Il Ducato di Trento nei secoli XI e XII

Matteo Thun

1868 Indice:Il Ducato di Trento nei secoli XI e XII.djvu Il Ducato di Trento nei secoli XI e XII Intestazione 2 settembre 2021 100% Da definire


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IL

DUCATO DI TRENTO

NEI SECOLI XI E XII.

riflessioni storiche.











TRENTO

STABILIMENTO TIP. LIT. G. B. MONAUNI ED.

1868.

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ALLO SPOSO


Nel giorno solenne delle auspicate tue nozze, noi tuoi amici, lieti della tua felicità, ti facciamo l'offerta di questo opuscolo, sicuri che essa non ti sarà discara. Due cose la renderanno pregevole agli occhi tuoi. La prima si è l’importanza di questa monografia, che ci venne suggerita dall'illustre nostro conterraneo Tommaso Gar come degna di essere pubblicata a onoranza di fauste nozze e a reale e durevole utilità della trentina istoriografia: essa fu a noi favorita, con quella rara gentilezza d’animo che lo distingue, da un generoso e preclaro nostro patrizio, il Conte Matteo Thunn, uomo che alla squisita coltura dell’ingegno unisce il più puro patriotismo. L'altra si è il cuore degli offerenti, i quali non potevano in questo giorno non darti un segno di quell'affetto sincero che nutrono e nutriranno sempre per te, e non portare un tributo di stima ai tuoi sensi di caldo patriota e di ottimo amico. Gradisci adunque l'offerta, e questa, presentata da te alla bella e amabile giovinetta che infiorirà la tua vita, serva altresì a testificarle i sentimenti di profonda devozione onde per Lei sono compresi gli amici del suo sposo.

Trento nel Novembre 1868.
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Egregio Amico.


Dopo le angosciose vicende degli anni quarantaotto e quarantanove Voi riparaste fra le mura native, e deste opera ad ordinare la trentina Biblioteca ed a studiare con critico discernimento la storia del nostro paese che sempre fu, come è, regione non ispregievole d’Italia, avvivando in noi la speranza di ottenere da Voi un lavoro in ogni sua parte maestrevolmente compito, che sceverando la verità dalle favole e coordinando le cause e gli effetti degli avvenimenti, potesse istruirci e dilettarci colla narrazione coscienziosa e logica di tutto ciò che operarono i padri nostri, speranza che ancora non deponemmo quantunque la Nazione riconoscente abbia offerto alla vostra scientifica attività un campo assai più splendido e vasto. In allora mi eccitaste a scrivere ciò ch’io pensava sui documenti contenuti nel Codice Vanghiano, pubblicato per cura di Rodolfo King, e relativi alla condizione del principato di Trento nei primi due secoli della sua istituzione, cioè dal secondo degli Udulrici (1027) primo della serie dei nostri Vescovi che governasse con istabile legale potere il Trentino, fino a Federico Vanga (1207), durante il cui reggimento la potenza e l’estensione dello stato di Trento ebbe il massimo sviluppo, decadendo poi per cagione precipuamente della pertinace pressura esercitata da chi imperava sulle più recondite vette delle nostre Alpi centrali. Lo scritto che a Voi inviava non aveva altro scopo che corrispondere all’amichevole desiderio e di essere per avventura di qualche alleviamento alla fatica che stavate per imprendere. [p. 8 modifica]





Aveva per intero dimenticato quel breve lavoro, allorchè con mia grande sorpresa alcuni nostri amici, così da Voi consigliati, mi chiesero se fossi disposto a concederne la pubblicazione per circostanza di nozze. Il vostro consiglio mi dee persuadere, che avete giudicato il mio lavoro non del tutto infruttuoso, e per ciò di buon grado sotto i vostri auspici lo affido a quei gentili Signori che me ne fecero domanda, ed ai quali mi unisco per offerirlo qual pegno di amicizia e di esultanza allo Sposo che altamente stimo ed onoro.


Padova 15 Luglio 1868.


MATTEO THUNN



Al Signor Professore

Tommaso Gar

Diret. dell’Archivio nazionale

in

                         Venezia.


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Fu nell’anno 1027 che l'Imperatore Corrado il Salico, allora in Brescia, donava alla Chiesa di S. Vigilio di Trento, e perciò ad Udalrico vescovo di quella ed a suoi successori la Contea di Trento con tutte le sue pertinenze e ragioni nella forma in cui era prima tenuta a titolo di beneficio da Duchi, Marchesi e Conti, eccettuatane solo quella parte che nella Valle Sugana si estende dalla chiesa di S. Desiderio sino al fiume Cismone, stata già prima concessa alla chiesa di Feltre.

Il documento è firmato da Udalrico cancelliere in nome di Arbone arcivescovo di Colonia. Ma l'arcivescovo di Colonia era lo arcicancelliere per l’Italia; quindi è provato diplomaticamente che la Contea di Trento si riteneva fare parte d’Italia e non di Germania.

Prima di discorrere più oltre di quest’atto imperiale, volgiamo uno sguardo sulla condizione nazionale e politica del nostro paese nei secoli che precedettero.

Le nostre Alpi appartenevano alle retiche, e Reti erano gli antichi popoli che le abitavano, i quali a settentrione confinavano coi Vindelici, il cui paese era anche seconda Rezia appellato, perchè probabilmente quelle genti non alla schiatta germanica, ma alla retica erano affini. Certo si è che i Reti come è dimostrato dalle iscrizioni scoperte nelle valli collocate sovr'ambi i versanti del Pirrene (Brennero) appartenevano ad una o ad altra delle razze italiche e parlavano favella omogenea o consona ad esse, della quale abbiamo antichissimi testimoni nel romanico dei Grigioni e nel LadinoFonte/commento: Pagina:Il Ducato di Trento nei secoli XI e XII.djvu/10 di Badia, valli, che, per l’alpestre situazione, poterono resistere ali'invasione delle genti germaniche. E che popolo italo fosse, possiamo dimostrare eziandio con altri argomenti. Nei primi secoli del cristianesimo i fedeli qui dimoranti erano tutti [p. 10 modifica] aggregati alla chiesa di Aquileja; le denominazioni originarie delle cime dei monti, de’ più antichi paeselli, dei fiumi o dei torrenti, che rado si mutano col volgere dei secoli, come osservò il dotto tedesco Steub, sanno d’etrusco; italica l’abitudine del popolo di vivere concentrato in villaggi e non disperso in casolari: tradizione costante, che Reti e Raseni ed Etruschi discendessero da comuni progenitori. Fu solo nei secoli posteriori che il germanismo si infiltrò, intedescando paesi che prima del certo non lo erano.

Tacendo di tutte le invasioni nordiche, durante l’Impero Romano, sino a quelle degli Eruli e Goti, che, distruttolo, per buona parte si italianizzarono, è duopo accennare che, quando Narsete riconquistò, dopo Brescia e Verona, i confini d’Italia all’Impero d’oriente, un resto di più migliaja di quei barbari risospinti agli estremi limiti, là poterono soffermarsi; e da quelli discendono forse i Tirolesi che al di qua ed al di là del Brenero hanno loro stanza. Paolo Diacono, fra le varie province in cui era divisa l’Italia prima della invasione longobarda, enumera la Venezia che si estendeva sino all’Adda e di cui era capitale Aquileja, la Liguria con a capo Milano e le due Rezie poste fra questa e la Svevia, che però sono da lui considerate per regioni italiane mettendo per seconda la Liguria, per quinta la Cozzia e quindi ritenendo per terza e quarta le due Rezie.

Sia che il Trentino si comprendesse nella Venezia o nella Rezia prima, fatto è che indubbiamente era Italia sino alla sommità delle Alpi centrali, e siccome la città di Trento era il luogo più prestante per magistrati, popolazione e convegni, così deesi ritenere che di tutta questa ragione fosse la capitale.

