manimorte, ciò è dire, messe nelle mani de’ preti e de’frati, aumentano di 1,500,000 a 2,000,000 lire per ogni anno. Addimanderebbesi manimorta la mano che fa morire? »

Sottomisi tal delicata questione ad uomo di gran senno, onorato e ricchissimo, il quale coltiva qualche migliaio di ettare in un podere della Chiesa. È mercatante di campagna, come dicono costi: ed eccovi ciò che presso a poco mi ha ragionato:

«I sei decimi dell’Agro Romano sono proprietà di manimorte, tre decimi pertengono ai principi, un decimo a tutto il rimanente dello Stato!

«Mio proprietario è una Comunità di religiosi che dammi a fitto il suo territorio affatto nudo, per tre anni. Il bestiame e tutto il materiale agricolo è mio, ed è enorme capitale esposto ad ogni maniera di accidenti: ma, gli è cosi; per guadagnar poco nel povero nostro paese si ha a risicar molto.

« Se mio fosse il suolo, vi seminerei fromento da per tutto, avvegnachè sia eccellente il terreno; ma una clausola della scritta m’interdice di dissodare i terreni fertili, affinchè non sieno di troppo esauriti dal grano. E certo è che a lungo andare la sarebbe cosi, non facendo mai uso degli ingrassi; ma i terreni mediocri che il proprietario consente all’aratro saranno più presto esauriti, e rimarranno [p. 197 modifica]del tutto isteriliti. I frati pero hanno antecedentemente preso loro risoluzione; e quello che hanno in cima dei pensieri si è, che buoni terreni destinati a pascolo pel bestiame non iscadono della propria fertilità.

«Io pertanto raccolgo poco frumento, che i santi frati mi divietano maggior quantità; coltivo or una, ora altra parte; perchè, aver dire, nel mio podere, come in tutta la estensione dell’Agro Romano, la coltivazione è caso eccezionale; e finché l’andrà cosi, il paese non sarà sanato.

«Allevo bestiame, speculazione a volte eccellente o disastrosa, siccome vedrete. Sulla distesa della tenuta non v’è riparo di sorta per gli animali. Richiesi ai Padri, se non avrebbero edificato presepi aumentando in proporzione la paga del fitto. Il camerlingo del convento, stringendosi nelle spalle, m’ha detto: « Or che vi salta in capo? Noi siamo usufruttuarii; e per fare le migliorie che dimandate, vi rimetteremmo della rendita; ed a prò di cui? di coloro che verranno dopo noi? Gua’! Godiam del presente; l’avvenire sel prenda chi vuole, chè noi non abbiam figli da dotare.» E dicea giusto. Aggiongeva, il dabben uomo, che davami facoltà di fabbricar di mia borsa quanto fossemi in piacere, purché allo spirar del fitto i fabbricati ricadessero al convenio. A che risposi che avrei, ma che si prolungasse il fitto. Ma ricordai poi che le leggi canoniche proibiscono fittanze protratte oltre i tre anni, e la bisogna rimase costi. Ora, può ben esser [p. 198 modifica]ano e vigoroso il mio bestiame, siccome è n generale nel nostro paese; ma, perdio, l’intemperie delle stagioni come non gli nuocerà? Cento vacche in stalla fornirebbero nel verno latte in tal copia, quanto cinquecento esposte al sereno, e, per arrota, non costerebbero la metà per essere nutricate. Per dar mangiare alle nostre mandrie, ciascun giorno rechiam loro mezza catasta di fieno che spandesi sul suolo. Le bestie ne sciupano a iosa, e se piove, è tutto guasto. Ponete in conto diminuzion del latte, spese di trasporti, materia perduta e cento cose, e toccherete con mani, quanto sia piacevole avere a fare con gente che vive di giorno in giorno, ed in qual triste condizion versi un fittaiuolo di manimorte!

«Vi ha un miglioramento che volevo introdurre a mie spese, ma vi si oppose il convento. Dimandavo facoltà di allacciare un rivo d’acqua, scavar dei canali ed annaffiare i prati per migliorare è raddoppiare i foraggi. Che cosa mi risposero i frati? Ve la dò a indovinar fra mille. Han detto che la fertilità cagionata dall’irrigazione sarebbe una specie di violenza usata alla natura, е che in lasso di tempo, più o men lungo, il terreno ne avrebbe potuto soffrire. Che rispondere? I frati altra cosa non sanno che difendere i loro redditi, migliorarli non curano. Non fo rimbrotto ad essi nè di ignoranza, nè di malvolere; duolmi solo che sieno in loro mani si bei terreni. L’industria del pascolo, nelle condizioni su che siam [p. 199 modifica]forzati di esercirla, ne adduce a spaventevoli risultamenti. Un anno di siccità può tornarci fatale. Dal 1854 al 1855 abbiamo scapitato dal 20 al 40 per centinaio sul totale del bestiame: dal 1856 al 1857 la perdita è stata dal 17 al 25!»

