Il Governo Pontificio o la Quistione Romana/Capitolo 20

Capitolo 20

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Capitolo 19 Conclusione
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CAPITOLO XX


Finanza.


«I sudditi del Papa sono in necessità d’esser poveri; ma eglino quasi non hanno peso [p. 205 modifica]di tributo; è una compensazione.» Questo ho io più volte sentito, ed anche voi. Aggiungesi inoltre, sulla fede di non so quale statistica del secol d’oro, che eglino sono solo aggravati in ragione di 9 lire per ognuno.

Cotesto è favoloso, nè ho a durar pena per chiarirvene. Ma, fosse verità, i Romani non sarebbero meno degni di compassione. La modicità delle imposte è la triste consolazione di un popolo che nulla possiede. Per me, e credo anche voi, vorrei pagar molto, come gl’Inglesi, ma aver pieni i forzieri. Che direbbesi del governo della Regina, se, dopo aver guasto commercio, industrie, agricoltura; disseccato tutte le sorgenti della pubblica prosperità, dicesse agl’Inglesi: «Or su,state giulivi; chè, d’ora in avanti, pagherete sole 9 lire di tributo?» Risponderebbero unanimi: «Voi avete le traveggole, signori ministri: noi vogliamo pagarvi mille lire di tasse, ma continuare a guadagnarne 10,000. » Discorso questo, che parmi non faccia una grinza.

La modicità delle imposte non consiste in un numero anzichè in un altro. Essa emerge alle relazioni fra i redditi della nazione e le sottoscrizioni annuali operate dallo Stato. È conforme a giustizia che molto prendasi da chi molto ha: quanto difforme, torre anche pochissimo dal non abbiente. Ammesso cotesto assioma, che non trascende il senso comune, avviserete meco, che l’imposta di 9 lire per ogni individuo sarebbe già alquanto pesante pe’ poveri Romani. [p. 206 modifica]

Ma non parliamo nè di 9 nè di 18 lire.I tre milioni e poco più di sudditi romani hanno a sobbarcarsi ad un bilancio di 70 milioni: costi mi cadde l’ago! E come è ripartito cotesto bilancio? Iddio vel dica.

I piccoli proprietarii, la classe più utile, più laboriosa, più rilevante della nazione conculcate le leggi della logica, della giustizia e della umanità, ne risente il peso più grave.

Nè parlo io qui d’altra imposta che quella pagata allo Stato direttamente, ed ammessa nel bilancio. Bisogna inoltre aggiungere i carichi provinciali e municipali che, sotto foggia di centesimi addizionali, raddoppiano le contribuzioni dirette. La provincia di Bologna versa ogni anno 2,022,505 lire di contribuzione fondiaria, e 2,384,322 lire di centesimi addizionali. Questa somma di 4,406,827 lire, divisa fra 370,107 persone, dà per contribuzione diretta lire 11, 90 per individuo. Ma essa non gravita sulla popolazione; si sopra 23,022 proprietarii!

E neppure egualmente pesa sui proprietarii della città e quelli della campagna. Uno stabile in città stimato 100 lire ne paga 2,68 per imposta e sovr’imposta, nella provincia di Bologna: uno rurale, dello stesso valore, paga lire 6,32 per centinaio gravitano sul capitale, non mica sul reddito!

Nelle città i balzelli più gravi non cadono già sui palagi, ma bene sulle modeste case della classe mediana. Senz’uscir di Bologna, ecco il palagio di un ricco [p. 207 modifica]signore, che è inscritto al catasto per la tenue somma di 27,500 lire, perché gli appartamenti abitati dal proprietario non sono compresi nella rendita. Tale com’è, cotest’immobile rende 7000 lire e ne paga 452 d’imposta. La casetta che gli sta propinqua, nel cadasto 5,000 lire, rendene 250, e ne paga 84. Di qualità che la magione del grande vien tassata lire 6,57 per ogni centinaio di reddito; il casolare del cittadino lire 33,60!

A buon diritto compatiamo ai Lombardi; i proprietarii della provincia di Bologna sborsano 60,000 lire più di quelli della provincia di Milano.

Aggiungete i dazii di consumo, che versano sulle derrate di prima necessità al vivere, tali che farine, legumi, riso e pane; e che sono qui, più che altrove, intollerabili. La carne, exempligrazia, ha tassa pari a Bologna ed a Parigi; la paglia, il fieno, la legna da ardere, più cara.

Gli abitanti di Lilla sborsano 12 lire ognuno per dazio; gli abitanti di Firenze 12, quei di Lione 15; quei di Bologna 17. Or, non siam noi alquanto, lontani dalle, 9 lire dell’età d’oro?