Nell’anno 568 i Longobardi, abbandonato avendo il Norico e la Pannonia, discesero in Italia occupandone senza resistenza nella parte settentrionale tutto ciò che non ubbidiva all’Esarcato di Ravenna. Erano con loro e Gepidi e Bulgari e Sarmati e Pannoni e Svevi e Norici, tutti avventurieri. La conquista divisero in Ducati, di cui uno de’ più importanti fu il Trentino, governato da Evino, saggio e valoroso, del quale la storia del sesto secolo narra le nobili gesta.

Non è improbabile che esso con una mano de’ suoi avesse presa la via del Norico, cioè dell’alta valle della Drava e della Pustrissa, ed occupasse la Rezia intanto che Alboino si presentava nel Friuli e faceva il suo ingresso in Aquileja. Fatto è che nei primi tempi del dominio [p. 11 modifica]longobardo il ducato di Trento si estendeva per lo meno sino al Brenero. Avvalora tale credenza la lettera scritta a Maurizio imperatore circa l’anno 590 dai vescovi della Venezia e firmata cogli altri dai vescovi Agnello di Trento ed Ingenuino di Sabiona; il trovarsi nel decimo o nell’undecimo secolo nella diocesi di Bressanone ancora molte cospicue famiglie viventi colle leggi longobardiche, e l’essere i Franchi nelle prime loro guerre venuti contro i Longobardi dai Grigioni e dalla Venosta e mai per la valle dell’Isarco. Sinnacher, diligente raccoglitore delle memorie bressanonesi, porta pari opinione, e narra che circa l’anno 591 il regno longobardo si dilatava oltre Sabiona, e quindi verso il Brennero.

È probabile che in seguito alla pace conchiusa coi re franchi d’Austrasia ed alla parentela stretta pel matrimonio di Autari e Teodolinda coi duchi di Baviera della famiglia degli Agilulfidi, de’ quali una linea collaterale occupò nel secolo posteriore il trono longobardo, il Trentino perdesse quelle interne valli bagnate dall’Isarco e dal Pirro. Nel 680 era duca di Trento quell’Alachi od Alachiso, che, cresciuto in potenza, minacciò sbalzare dal sommo seggio lo stesso suo re. Fra questo duca ed un conte che governava Bolgiano a nome del bavarese nacque contesa, e, vinto il conte, furono più terre e castella, fra cui Bolgiano e Sabiona, occupate dai Longobardi; finchè nell’anno 765 re Desiderio le rinunziò a Tassilone duca, nell’occasione che questi sposò una sua sorella, o che voleva averlo amico.

Roma, sedotta dall’ambizione di temporale dominio, avvedendosi che i lontani imperatori di Costantinopoli, da lei blanditi e non temuti più non valevano a contenere le forze dei Longobardi, che, abbandonata la nativa barbarie ed ingentilitisi al contatto dell’assorbente elemento nazionale italiano, stavano per compiere l’unificazione della penisola, patteggiò col polente re dei Franchi Carlo Magno la rovina della loro regale dinastia e l’asservimento dell’Italia sotto altro dominio straniero.

Il Franco invase le pianure italiane; Desiderio, perseguitato da preti, tradito da molti de’ suoi, fu vinto e fatto prigione; Adelgiso suo figliuolo malgrado l’aiuto dello zio Tassilone, non potè sostenersi in Verona ed esulò a Costantinopoli. Il re vincitore spense i reali italiani, ed i ducali bavaresi, rinchiudendoli forzatamente in monasterii; poscia, dal Papa incoronato Imperatore, prodigò a Roma privilegi e ricchezze, non senza mantenerla, sino che visse, in giusta politica dipendenza, e si intitolò Imperatore dei Romani, Re dei Franchi e dei Longobardi. [p. 12 modifica]

La Baviera, parte dal regno d’Austrasia, divise politicamente in nove contee ed accentrò ecclesiasticamente nell’arcivescovado di Salisburgo con cinque vescovi suffraganei, fra i quali quello di Sabiona. Rimasto il Bolgianino alla Lombardia, e nello spirituale a Trento, sembra che questo si erigesse in separata contea, come a contea fu abbassato Trento col suo territorio; ambe le città sottoposte ad un Duca che risiedeva a Verona od a Trevigi.

Nell’806 avvenne altra modificazione nelle relazioni politiche del nostro paese. La Baviera, la Svevia, il Ducato Luriense con quanto si comprendeva fra il Reno, le Alpi, il Dannbio e la Drava, furono uniti all'Italia, o da Carlo Magno, nella divisione del suo vasto stato, assegnate a Pipino. Quindi il confine d’Italia a settentrione, anzichè alle Alpi, si protendeva sino al Danubio ed al Reno. Ma lungamente non sussistettero tali provedimenti per la morte dello stesso Pipino e del figlio Bernardo.

Però, durante il regno dei Carolingi, Trento appartenne sempre all’Italia. Lo prova fra altre memorie un capitolare dell’anno 823 di Lotario imperatore, che ordina dove si debbano tenero scuole in Italia; lo prova il convegno di Lodovico re dei Longobardi (d’Italia) con Lodovico re dei Bajoari in Trento nell’anno 890Fonte/commento: Pagina:Il Ducato di Trento nei secoli XI e XII.djvu/10, dove fu decisa dal primo una questione fra Annone vescovo di Frisinga e Odescalco vescovo di Trento per certe vigne sopra Bolzano, per cui aveva prima pronunziata sentenza il re tedesco, ma contro la quale appellò al suo proprio il vescovo di Trento. Dall’andamento della causa e dalle sentenze risulta che tanto Trento quanto Bolzano appartenevano alla giurisdizione del regno longobardo.

Si ha memoria che un Luitfredo era conte di Trento nel 845, e che a Manasse vescovo Ugo re d’Italia concesso la Marca trentina nel 935.

Il monistero poi di S. Giulia di Brescia ricordava i duchi di Trento Lupichi, padre di Gundeberta monaca e Valfrido fratello della monaca Agineva.

Siccome il monastero ebbe per fondatore re Desiderio, così devesi ritenere che vivessero o negli ultimi anni di questo re, od all’epoca degli imperatori franchi.

L’improvvida chiamata del sassone Ottone fu la causa della millenaria politica abbiezione dell’Italia. Non era stoltezza cingere di corona longobarda ed imperiale il capo di re tedesco? Ma non furono nè i Longobardi, nè i Romani, nè gli Italiani che gliela offrirono. [p. 13 modifica]

Furono i Franco-Germani arcivescovi, vescovi, duchi, conti ed altri grandi, avidi di potere, di richezze, e di gozzoviglie; superbi e feroci, venuti con Carolingi a tiranneggiare e spogliare le popolazioni, che, secondati da chi sistematicamente odiò ed avversò sempre ogni unificato potere nazionale, scelsero uno straniero per non avere freno di leggi ed autorità alle proprie arbitrarie sevizie. Il regno longobardico ed italico cessò di fatto con Ottone. Allentati i vincoli politici, ciascuno pensò a sè solo; non più ordinamenti, non più legislazione propria del regno, di cui presto si spense persino la ricordanza, e che si divise in statarelli che unicamente riconoscevano per superiore l’incerta ed indeterminata supremazia imperiale, di cui sprezzavano la autorità, quando non era alla forza congiunta.

Il Trentino in questo periodo continuò ad essere contea soggetta a quei Duchi sempre tedeschi, che risiedevano d’ordinario a Verona e che si dicevano di Carinzia, o Marchesi di Verona o di Treviso; quale fu nel 993 Arrigo, eziandio duca di Baviera, e nel 1002-1004 Ottone, avo dell’Imperatore Corrado il Salico.

Nell’anno 1028 il detto imperatore donava inoltre alla Chiesa di Trento quella parte della Contea di Bolgiano che era compresa nella Parocchia della Chiesa di Trento incominciando a Bauzano sino al fiume Tinna da una parte, al fiume BriaFonte/commento: Pagina:Il Ducato di Trento nei secoli XI e XII.djvu/10 dall'altra ed al fiume GarganzanoFonte/commento: Pagina:Il Ducato di Trento nei secoli XI e XII.djvu/10 dalla terza; nonchè la contea della Venosta, di cui non sono indicali i confini. Notisi che l’anno antecedente aveva donata l’altra parte della prima contea, che si estendeva oltre la diocesi di Trento, al vescovo di Bressanone; contea prima avuta dal conte Velfo, forse progenitore di quei Guelfi che a tanta fama salirono nei secoli susseguenti.