Un difensore del sistema pontificio si offeri di provarmi, con cifre alla mano, che tutto andava per lo migliore, anche nelle proprietà ecclesiastiche. «Abbiam buone ragioni (dissemi) per dare la preferenza al pascolo sopra l’aratura. Eccovi una terra di 100 rubbia3. Se il proprietario si ficcasse in capo di porle a coltura da sè, e seminarle a grano, l’aratura, i lavori di zappa, la raccolta, la trebbiatura ed il recare in magazzino le derrate esigerebbero 13,550 giornate d’operai. Il prezzo dei salarii e delle semenze; il nutrimento dei cavalli e de’ buoi; l’interesse del capitale rappresentato dal bestiame; le spese di sopravveglianza; la conservazione degli utensili, ecc. ecc., forma un totale di 8,000 scudi, 80 per rubbio. La terra rende sette sementi per anno. Avete impiegato 100 rubbia di semenza 4, che ve ne darà 700. Il prezzo medio del rubbio di grano è 50 scudi: dunque la ricolta che avete in magazzino vale 7,000 scudi, e vi è costata 8,000! Dunque voi gettate 1,000 scudi, ossia 5,350 franchi, ponendovi in capo di [p. 200 modifica]coltivare 100 rubbia di terreno. Non mette, a cento tanti, fittarli ad un fittaiuolo che pagherà da 40 a 46 lire per rubbio? Avete costi, da un lato 5,350 lire di perdita netta, dall’altro 4,000 a 4,600 lire di rendita netta!»

Coteste ragioni poggiate su calcoli, d’un prelato assai destro5 provano un bel nulla, appunto perché hanno l’apparenza di provar troppo. Se la cultura del fromento fosse cosi svantaggiosa, in qual modo spiegherebbesi la caparbietà dei fittaiuoli? O crederem noi ch’eglino incaponiscano a coltivare i terreni pel solo piacere di giuntarvi ranno e sapone? Verissimo, che la coltura d’un rubbio tocca gli 80 scudi: ma falso di pianta, che le terre non diano che sette sementi. Ne rendono tredici, per detto de’fittaiuoli che non han vezzo d’esagerare i loro vantaggi. Tredici rubbia di grano valgono 13 volte 10 scudi, ossia 130 scudi. Sottraetene 80, ne rimangono 50. Moltiplicata per 100, avrete, 5,000 scudi o 26,750 lire che sono reddito netto di cento rubbia coltivate a fromento. La stessa estensione lasciata ad uso di pascolo darebbe da 4,000 a 4,600 lire di reddito netto.

Considerate inoltre che non è l’entrata netta, si la grezza che forma la ricchezza d’un paese. La cultura di 100 rubbia, prima di porre in tasca al fittaiuolo 5,000 scudi, ne ha messo in circolazione 8,000. Ottomila scudi o 42,800 lire sono andate divise nelle vuole scarselle di forse 1,000 0 1,500 poveri diavoli, ad un bel bisogno: il pascolo [p. 201 modifica]approda al proprietario, al fittaiuolo, al mandriano: tre sole persone.

Ultimamente è a considerare che chi surrogasse la coltivazione ai pascoli, quei surrogherebbe puranche alla febbre la salute: non parvi ingordo guadagno?

Ma gli ecclesiastici posseggono ed amministrano i beni delle manimorte che piegherannosi a si salutare ammodernamento, al quale niun personale interesse sospingeli. Finché ne saran padroni, preferiranno al bene delle popolazioni la dolcezza di loro abitudini e l’immobilità de’ loro redditi.

Un Papa che meriterebbe statua, Pio VI, concepì l’eroico pensiero di condurveli a mano, ordinando che 23,000 rubbia fossero tutti gli anni coltivate nell’Agro Romano e che tutti i terreni subissero man mano la coltura dell’uomo. Pio VII fece ancor di vantaggio. Volle che Roma, cagione d'ogni male, fosse la prima a fornire il rimedio. Tracció d’attorno alla capitale una zona di circa un chilometro, e impose ai proprietarii di por mano a coltivare, senza fiatare. Una seconda zona, dipoi una terza avevano a succedere alla prima, e la coltivazione, guadagnando tuttodi terreno, avrebbe fra pochi anni scacciato la mal'aria, e popolato di lieti abitanti la solitudine. Il limite de’campi doveva essere messo a piante, affinchè la respirazion degli alberi contribuisse con la cultura a risanare l’aere. Eccellente pensiero, comeche impregnato di un briciolo di violenza: il dispotismo intelligente avrebbe almeno in parte arrecato [p. 202 modifica]riparo ai danni del dispotismo balordo. Ma che può volontà d’uomini a petto della inerte resistenza d’una casta? Le leggi di Pio VI e Pio VII rimasero ineseguite. La coltivazione che, sotto il regno di Pio VI, erasi distesa a meglio di 16m. rubbia, è oramai ristretta a 5 o 6,000 sotto le paterne cure di Pio IX. Non solo è raro che alberi sieno piantati; ma si lasciano gli armenti andar rosicchiando le tenere messe, e gli speculatori incendiar foreste per trarne potassa!.