Vuolsi, a dir vero, osservare che la nazione non sempre patì cosi duro trattamento. I pubblici pesi non salirono a tanta enormezza che sotto il regno di Pio IX. il bilancio di Bologna, fra gli anni 1846 e 1858, è cresciuto del doppio.

Fosse almeno l’oro versato dalla nazione speso pel bene della nazione! [p. 208 modifica]

Ma un terzo dell’imposta riman nelle mani degl’impiegati che la esigono: incredibil cosa, e pur verissima. Le spese di riscossione che in Inghilterra importano 8 per centinaio, in Francia 14, in Piemonte 16, negli Stati Romani 31 per ogni cento!

Se vi sorprende uno sciupinio che obbliga le popolazioni a pagar 100 lire perché il tesoro ne incassi 69, eccovi un fatto calzante che ve ne sarà persuaso.

L’anno scorso la carica di ricevitor municipale nella città di Bologna fu messa all’incanto. Un candidato onorevole e solvibile chiedeva per far l’esigenze 1 1|2 per cento: il Governo preferì il conte Cesare Mattei, camerier secreto del Papa, il quale volle 2 per ogni cento. Cotesto favoruzzo in pro di un servitor fedele del potere aumenta di 20,000 lire all’anno i pesi comunali della città.

Quello che delle imposte rimane, dopo il prelevamento del terzo, è versato nelle mani del Papa, il quale ne dispone cosi:

25 milioni vanno per gli interessi di un debito cotidianamente crescente, contratto dai preti e per i preti, aumentato mercè la pessima amministrazione de’ preti, e messo nel passivo della nazione.

10 milioni vengono divorati da un esercito inutile di cui il solo compito, fino ad oggi, è di presentare le armi ai cardinali, e di accompagnare le processioni.

3 milioni sono consecrati alla manutenzione e sorveglianza degli stabilimenti di somma necessità ad un potere sfatato ed impopolare; io dico le carceri d’ogni risma. [p. 209 modifica]

2 milioni per l’amministrazione della giustizia: i tribunali della capitale ne assorbiscono metà, perché hanno l’onore di essere, nella maggior parte, composti di prelati.

2,500,000 lire compongono il bilancio dei lavori pubblici, che limitansi ad abbellimenti oziosi di Roma, ed alla riparazione delle chiese.

1,500,000 lire per inuzzolire all’ozio i neghittosi di Roma. Una Commissione di beneficenza, preseduta da cardinale, retribuisce tal somma fra qualche migliaio di fuggifatica, senza rendere conto ad alcuno. E la mendicità ne gavazza. Dal 1827 al 1858 i sudditi del Padre santo hanno pagato 40 milioni di lire in funeste limosine, il cui effetto principale è stato di rapire all’industria ed alla coltura le braccia di cui non ponno far senza. Il cardinale presidente della commissione prende 60,000 lire per anno per le sue particolari limosine.

400,000 lire spesano assai sottilmente la pubblica istruzione, la quale è nelle mani di preti. A tal modica somma e ai due milioni della giustizia aggiungete una parte del bilancio dei lavori pubblici, ed avrete il totale delle spese utili alla nazione. Il rimanente serve al governo, che vuol dire, ad alquanti preti.

Assai mezzani finanzieri hanno ad essere Papa ed associati al poter suo, i quali cosi tenue somma spendendo in pro della nazione, chiudono tutti i bilanci col deficit. L’esercizio del 1858 recava un deficit di 12 milioni in circa.

Per colmare cotesta voragine, si ricorre ai debiti, che ora fannosi spiattellatamente col [p. 210 modifica]signor di Rothschild, ora di straforo con emissione di consolidati.

Il Governo papale contratto nel 1857 l’undicesimo prestito col signor di Rothschild; ed è una chiappola di 17,106,565 lire; ed ha emesso meglio di 33 milioni di consolidati, tra il 1851 e 1858, senza farne parola a chicchessia.

Il capitale che deve, e che i sudditi suoi hanno, di buona o mala voglia, a pagare, ragguagliasi al presente a 359,403,756 lire. Somma questa che se partiscasi pel numero degli abitanti, vi accorgerete che i bimbi che nascono nello Stato Pontificio sono debitori di 113 lire, di che daranno per tutta lor vita gl’interessi, comecchè non abbia cotesta somma recato profitto ad essi, nè ai loro antenati.