All’epoca della accennata donazione il Trentino, perdurando ancora la forma costituita all’Impero dalla organizzazione di Carlo Magno, che lo divideva in ducati, marche e contee, apparteneva alla Marca di Verona, e questa al grande ducato che abbracciava la Venezia, l’Istria la Carnia e la Carintia, i cui duchi sembra che risiedessero ordinariamente a Verona, ma di cui abbiamo traccia di dimora in Friuli o in Trento; ducato che di nome rimase alla Carinitia, e del quale in seguito furono investiti i conti di Gorizia, e dal quale si separarono tutti i paesi italiani.

Inoltrandosi verso il Brennero, dopo la contea di Trento, si trovava la contea di Bolzano, la cui porzione, poscia bressanonese, era detta [p. 14 modifica]Norithal; indi quella di Vipthal, che apparteneva ai signori di Maraith, ed oltre il Brennero susseguiva quella di Andeck.

Se poi da Bressanone si rimontava la Rienza, trovavasi la contea di Pustrissa, e più oltre quella di LurinFonte/commento: Pagina:Il Ducato di Trento nei secoli XI e XII.djvu/10, ambeFonte/commento: Pagina:Il Ducato di Trento nei secoli XI e XII.djvu/10 confinanti a mezzogiorno con quella di Cadubria (Cadore) donata in quel tempo ai vescovi di Frisinga.

Continuando poi a ritroso la corrente dell’Adige, dopo la contea di Bolgiano, si toccava a quella di Tiralli e della Venosta, e finalmente, alle scaturigini verso i Grigioni, a quella di Matsch.

Nel secolo scorso era invalso l’uso di distinguere le valli delle Giudicarie col predicato di marchesato, e qualche indagatore di patrie memorie mosse il dubbio che già anteriormente, e sotto i Carlovingi, ottenessero i vescovi di Trento l’investitura di quel paese, e che quindi non si avessero a comprendere nella contea di Trento.

L’osservazione però che in nessuna investitura delle regalie si fa menzione di tale anteriore possesso, che da nessun atto pubblico o privato dell’undecimo, dodicesimo o decimoterzo secolo si deduce alcunchè da corroborare tale supposizione; e per ultimo il fatto che le Giudicarie avevano la stessa politica organizzazione delle altre parti del Trentino e che sempre rispettarono ed amarono Trento, quale loro capitale, conferma la credenza che fossero una parte integrante della contea trentina e che con essa passassero sotto il governo dei vescovi.

Con precisione non è possibile il determinare quanto si estendesse l’esercizio della sovranità vescovile nelle contee di Bolzano o della Venosta. Sembra che i diritti sopra quest’ultima fossero meramente nominali, avendola in realtà già da tempi anteriori goduta i conti di Tiralli, i quali anche nella contea di Bolzano dividevano col vescovo le prerogative di conte.

Finalmente i vescovi di Trento ebbero in dono nel 1082 la Corte di Castellaro nel Mantovano, e nel 1167 la contea di Garda.

Alla fine del dodicesimo secolo il Ducato di Trento (che con tale nome chiameremo questo principato, appoggiati a diploma imperiale dell’anno 1189) confinava col Bresciano mediante la giogaja del Tonale e delle Alpi che separano le valli del Nauno (Noce) e del Sarca, e del Clisio da quelle dell’Oglio e del Mela. Al lago d'Idro apparteneva a Trento la pieve di Bagolino colle sponde settentrionali del lago, e, sorpassato il monte Vesta, che separa le acque del Clisio da quelle del [p. 15 modifica]Benaco, i confini cadevano fra le pievi di valle di Vestino e Tignale trentine e quelle di Gargnano e Tuscolano bresciane.

Sulla sponda orientale del Benaco la contea di Garda occupava tutta la china occidentale di monte Baldo sino alle radici verso Lazise, dove confinava colla repubblica municipale di Verona, e varcato il Baldo e discendendo nella valle dell’Adige detta dai veronesi valle trentina, erano nostre le pievi di Brentonico, Avio ed Ala, e questa sino a metà del paesello di Ossenigo. Con Vicenza si confinava mercè le cime di vall'Arsa, Folgaria, Lavarone e la pieve di Caldonazzo; mediante questa e quella di Levico col vescovado o contea di Feltre, che pure toccava la cresta della catena dei monti che separa la valle di Fiemme dalle acque del Cismone e della Piave.

Fiemme, nelle antiche carte detta anche Flemme apparteneva al ducato di Trento sino al ponte della Costa, mentre le sorgenti dello Aviso, ove giace Fassa, erano del vescovado di Bressanone o Sabiona. Varcate le cime del monte fra l'Aviso e l’Isarco, il confine era segnato dai due torrenti Flemador e Cardaun, il quale ultimo metteva nell'Isarco, lasciando a Trento la pieve di Nova.

Ad occidente poi di questo principale affluente dell’Adige era confine il fiume Tinna che separava Sabiona; poscia la sommità dell'alpi della selva Ritena (Ritten) proprietà del vescovo di Trento, della valle Serena, Serantina (ora Sarnthal) e delle pievi trentine di S. Genesio, Meltena, Vilandria, Maja e Schenna, comprendendo sulla opposta sponda dell’Adige il paese che abbraccia il piano ed il monte, inclusive lo pievi di Lana, Ultem e Tisens. Finalmente erano per intero trentine lo valli di Non e Sole, ossia la Naunia, sino al monte Tonale. Il principato di Bressanone era limitrofo al Nord; la contea di Tiralli all'occidente, nella quale i vescovi non poterono mai usufruire i vantati diritti.

Abbiamo dimostrato che il Trentino politicamente apparteneva all’Italia; italiano poi era il nostro popolo perchè italiani erano i Reti, perchè italianissime le colonie romane dedotte, perchè già per intero italianizzati i Longobardi; le quali schiatte costituivano la grande massa delle genti qui dimoranti.

I pochi Teutoni frammisti erano discesi cogli imperatori sassoni, franconi o svevi e per la maggior parte feudatari, o servi della gleba dai feudatari seco tradotti, o esercenti qualche speciale mestiere come quello di minatori: tutti stranieri, che dovevano aver trovato favore [p. 16 modifica] presso alcuni vescovi tedeschi, creature dei tedeschi Cesari, come fu un Altemanno, un Gebardo, un Adalperone, un Salomone.

Da una carta del vescovo Altemanno del 1124 sappiamo che promiscuamente latini e tedeschi erano i molti nobili e ministeriali in essa segnati quali testimoni. Da documenti di quel secolo apprendiamo che i signori di Pratalia, di Clesio, e di Pergine primi, vivevano colla legge romanaFonte/commento: Pagina:Il Ducato di Trento nei secoli XI e XII.djvu/10, e quindi erano italiani od italianizzati; il distretto di Pergine poi si governava colle leggi longobardiche o saliche, o perciò quelle genti dimostravano essere promiscue.

In quanto al linguaggio qui si parlava il latino volgare od antico italico sino nelle vallate più prossime al Brennero. Del che è prova il rinvenirsi nei documenti molti nomi italiani di monti, colti, boschi ecc., come sarebbero a dirsi Campo longo, Fontana frigida, Pietra forata, Valle glara (ghiaja), Ponte della costa, Traversara, Monte gola, Dosso alto, Pozzo major e simili. E siccome queste voci del popolo hanno forma italiana, cosi devesi con tutta ragione ritenere che il volgare italiano fosse la lingua usata dall'universale.