Le proprietà dei Principi sembrano essere condotte con manco rei ordini agrarii di quelle della Chiesa; ma non versano in florido stato, come altri potrebbe darsi a credere. La legge che nelle mani della stessa famiglia eterna ed infutura un’immensa possidenza, è ostacolo insormontabile alla divisione ed all’ammegliamento dei terreni.

E mentrechè le più liete pianure d’Italia languono in abbandono, una popolazione forte, instancabile, eroica coltiva, a colpi di badile, l'arido fianco dei monti, e struggesi a fecondar ciottoli e rocce.

Hovvi già mostrato i piccoli proprietarii montagnuoli, che riempiono le cittaduzze di 10,000 uomini, sul versante del Mediterraneo; e ben sapete con qual furore combattono la sterilità del loro poderetto, senza speme di arricchire un giorno. Cotesti sciagurati che consumano la vita per campar miseramente la vita, stimerebbonsi trasportati al terzo cielo se alcuno lor concedesse per contratto enfiteutico uno o due ettari nella [p. 203 modifica]campagna di Roma; chè allora avrebbe il loro lavoro un motivo, la loro esistenza uno scopo, la loro famiglia avvenire.

Temesi che eglino rifiutino di coltivare paese malsano? Mainò: imperciocchè son dessi che, tutte le volte che un proprietario il consenta, vi si danno a tutto uomo: son dessi che, al dischiudersi della primavera, discendon dai monti per franger le zolle a colpi di badile, ed a perfezion condurre il lavoro dell’aratro: son dessi finalmente che tagliano la messe sotto i funesti ardori del mese di giugno. Si gettano sur un campo di spini; zappano dal sorgere al cader del sole, non da altri alimenti rifocillati che da pane con poco formaggio. Dormono a ciel sereno, fra le pestifere esalazioni dei campi, donde parecchi di loro non si ridestano più. I restanti, dopo una mietitura di undici giorni, più assai perigliosa che una battaglia, recano alle povere famiglie 20 lire.

Se potessero stringere un’enfiteusi, o prender la terra ad anno, siccome i coloni di Bologna e i mezzadri dei paesi nostri, guadagnerebbero di vantaggio, nè a perigli esporrebbonsi. Potriano esser collocati, cosi per saggio, fra Roma e Montopoli, fra Roma e Civita-Castellana, nelle vallate di Ceprano, nelle colline che si distendono intorno ai Castelli di Roma. Vi respirerebbero l’aere sano cosi come quello de’ loro monti, ove la febbre fa pur di tanto in tanto capolino. Tosto, il sistema colonico, andando a rilento, ma andando, verificherebbe il bel sogno di [p. 204 modifica]Pio VII, e scaccerebbesi davanti la miseria e l’epidemia.

Non oso sperare che si gran miracolo debb’essere opera dei Papi. La resistenza è pre potente, ed il potere è molle. Ma se il Cielo, che ha dato ai Romani dieci secoli di dominazione clericale, loro accordasse per piccolo ristoro dieci buoni anni di governo laicale, vedrebbonsi forse i beni della Chiesa trapassar nelle mani più abili ed operose. Vedrebbesi annullato il diritto di primogenitura, abolite le sostituzioni, divise le grandi proprietà, i possidenti addotti dalla forza delle cose a coltivare i terreni anche a mala voglia. Un buon regolamento sull’esportazione dei grani inuzzolirebbe gli speculatori a coltivarli. Una rete di buone strade ed una gran linea di ferrovie trasporterebbero i prodotti agricoli da un capo all’altro dello Stato, vinte le spaventevoli difficoltà. La marina nazionale trasporterebbeli agli estremi del mondo. I pubblici lavori, le istituzioni di credito, la gendarmeria.... Ma, a che andar dietro ai cataloghi? I sudditi del Papa saranno ricchi e felici più d’ogni altro popolo d’Europa, da che non saranno governati da Papi: eccovi la somma del discorso.

  1. Signor Mirės
  2. Il debito pubblico degli Stati romani, pel marchese I. E. Pepoli. Torino, 1851.
  3. Il rubbio, misura di terreno, eguaglia un ettara ed 84 are. Cento rubbia sono dunque 184 ettari.
  4. Il rubbio, misura di capacità, è la quantità di grani necessarii per seminare un rubbio di terreno. Equivale a 217 chilogrammi di grano.
  5. Monsignor Nicolai