I 359 milioni e mezzo non sono andati perduti per tutti. I nipoti del Papa ne hanno incassato parte: gl’interessi generali della fede ortodossa ne hanno divorato buon terzo. È stato addimostrato che le guerre di religione non han costato al Papa meno di cento milioni. Le chiese, di cui Roma va si fastosa, non sono state pagate interamente dai tributi dell’universo cattolico; ed i residui da pagare sono a carico del popolo romano. I Papi sono andati liberali verso quei miserabili stabilimenti religiosi che non posseggonmeno di 500 milioni al sole! Queste spese, riunite in massa sotto titolo di allocazioni per il culto, fanno la lieve giunta al debito nazionale di 22 milioni. L’occupazione [p. 211 modifica]straniera, e massime l’invasione austriaca nelle province settentrionali, ha gravato gli abitanti di 25 milioni. Più il danaro sperperato, regalato, rubato, perduto, e 34 milioni ai banchieri per diritti di commissione sulle prestanze; e vi formerete il giusto concetto del debito, salvo forse un 40 milioni, il cui impiego inesplicato e inesplicabile arreca grandissima onoranza alla discrezione dei ministri.

Dalla ristorazione di Pio IX, una specie di rispetto umano sospinge il governo papale a rendere alcun conto non alla Nazione, ma si all’Europa. E l’Europa, che non pecca di curiosità, sta contenta al briciolo. Il bilancio pubblicasi in pochi esemplari, nè può averne chiunque voglia. Lo specchio dell’introito e dell’esito è a maraviglia compendioso e laconico. Ho sott’occhio il bilancio del 1848: in quattro pagine, di cui la meglio riempita ha quattordici linee, il ministro della finanza riassume entrate e spese ordinarie e straordinarie.

Troverete nella rubrica Riscossioni:

«Contribuzioni dirette e proprietà dello Stato, 5,201,426 scudi.» In massa!

Alla rubrica Spese:

«Commercio, Arti-belle, Agricoltura, Industria e Lavori pubblici, 601,764 scudi.» Sempre in massa!

Cotesta trapotente semplificazione consente al ministro di ben chiarire le cose. Se, ad esempio, la rendita delle dogane notata nel bilancio presentò una diminuzione di 500,000 scudi sul totale portato dalla direzione delle [p. 212 modifica]contribuzioni indirette, gli è che il Governo ebbe uopo di 2,500,000 lire per impiego misterioso. L’Europa non ne saprà nulla.

«La parola è d’argento, ma il silenzio è d’oro.» I ministri della finanza che sonosi succeduti hanno tutti adottato cotesta divisa. Quand’anche sieno necessitati a parlare, eglino posseggono l’arte di tacere ciò che la nazione vorrebbe sapere.

Quasi in tutti i paesi civili, la nazione gode due diritti che paiono ben naturali: quello di votare le imposte, e quello di chiarirne l'impiego.

Nello Stato pontificale, il Papa o il ministro di lui, dice ai cittadini: «Ecco quello avete a pagare.» E poi raccoglie la pecunia, spendela, e non se ne parla più, se non in modo vago.

Intanto per satisfare in qualche modo all’Europa, Pio IX promise di sottoporre la finanza ad una specie di Camera di Deputati. Ecco il testo di tale promessa che, insieme a molte altre, faceva parte del Motu-proprio del 12 settembre 1849:

«È stabilita una Consulta di Stato per la finanza. Essa si occuperà del bilancio prevenlivo; esaminerà i conti dell’anno pareggiati e compiti, e li autenticherà. Darà il suo parere sulla creazione di nuove tasse, o sull’alleviamento di tasse già esistenti; sul più equo riparto dei pesi, sui modi più proprii a rianimare il commercio, e, in generale, sopra tutto ciò che concerne gl’interessi del pubblico Tesoro. [p. 213 modifica]

« I Consiglieri saranno scelti da Noi sopra liste presentate dai Consigli provinciali. Il loro numero verrà fissato in proporzione delle province dello Stato. Il quale potrà essere aumentato, in un modo determinato, di alcuno de’nostri sudditi che ci riserbiamo di nominare.»

Permettete di distendermi un poco sul senso di questa promessa e su gli effetti che hannola seguita. Chi sa se la diplomazia non comincerà, fra non assai, a chiedere promesse al Papa? Se il Papa non ricomincerà a promettere mari e monti? E le sue promesse non saranno cosi derisorie quanto le surriferite? Quest’ultimo paragrafo merita un po’ di commento, come quello, dal quale grandi insegnamenti si possono tirare.

«È stabilita, » dice il Papa. La Consulta stabilita il 12 settembre 1849 ha cominciato a dar segni di vita nel 1853; quattr’anni più tardi. È una cambiale a lunga scadenza.