Nulla meno nella contea di Bolzano, più prossima alla Germania, era maggiore l'infiltramento del tedesco, non però qual lingua generale, perchè vi si parlava l’antico retico latinizzato, dialetto che si estendeva per tutta la catena delle Alpi sino in Francia, dove col Provenzale aveva grande analogia, e di cui abbiamo ancora degli avanzi nella valle di Badia sui confini del Bellunese. Anzi la tradizione vuole che e nella valle Venosta e nella Sarentina, ancora nel decimoquinto secolo, si parlasse il Ladino, che così chiamano quel vernacolo, il quale dovette via via dare luogo al tedesco prevalente per forza nei secoli a noi più vicini. Uno dei più antichi monumenti di lingua volgare ci è conservato dal Sinnacher nei suoi studi storici sulla chiesa di Sabbiona. È questo un documento di donazione di Tassilone duca di Baviera, dell’anno 788, nel quale si nominano le valli e le alpi date da lui al monastero di Intichinga (ora Innichen) sito alle sorgenti nella Drava e confinanti col Friuli, i cui nomi sono: Rinalva (Rio nell'alvo) Monte plana, Valgrata (Valle grata, gradita,) Valferna (Valle inferna-infernale), Maserola (piccola macera- masera luogo ove sostano le pecore di notte), Avala (diminutivo di Alvo-Albi, in dialetto abbeveratojo) Valle sella, PlancoFonte/commento: Pagina:Il Ducato di Trento nei secoli XI e XII.djvu/10. Il luogo poi concesso ai monaci per costruirvi il convento è detto Campo gelau (gelato) forma di dialetto prettamente veneziano. [p. 17 modifica]

Le donazioni imperiali furono fatte con quei diritti ed obblighi coi quali le contee erano prima tenute a titolo beneficiario da duchi, marchesi o conti; non fu quindi trasmessa ai vescovi la sovranità indipendente che quelli non avevano, ma solo la ragione di governare questi paesi, quali luogotenenti imperiali e reali, osservando le leggi e le consuetudini già esistenti, rispettando e tutelando gli altrui diritti, amministrando la giustizia, diffendendo il paese da interne perturbazioni e da esterne oppressioni, e rascuotendo i pubblici redditi che servire dovevano a rimunerare il beneficiato, a provvedere alle esigenze del governo ed a promuovere l'utile pubblico. Fu in questi e nei secoli seguenti, che i beneficiati, divenuti grandi feudatari dell'impero eziandio ereditarii, approfittando della generale confusione dei diritti politici e della impotenza della autorità centrale, usurparono molte prerogative sovrane nei paesi da loro posseduti a titolo di feudo o di beneficio, non riconoscendo altra supremazia fuori di quella che si velava nel vano concetto della maestà imperiale, bene spesso da essi osteggiata e tradita.

Per tal modo anche i vescovi di Trento, al pari degli altri grandi vassalli, ridussero nelle loro mani buona parte dei diritti sovrani confermati dall'imperatore colla investitura delle regalie, in cambio delle quali a lui giuravano fedeltà e vassallaggio e servizio in tempo di guerra. Alla curia imperiale era riservata la decisione soltanto in quelle questioni che insorgevano o fra i grandi feudatari, o fra essi ed i loro soggetti, o sopra massime di diritto governativo concernenti i vescovi stessi. Il codice Vanghiano ed altre storiche fonti ci porgono varii esempi di tali laudi o decisioni.

I vescovi non eran quindi autocrati nel nostro paese; dovevano governare secondo le leggi e le consuetudini e prendere le deliberazioni col parere della loro curia, cui prendevano parte i Canonici della cattedrale, i nobili ed i ministeriali della contea, i consoli e rappresentanti delle più cospicue comunità e molti giudici legulei specialmente convocati.

Nei due secoli, di cui stiamo occupandoci, l'elezione del vescovo non si faceva ancora esclusivamente dal Capitolo della cattedrale, da Roma o dall’imperatore (restrizioni posteriormente introdotte) ma apparteneva al clero, ai nobili e ministeriali, nonchè al popolo; riservata la conferma o al Patriarca d'Aquileja, cui era soggetta la Chiesa di Trento nello spirituale, od al Pontefice romano. L’imperatore, denegando la investitura delle regalie, poteva paralizzare l’elezione. Di frequente [p. 18 modifica] però le pressure dall'alto, le influenze dei maggiorenti, e forse le simonie e gli intrighi, la vincevano contro il libero voto popolare.

I vescovi risiedevano per solito a Trento nel palazzo vescovile, prossimo anzi aderente alla cattedrale; ma di frequente, come traluce dai loro placiti o da altre carte si trovano dimorare in Riva benacense od in Bolzano, dove avevano palazzo principesco, e che, dopo la capitale erano le più popolose, industri e commercianti borgate del ducato. Avevano una corte numerosa e dovevano tenere una splendida casa. Da carta dell’anno 1188, nella quale si enumerano i contributi corrisposti dalla valle di Flemme, apprendiamo che il vescovo Alberto aveva tre camerieri, un maniscalco, ed un sotto maniscalco, un siniscalco, uno spazzainferno, più dispensieri, un zebutolo, due portinai, due pescatori, sei cuochi, un pincerna, un cantiniere e più lavandaje.

Se qualche duca, marchese o conte del Trentino avesse nei tempi anteriori acquistato in paese fama di potente e dovizioso, e più ancora se qui come altrove tale beneficiaria dignità fosse divenuta per diritto o per abuso ereditaria, le patrie memorie ne farebbero menzione, sia per chiese fabbricate o per monasteri dotati, sia per rocche munite o per fazioni guerresche intraprese; ma la storia tace per intero; e quindi è forza il ritenere che, durante il periodo che corse da Carlo Magno a Corrado, nel Trentino non vivesse persona o famiglia che avesse conseguito od usurpato tale preponderanza da padroneggiare il paese: circostanza che facilitò l’atto di donazione ai vescovi o la conservazione in essi delle prerogative beficiarie, non avendo avuto per quelle a lottare con altri pretendenti, come avvenne per la contea della Venosta, di cui mai pervennero al possesso, perchè i conti di Tiralli erano troppo forti per lasciarsene spodestare.

Però la mancanza di preponderanti famiglie in quell’epoca è fatto non comune con altre contrade; e perchè speciale a questa, deve avere avuto qui una causa che altrove non esisteva: causa che sembra potersi rintracciare nell’ordinamento antichissimo, e forse d’origine retica, della nostra popolazione a comunità, e nella scarsezza di latifondi.

II sistema comunale, ostando all’asservimento del popolo e la mancanza di latifondi impedendo il concentramento della ricchezza ed il dilatarsi della servitù della gleba, furono cagioni che allora come adesso fossero più suddivise le sostanze, meno generale la miseria, più intenso il sentimento di libertà e d’indipendenza, tolti i mezzi morali e materiali a stabile feudale tirannide. [p. 19 modifica]

Che il Comune e nella città e nelle campagne preesistesse, e da più secoli, all’epoca della donazione imperiale, e che la sua istituzione ed i suoi ordinamenti fossero per diritto consuetudinario, se non scritto, legalmente riconosciuti ed efficaci e quindi protetti dalle leggi dell’impero, nonchè intangibili da parte dell’autorità vescovile, è ciò che affermo potersi desumere dalle condizioni storiche sociali del paese e dai documenti inseriti nel codice Vanghiano od a noi pervenuti da altre fonti.

Tutta la popolazione del Trentino, anzichè essere dispersa in casolari, come veggiamo accadere in Germania e sui latifondi d’Italia, vive o visse qui sempre agglomerata in villaggi, la cui antichità è anteriore ad ogni notizia storica, e che dee risalire alle epoche retica, celtica, o romana, se argomentare vogliamo dai nomi dei paesi stessi, dai cimiteri retici o latini trovati nelle loro vicinanze, e da quanto ci lasciò scritto lo stesso S. Vigilio, che, visitando la Naunia in sul finire del quarto secolo, stupì nel vedere le molte castella di cui la trovò popolata. Rare eccezioni incontravansi in pochi e più montuosi siti dove tedeschi feudatari, qui annidatisi, diedero a coltivare ai loro satelliti quelle inospiti terre. Di là ebbe origine il tedescume di Folgheria, servo dei signori di Beseno, quello di Lavarone dei Caldonazzo, quello di Proves, Lauregno e Ruffrè dei Castelfondo.

La convivenza di molte famiglie riunite porta con sè la necessità di socievoli odinamenti: da qui la prima origine del Comune. Altro argomento per dimostrare l’antichità del nesso comunale nel nostro paese si deve dedurre dalla immemorabile istituzione della massima parte delle nostre parocchie e dei beneficii parocchiali. Nel Trentino sussistono pochissimi patronati privati, che dire si possono eccezioni della generalità appartenenti ai comuni od al vescovo; prova questa, che le dotazioni non pervennero da largizioni dei maggiori o minori feudatari, che come di costume avrebbero a sè e successori riservato quel diritto, ma sibbene dalle popolazioni medesime che costrussero le chiese, e provvidero ai bisogni del culto e dell’ufficio sacerdotale. Come avrebbero potuto ciò fare genti serve o prive di ordinamento comunale e di spirito d’associazione? Della qual cosa abbiamo la memoria più antica in Caldaro, dove alla metà circa del nono secolo, vivente il vescovo Odescalco, i vicini di quel paese donarono alla propria chiesa molte suppelletili d’oro e d’argento e varie rendite, fra le quali alcuno percezioni d’oglio in sull’Archese, ed in Sirmione. Erano dunque ricchi quei vicini o [p. 20 modifica]comunisti. Si aggiunga eziandio che le nostre chiese parrocchiali antiche sono tutte dedicate alla Vergine Santa, od a Santi greci e latini dei primi secoli del cristianesimo, e quindi d’origine anteriore ai tempi franchi o germanici, nei quali la casta dominante non avrebbe mancato di venerarvi i loro santi legendarii. Notisi ancora che le circoscrizioni parocchiali, che nei tempi di mezzo coincidevano colle circoscrizioni comunali, si nominavano qui universalmente Pievi, da plebs; il quale nome, di etimologia evidentemente romana, denota giù l’esistenza di quella personalità collettiva, che noi diciamo il Comune.

Dai pochi documenti che ci rimangono dei secoli decimo, undecimo e dodicesimo, rileviamo che già in allora era fra noi generale il libero allodio e la suddivisione della proprietà fondiaria fra il complesso della popolazione, colla sola eccezione della proprietà vincolala a dipendenza feudale; circostanza che pressupone ordinamenti comunali atti a garantire il libero uso della proprietà ed efficaci a proteggerla contro il sopruso e la prepotenza di una età, in cui le istituzioni giuridiche erano molto indeterminate ed insufficenti allo scopo.

Ultimo argomento ed il più convincente si è quello che deriva dal considerare che i nostri Comuni, durante tutti i secoli scorsi, e malgrado tante e sì svariate oppressioni, seppero sempre gelosamente conservare la libera proprietà comunale della maggior parie delle selve, dei pascoli e dei terreni incolli, nonchè dei rivi, dei torrenti e dei laghi; proprietà, che, se andò col tempo a restringersi, minorò o per vendite spontaneamente fatte dai comuni medesimi, o per parziali usurpazioni nei casi in cui la forza prevaleva al diritto, o per divisioni seguite fra i comunisti ad oggetto di allargare i terreni coltivati, insufficenti al lavoro della crescente popolazione. Queste proprietà furono sempre godute in comune con norme stabilite dagli utenti, e, malgrado le sofferte falcidie, costituiscono ancora al presente la più gran parte della superficie del Trentino non dedicata all'agricoltura. L’uso di una proprietà comune qualunque non può praticarsi senza alcuno ordinamento, nè conservarsi e tutelarsi; per la qual cosa dobbiamo aver per fermo che queste popolazioni ubbidivano a provvedimenti comunali a tale scopo diretti. In fatti, noi veggiamo che presso i popoli che difettarono di sistema comunale, la proprietàFonte/commento: Pagina:Il Ducato di Trento nei secoli XI e XII.djvu/10 delle selve, dei pascoli e delle terre vacue divenne preda di chi esercitava sulle popolazioni colla forza i diritti del signore sui servi. [p. 21 modifica]

Il Comune quindi costituiva anche in allora l’unità politica elementare dello stato, e siccome la sua forma era la repubblicana, cosi deesi credere che repubblicani fossero i primi popoli qui stanziati, o cheFonte/commento: Pagina:Il Ducato di Trento nei secoli XI e XII.djvu/10 questa forma di governo si introducesse dalle colonie romane al decadere della repubblica, o nei primi tempi degli imperatori; forma che non valsero a distruggere tutte le successive invadenti germaniche masnade. Il comune poi aveva per propri fattori i fuochi, cioè le famiglie autonomicamente viventi, cui erano attribuiti gli obblighi ed i diritti comunali con perfetta eguaglianza. I fuochi, ossia i capi di famiglia, eleggevano i preposti comunali, nominavano i curatori d’anime, sopraintendevano alle chiese ed alle pie fondazioni. I comuni amministravano se stessi, invigilavano all’ordine interno ed alla sicurezza delle persone o delle cose, giudicavano dei minori reati e decretavano statuti ed ordinamenti colla approvazione del vescovo, cui erano immediatamente soggetti, qual conte o duca, che con essi patteggiava i tributi da prestarsi e gli altri oneri pubblici, in quei secoli sempre considerati quali debiti immutabili. La curia vescovile (pricipesca e non ecclesiastica) decideva o immediatamente o mediatamente coll'organo dei propri ufficiali le contese fra i comuni, ed il vescovo-conte esercitava la giustizia punitiva col mezzo di giudici o di pubblici placiti, secondo le leggi vigenti e nella forma e nella maniera dai comuni stessi accettata.

La suddivisione territoriale del ducato si può determinare con qualche probabilità, coordinando le sparse notizie che ci somministrano i documenti de secolo XII e quelli della prima metà del seguente, alla quale epoca non sembrano ancora intravenute sostanziali modificazioni del sistema anteriore.

Uno o più Comuni riuniti costituivano un — Districtus — Distretto simile a quello delle attuali giudicature, cui presiedeva una Curia vescovile con un ufficiale del vescovo — ministeriale — il quale vi esercitava l’autorità che ora diremmo politica o militare, con un Gastaldo o Gastaldione incaricato degli affari finanziarii ed economici, con uno o più giudici che sentenziavano nel civile e nel criminale assistiti dalla Curia o consiglio curiale, cui prendevano parte nobili, ministeriali e popolani, probabilmente delegati dagli stessi comuni. Nel secolo XI pare che pochi di questi distretti fossero infeudati in modo ereditario, e che i vescovi ne facessero disimpegnare il governo da propri ufficiali che ricevevano l'investitura del proprio ufficio cogli annessi diritti a tempo [p. 22 modifica]od al più per la durata della loro vita. Al principio dei seguente secolo si ravvisano traccie di simili inivestiture concesse con diritto di successione ereditaria, le quali si moltiplicarono nei posteriori e diedero origine alle giurisdizioni patrimoniali fiorite negli ultimi tre secoli e cessate ai giorni nostri.

All'epoca di cui è discorso sussistevano ancora sotto l’immediata soggezione vescovile le curie con distretto del monte Argentario, di Povo, di Sopramonte, di Banale, di Arco, di Riva, di Bono, di Ledro e Tignale, di Pradaglia, di Mecce, di Cles, di Ossana, di Livo, di Romeno, di Formiano e Flemme, di Termeno, di Bolzano, di Greifenstein. Una curia esisteva in Madruzzo per la valle di Cavedine, ma fu già prima infeudata a certo Gumpone di Madruzzo. Senza dubbio altra simile doveva aver sede in Pergine; ma ivi pure fa già mostra di sè una famiglia di tirannuncoli che dovette averla posta in non cale; del pari sembra avvenuto in Castel Beseno, e probabilmente a Fornace, a Salorno, a Egna ed altrove. Nel ducato trentino erano ancora inclusi i distretti dei Conti di Piano, di Flavon, e parto di quello dei conti di Tiralli, che erano bensì sotto l’alto dominio del vescovo, ma che in realtà davano ivi libero il freno al proprio volere.