I membri di essa hanno una falsa ciera di deputati; falsa davvero, ve lo giuro, sebbene il signor di Rayneval, in servigio di sua tesi, chiamili Rappresentanti della Nazione: eglino la rappresentano tanto, quanto il cardinale Antonelli gli Apostoli.

Sono eletti dal Papa in una lista presentata da consigli provinciali: questi sono eletti dal Papa sopra una lista presentata dai consiglieri comunali, i quali sono nominati da’ loro predecessori del consiglio comunale, che erano stati scelti direttamente dal Papa, sur una lista di cittadini eligibili, i quai tutti [p. 214 modifica]avevano dovuto presentare certificato di buona condotta religiosa e politica. In somma non vi ha che un elettor solo, e questi è il Papa.

Ripigliamo la serie delle elezioni, facendo principio dalla nazione. Gl’Italiani sono ghiotti delle libertà municipali: il Papa sallo, e, da buon principe, ne dà ad essi a isonne. La Comune vuole da sè scegliere i consiglieri suoi: v'ha dieci consiglieri ad eleggere, ed il Papa nomina 60 elettori: sei per ogni consigliere! E gli elettori essi medesimi non sono là a casaccio: hanno tutti un certificato della parrocchia e della polizia. Frattanto, com’essi non sono infallibili, e nell’esercire novello diritto potrebbero equivocare, il Sovrano s’induce a fare da sè stesso l’elezione. I suoi consiglieri comunali (e son suoi davvero) vengono in seguito a presentargli una lista di candidati al consiglio provinciale. La lista è lunga, affinchè il santo Padre spazii nella scelta. Nella provincia di Bologna, per esempio, egli elegge 11 sopra 156 nomi, fra quali, per non ravvisare i devoti, bisognerebbe che avesse le traveggole. A loro volta gli undici consiglieri di provincia presentano quattro candidati, sopra i quali il Papa nomina un solo. Ecco in che modo la nazione vien rappresentata nella consulta della finanza!

Intanto, per darla ber grossa, il Papa aggiunge alla lista de’ rappresentanti alcuni uomini di sua scelta, della casta ed intimità sue. I consiglieri eletti dalla nazione sono eliminati ogni biennio nella terza parte: i nominati dal Papa direttamente sono inamovibili. [p. 215 modifica]

Per fermo, se corpo costituito offri mai piene guarentigie al potere, la Consulta roinana è quel desso. Ciò non ostante il Papa non vi fa a fidanza. Ne ha dato la presidenza ad un cardinale, la vice -presidenza ad un prelato. Regolamento speciale veglia a rendere l’azione de’consiglieri si limitata ed involuta, ed il potere del presidente così grande, che chi ben guardi debba riconoscerla, quella che è, verba, verba, præteraque nihil. Tanto è vero che la casta regnante vede in ogni laico un nemico!

E si appone. Cotesti poveri consiglieri laici, scelti tra’ più timidi, più sommessi e più divoti al Papa, non saprebbero al tutto dimenticare che sono uomini, cittadini, italiani. Dall’indomani della loro installazione, mostrarono il desiderio di adempiere al loro dovere verificando i conti degli anni precedenti: ma fu ad essi risposto che erano andati perduti. Insisterono: si razzolo, si trovò qualche foglio, ma si incompleto, che la povera Consulta non ha potuto in sei anni segnare una decisione di conformità.

Nulla le è stato detto sulle nuove imposte decretate fra il 1849 e 1853. Eppure sonosi contratti debiti all’estero, inscritte rendite consolidate nel gran Libro del debito pubblico, alienati immobili nazionali, sottoscritte convenzioni postali, mutato il sistema delle tasse a Benevento e simili, senza neppur chiederle che cosa ne pensasse.

Consultata intorno ad altre provvisioni finanziarie, ella ha risposto del no; ma il [p. 216 modifica]Governo non le ha badato punto. Nel Motu-proprio, chi ben riflette, è detto che sarà udita la Consulta, non ubbidita.

Tutti gli anni, alla fine della sessione, la Consulta invia al Papa umile supplica contro i maggiori abusi del sistema finanziario. Il Papa invia la petizione ad alcuni cardinali, e questi alle calende greche.

Il signor di Rayneval ammirava assai l’esposto meccanismo. Soulouque ha fatto meglio; l’ha imitato. Ma « vi ha un grado di cattivo governo, che i popoli, grandi o piccoli, illuminati od ignoranti, non comportano più oggigiorno.» Guizot, Memorie, tom. II, p. 293.