Di tutti i comuni del ducato il più insigne e potente era certamente quello di Trento unica città nello stesso, che sempre fu capitale dell’intero paese.

Trento si reggeva colle proprie istituzioni comunali organate a modo repubblicano ed autonomo; non sottostava che all’alto dominio del regno e dell’impero, che era piuttosto concetto astratto d’un sommo potere giuridico unificante che non autorità fortemente ed efficacemente operante.

Quando e da chi avesse il civico comune la sua remotissima costituzione, in quel tempo ancora non scritta ma consuetudinaria, non è chi lo sappia. Simile a quella delle altro città italiane, in essa traluce non già l’origine barbara e settentrionale, ma bensì la natura latina ed etrusca, alla quale i Teutoni sopravvenuti imposero una velatura feudale, convertendo in ispeciali diritti e doveri tutto ciò che non era se non se il naturale risultato dell’ordinamento politico della nazione, e subordinando tali doveri e tali diritti ad una autorità superiore, la quale per contratto ne concedeva l’uso o ne prescriveva l’obbligo; contratto che si diceva infeudazione, e che, stipulato, non poteva essere [p. 23 modifica]annullato che di comune consentimento dei contraenti, o per inadempimento delle condizioni stabilite, o per forza maggiore, come quasi sempre accadeva, perchè nello stato non esisteva forza legale (spenta dopo la caduta del regno longobardo e non risorta che molti secoli dappoi) col cui mezzo fosse tenuta in freno ed in equilibro l’individuale libertà e licenza dei cittadini.

La società tutta era in uno stato di continua guerra intestina: perchè insufficiente il potere supremo dello stato, ognuno colla sola forza poteva difendere sè e le sue proprietà. Laudi e decisioni di chi aveva diritto a sentenziare di spesso non si potevano eseguire da chi ne avrebbe avuto il mandato; e colui a cui favore si pronunziavano, se non aveva forza sufficiente a procurarsene l’efficacia, doveva posciaFonte/commento: Pagina:Il Ducato di Trento nei secoli XI e XII.djvu/10 procurarsi alleanze, soventi interessate, per mantenersi ne' suoi diritti.

I grandi comuni o Municipii (come quelli che contavano più numerosa popolazione e maggiori ricchezze, frutto dei commerci, e delle industrie che vi fiorivano) i quali per la originaria loro costituzione e per lo spirito di indipendenza proprio a genti educate alla libertà, erano conscii dalla propria forza, opposero maggiori resistenza a chi voleva opprimerli o spogliarli dei loro privilegi, e coll'allettamento di un vivere più libero, sicuro e dilettevole, andavano via via consociando novelli concittadini anche fra quelli che prima erano i loro più pertinaci nemici. Per la qual cosa, malgrado il continuo avvicendarsi di nuovi barbari stranieri dominatori, seppero guardare la propria indipendenza dai duchi, marchesi e conti che reggevano le provincie a nome degli imperatori, che sopra le città non esercitavano che i diritti immediati del capo dello stato, limitati all’esazione di alcuni tributi, al comando delle schiere in tempo di guerra ed al pronunziare sentenze in quelle questioni in cui il comune era interessato con contendenti che al suo nesso non appartenevano, e in certi casi in grado di appello. Grande era in ciò la differenza fra le città e le campagne, le quali, perchè più tiranneggiate da piccoli beneficati e feudatari che le reggevano in nome del sovrano col titolo di conti, valvassori, valvassini, Ministeriali, decani, giudici, gastaldi, erano molte volte impotenti ad opporsi alle loro angherie od a sviluppare tutto quel potere autonomo, di cui si avvantaggiavano le città. La quale differenza di diritto era quella che caratterizzava le Regalie, che, dagli Svevi imperatori contrastate, diedero origine alle micidiali guerre fra le città italiane e [p. 24 modifica]l’Impero, che, vinto da esse, venne a una transazione, mercè la quale i comuni furono mantenuti nei loro diritti, salva sempre la soggezione all’Impero medesimo.

Trento godeva anch’essa delle regalie, e nessun documento dello undecimo o del dodicesimo secolo ci induce a ritenere che la città fosse immediatamente soggetta al vescovo nella sua qualità di conte, o ad un suo feudatario; anzi è da aversi per fermo che si reggesse da per sè ed a lui non prestasse, quale Vicario imperiale, che quello che prima aveva direttamente corrisposto al sovrano.

Che essa si governasse col mezzo di un consiglio di Consoli ci dimostra un documento dell’anno 1171, in cui sono registrati quali testimoni, immediatamente dopo i grandi feudatari del ducato, i Consoli della città; fra i quali troviamo nominali Enrico della Porta, Acilio e Rambaldo del Mercato, Trentino figlio del fu Ottone RiccoFonte/commento: Pagina:Il Ducato di Trento nei secoli XI e XII.djvu/10, Saurino, Odelrico, Fraino Franco e VainricoFonte/commento: Pagina:Il Ducato di Trento nei secoli XI e XII.djvu/10, nomi che si incontrano in quel tempo ripetuti in molti altri documenti. Essi dovevano eziandio fare parte della Curia del principe, che era il corpo deliberante dello Stato; la città quindi col mezzo de’ suoi Consoli era rappresentata ai detti consigli curiali ed aveva parte al supremo potere dello stato ducale.

Ma sia che il popolo di Trento, pari a quello della massima parte delle altre città italiane, mostrasse tendenza avversa alle mire degli imperatori tedeschi; sia che a Federico primo, il quale aveva rudamente provato il valore ed il fermo proposito delle itale genti, allora generosamente indomite ed agguerrite, volesse assicurarsi sempre aperta la via del Trentino per discendere in Italia e ritorre di nuovo colla forza quanto aveva non spontaneamente conceduto; sia che il vescovo Salomone tedesco, creatura dell’Imperatore, cogliesse il destro dell’opportuno momento per assicurarsi un dominio più immediato ed assoluto sulla città e ridurla alla condizione delle campagne; fatto è che nell’anno 1182, cioè cinque anni dopo la tregua di Venezia ed uno prima della pace di Costanza, l’imperatore, stando in Wimpfen nella Svevia promulgaFonte/commento: Pagina:Il Ducato di Trento nei secoli XI e XII.djvu/10 colle forme più solenni un placito imperiale, col consiglio e beneplacito dei principi (tedeschi) e dei sapienti della Curia imperiale, per cui spoglia la città di Trento dei più importanti diritti regali, alcuni de’ quali trasferisti ai vescovi. Salomone era già vecchio; in sua vece intervenne all'atto Alberto, suo Vicedomino ed immediato successore, della famiglia dei Madruzzo, accompagnato da varii grandi [p. 25 modifica]vassalli vescovili, tutti certo del partito ghibellino e probabilmente di razza tedesca, e da nessuno rappresentante della città di Trento, dove la disposizione sarà stata eminentemente impopolare.

Il placito non fa cenno che i trentini avessero in antecedenza ingiustamente avuti o carpiti i diritti di cui li priva: quindi si può dedurre che ne erano in legittimo possesso. Il motivo fu sola ragione di stato; lo scopo, segregare quanto più era possibile dalla rimanente Italia questa sua importantissima provincia, ed assicurare ai tedeschi fra queste gole montane una posizione minacciosa per la Lombardia, la Marca trivigiana e la Toscana. Che tale fosse veramente il pensiero del Barbarossa ci conferma l’osservazione: avere in questa circostanza agito non da re d’Italia ma da re di Germania, facendo controfirmare il decreto dall’Arcivescovo di Magonza, anzichè da quello di Colonia, come soleva farsi in tutte le investiture delle regalie del vescovado, e chiaramente indicando nel concetto, che ciò si disponeva affinchè Trento rimanesse fedele e tranquilla del pari a tutte le altre citta del teutonico regno.

Trento allora, come sempre, sentiva altamente se essere italiana, e i cittadini dovevano condividere le aspirazioni della lega lombarda, se per averli fedeli e tranquilli, cioè servi ed impotenti, fu necessario privarli de’ loro più nobili ed ambiti diritti e privilegi. Il decreto del Barbarossa non è importante solo per la storia nostra, lo è eziandio per quella dell’Italia tutta, che può imparare, che coloro che vollero asservirla e straziarla anche nei vecchi tempi, seguirono costantemente la politica massima di assicurarsi la padronanza dei passi per le Alpi retiche e per la valle dell’Adige.

Un’analisi delle varie disposizioni contenute in questo documento ci aprirà la via per discoprire quale fosse prima e dopo quest’epoca la condizione politica della città.

Primieramente quella scrittura o decreto spoglia Trento dei propri Consoli. L’ordinamento consolare, derivato dall’antico romano, dava ad essi, gli eletti del popolo, la somma dell’autorità locale, nè ad altri erano soggetti che all’Imperatore od a suoi vicari. Col togliere a Trento la dignità consolare e col sostituirvi i Sindaci, come si prescriveva, era annullata la sua politica ed amministrativa autonomia, e la città cadeva sotto il districtus o giurisdizione de' vescovi, assimilata a qualunque altro comune forese. [p. 26 modifica]

Inoltre proibisce a qualunque cittadino, che non sia libero o miniseriale della chiesa, il fabbricare torri e fortilizzi, senza permesso del vescovo e la adesione del suo avvocato, ordinando che, dove esistano tali costruzioni, debbansi abbattere, con minaccia dello sdegno imperiale per chi non fosse pronto ad ubbidire; pei ministeriali e liberi bastava invece la sola concessione vescovile. Liberi erano coloro che non avevano vincoli nè col comune nè col vescovo, e ministeriali quei che avevano giurato vassallaggio al principe, in cambio d’un feudo concesso. Apprendiamo da questa disposizione che per lo innanzi i cittadini potevano erigere le solite bastite in città, indipendentemente dalla volontà del vescovo, bastando il solo consenso del Comune, che in Trento dimoravano famiglie o libere o ministeriali, le quali erano escluse dal nesso comunale, e che nella città dalle trenta torri già in allora, molte furono pria costruite; lo che facile è il dimostrare, considerando lo stile architettonico delle ancora esistenti. Col concedere agli estranei il fortificarsi e niegarlo o difficoltarlo ai cittadini si voleva afforzare il partito ostile al Comune, cioè quello aderente ai tedeschi, e togliere alla città il mezzo di resistenza, se opporsi intendeva colla forza alle soperchierie vescovili od imperiali.

L’Imperatore toglie alla città o trasferisce al vescovo il diritto del Comune di fissare ed ordinare le misure ed i pesi del vino, del pane e delle altre derrate; nel qual diritto si comprendevano in generale tutti i provvedimenti annonari. Non era cosa di lieve momento, specialmente in epoca in cui si alteravano pesi e misure non solo per frode privata, ma eziandio per ingordigia di chi comandava. Col privare il Comune di quel diritto, cui forse andava unito anche qualche provento finanziario, cessava ogni guarentigia al pubblico che era esposto ad essere anche per questo verso taglieggiato dai nuovi padroni.

Il Comune aveva l’autorità di imporre collette, sia nell’interno, sia nell’esterno (dal che risulta che la città aveva eziandio un suo proprio distretto, cui comandava) e la facoltà di ordinare sul ponte, sulla navigazione, e sulla moneta. Questi diritti passarono pure al vescovo, con grave danno economico del popolo trentino, che ne andò privo.

Comprendeva il primo diritto la facoltà di ordinare autonomicamente tutto il proprio sistema economico e procacciarsi i mezzi pecuniarii necassari per sopperire ai propri bisogni e fare tutto quello che il Comune deliberava fosse intrapreso. Il ponte sull’Adige, aderente alla città, [p. 27 modifica]esisteva anche in quel tempo, ed il Comune proprietario percepiva un balzello detto pontatico da chi lo transitava; come altresì pagavano una tassa le zattere e barche che navigando per l’Adige passavano lungo la città. Questi due modi di rendita gli sono pure tolti e ciò per ridurlo in piena balìa dei vescovi. Varii documenti dei tempi posteriori fanno fede che a Trento non furono più restituiti i diritti sul ponte e sul fiume; forse la torre, che dal vescovo Vanga ha nome, perchè da lui costruita, ebbe lo scopo di tutelarne l’uso, e chi viveva in sullo spirare del secolo scorso ricordava ancora la catena che superiormente alla stessa chiudeva di notte la navigazione, tenuta ad un tributo al principe. Riguardo alla zecca trentina basterà riportarsi a Giovanelli e Gazzoletti, egregi scrittori ed amici da noi compianti, che dimostrarono essere solo in quest’anno 1182 passato il diritto di coniar moneta dal Comune ai Vescovi, l’immagine dei quali appar su essa improntata per la prima volta sotto il vescovo principe Salomone.

Le città italiane, per assicurare la propria indipendenza ed aumentare in possanza, avevano in quell'evo adottato il sistema di obbligare i nobili del contado a prendere stanza in città e ad ascriversi fra i comunisti; il che avevano fatto anche i trentini, come ci viene dimostrato da alcuni documenti del secolo dodicesimo che accennano a nobili e ministeriali aventi casa e beni in Trento. L’imperatore vieta severamente ai Trentini il costringere alcuno ad inurbarsi, sia nobile o plebeo, ed il ricevere chiunque permutasse domicilio per esimersi da debito di sudditanza verso altrui; statuisce ancora che se alcuno fosse stato costretto ad abitare in città ed avesse prestato giuramento di fedeltà al Comune, sia prosciolto ed abbia libera facoltà di dipartisi. Ecco il Comune autorizzato a vincolare con giuramento la fede degli abitanti, che, prestatolo, erano tenuti alla osservanza delle leggi e degli ordinamenti comunali, eziandio onerosi ed obbligati a concorrere alla difesa dei comuni interessi. Il placito indi soggiunge; che se qualcuno di coloro che spontaneamente o forzatamente si portarono ad abitare in città, per muovere in questo modo più valida guerra ai loro avversari, per disturbare colle forze cittadine la pace della patria e per macchinare nocumento al vescovado o molestia all'impero, non uscisse dalla città e si trasportasse altrove e fosse scoperto, sia abbandonato insieme alle sue sostanze alla balìa del vescovo. Tale disposizione spiega manifestamente lo scopo del diploma. Avesse o non avesse la città, colle sue [p. 28 modifica]tendenze nazionali e col suo spirito liberale, dato causa a sì rigorose ed oppressive disposizioni; fatto è che, tanto l’imperatore quanto il vescovo, temevano il popolo, e gelosi dell'ingrandimento del Comune, cercarono modo di infrenarlo, e riuscirono nell’intento; perchè il Comune di Trento, a differenza degli altri comuni urbani d’Italia, non trovò mezzo nè in questo nè nei secoli susseguenti di assoggettare al proprio dominio l’intera contea; anzi, circoscritto dai propri limiti comunali, fu poi sempre costretto a riconoscere la supremazia dei vescovi principi. Soggiunge poi il placito: che sia proibito ai Trentini il costringere coloro che abitano al di fuori in municipii o castella a riconoscereFonte/commento: Pagina:Il Ducato di Trento nei secoli XI e XII.djvu/10 il loro — distretto — e la loro potestà, ed assolve coloro che vi si erano sottomessi, sia spontaneamente sia per forza.

Finalmente ordina, che se alcuno, divenuto ricco, procurasse esimersi dalla nativa sua condizione di ministeriale della Chiesa di Trento possa il vescovo costringerlo a rimanervi, privandolo, se ribelle, di tutti i suoi averi sì feudali che allodiali.

Chiudesi l’atto colla conferma a favore dei vescovi della presente e delle anteriori concessioni imperiali.

All’epoca dunque di cui discorriamo Trento aveva perduti i suoi diritti regali, era discesa alla condizione di tuli i gli altri municipi rurali, viveva soggetta al vescovo, stremata in potenza, in dignità, in considerazione. Nè hanno valore, a rigore di critica, gli arguti argomenti del barone Cresceri, che pretese sostenere, che il decreto imperiale non ebbe mai efficacia in Trento, e che, solo vivente il principe Federico Vanga, a lui siasi spontaneamente assoggettata la città. Nessun documento ci prova che Trento avesse dal 1182 al 1208 conservata la sovranità di se stesso: anzi molte altre ragionevoli congetture ci fanno sostenere, che i vescovi usassero dei diritti novellamente acquistati, non però senza qualche opposizione da parte dei più influenti cittadini.

Dopo Trento, Bolzano, allora borgata, era il comune più importante del ducato. Bauzano, Bozana, Bozano sembra avere presa qualche estensione all’epoca in cui, abbandonata la via del monte Giove, che da Maja conduceva ad Endidena, le relazioni fra l’Italia e la Germania si mantennero per quella della selva Rittena (Rithen) che percorreva le alture occidentali della valle dell'Isarco, posteriormente detta dai tedeschi Norithal, che potrebbe significare valle in verso il Norico. Bolzano, appartenuta all'Italia romana e gotica, corse varia fortuna [p. 29 modifica] sotto i Longobardi ed i Bajoari; finché divenuta sede d'una contea sotto i Carolingi e gli Ottoni, fu donata da Corrado il salico ai vescovi di Trento. Si reggeva a comune; era immediatamente assoggettata al vescovo, che vi aveva un proprio gastaldione amministrante le rendite episcopali. Già allora aveva dell’importanza per i suoi commerci, per la produzione del vino e per il suo teloneo. Pagava un tributo al vescovo, scompartito sulle case, e vi si parlava l’italiano, come affermano i nostri più vecchi istoriografi.

Terzo per importanza fra i municipii trentini era quello di Riva benacense, o in — summo lacu — come dicevasi in quei secoli, che sempre si resse a comune, nè fu mai soggetta ad alcun locale feudatario. La sua posizione alle rive del Benaco, la attiva navigazione che vi intratteneva, e l’essere centro di un esteso territorio, quale costituivano le pievi di TignaleFonte/commento: Pagina:Il Ducato di Trento nei secoli XI e XII.djvu/10, Ledro e Bono che vi concorrevano, nonché le sue fiere di primavera e d’autunno già salite in rinomanza nel secolo XII, facevano di Riva uno dei luoghi più accarezzati dai principi, che di sovente vi dimoravano, vi tenevano le loro curie e la favorirono con varie concessioni e privilegi. Riva, nel decimo secolo, sembra essere stata una corte imperiale, come leggesi in documento dell’anno 937 col quale Ugone e Lottario re d’Italia confermano la donazione fatta da Berengario Augusto a sua moglie Anna imperatrice delle due corti poste in — summo lacu — dette Ripa e Mauriatica (forse Mori estendontesi sino a Nago e Torbole). Con Riva commerciavano assai attivamente i Mantovani, che nell’anno 1014 ottennero un privilegio imperiale che gli esentava da ogni dazio e ripatico imposto sulle merci trasportate per — summum lacum. — Già nell'anno 1124 il vescovo Alternando concesse al comune di Riva, rappresentato da dodici vicini, il diritto di costruire e presidiare un castello a difesa delle persone e delle sostanze, attribuendogli una giurisdizione sui ladri, malfattori, debitori, traditori e nemici del vescovado; ed accordando una ammenda di cinque soldi a chi contravvenisse ai bandi del mercato.

Di un Sindaco di Riva abbiamo memoria in una sentenza per confini fra Arco e Riva del 1145; e nel 1135 i Rivani si confessarono tributari del vescovo di XII monete veronesi per casa, giurarono di diffenderlo per tutta la contea, purchè a ciò diffidati, di farsi capo della guerra in summo lacu, cioè nella parte superiore del Benaco e di ajutare il vescovo a proprie spese. All'incontro questi si obbligò a non [p. 30 modifica]infeudare altri che gli stessi Rivani del fitto delle case e dell’abitazione che aveva sul Dosso. Un gastaldo amministrava i beni episcopali, tanto di Riva quanto delle annesse pievi, dove si portava pure a rendere giustizia un messo principesco. Tutto ciò prova che i Rivani erano a quell’epoca già potenti, che si tenevano strettamente fedeli al vescovo per esimersi dalla soggezione a locali tirannelli e che, dati alla navigazione od al commercio, scambiavano i prodotti delle altre rive del Benaco e dell’Italia con quelli delle valli trentine e della Germania.

Il Comune di Arco, limitrofo a quello di Riva, godeva del pari nei tempi remoti della propria indipendenza ed era pervenuto a insolita condizione di prosperità e potenza, essendo in allora suo proprio allodio il castello. Il vescovo teneva una curia in Arco ancora nel 1124, governato da Sindici nel 1144. Ma a poco a poco il comune fu superchiato da potenti signori del luogo, che da esso ottennero in feudo il castello, dal vescovo la giurisdizione sul distretto ed altri cospicui beni e che all’epoca di cui ragioniamo erano già tra le più illustri famiglie che enumerasse il ducato.

Tra i municipi del territorio merita speciale ricordanza quello del borgo di Pergine, che constava dell’intero suo distretto esteso quanto ora lo è la parocchia.

E qui permetterete, onorevole Amico, che rammenti quel documento del 1166 che fu da Voi con tanto discernimento illustrato e che tanta luce diffonde sulla condizione nostra in quell'epoca, nella quale Gundibaldo del fu Adalpreto, regolo dei castelli di Pergine, Cuco, Caucone, Castelluccio, Vigalzano, e Bru..., di razza probabilmente tedesca, uno di quegli empi ghibellini, di cui l’Italia ride non rari esempi, tiranneggiava sì fattamente quel misero popolo, che esso, approfittando della temporaria sua assenza (era ito Baviera) con atto solenne si diede al comune di Vicenza, salvi i diritti dell’Impero e quelli della chiesa di Trento. Costui costringeva i Perginesi a guerreggiare contro il vescovo; imponeva loro ingiuste angherie, fra le altre quella della prima notte; non pagava le mercedi dovute, anzi costringeva la gente a lavorare senza retribuzione, battendo ed incarcerando i ritrosi; esigeva le decime dovute al vescovo di Feltre e faceva morire di fame chi non gliele prestava; finalmente gli obbligava a fare per suo conto gli aggressori di strada. Tali erano i lagni di quei miseri oppressi, per vero non lievi.

Il comune di Pergine e rappresentato nell’atto di dedizione da [p. 31 modifica] sedici rettori o seniori, di cui quattro del borgo e dodici del distretto, che si univano per trattare la pubblica cosa nel cenobio di Uvaldo presso il borgo, dove tenevano all’uopo apposita stanza. Fra altri patti stipulati coi Vicentini, i Perginesi si obbligarono d’essero amici dei loro amici e nemici dei nemici e di servire Vicenza con quattro cento armati nel proprio territorio e con duecento ovunque altrove.

Ecco il comune già fortemente organizzato, con un consiglio di anziani, con una sede stabile, ove tenere le deliberazioni, disponente di non ispregovole forza armata, stipulante alleanza, dedizione, e che, malgrado l’oppressione di sì feroce tiranno, seppe trovar modo di liberarsene; giacché di Gundebaldo o della sua famiglia non trovasi fatta più altra menzione nei documenti del tempo; bensì di altri feudatari successi nel Perginese, quale la famiglia di Livo. Sembra però che la dedizione a Vicenza non abbia causata alterazione di dominio nel Trentino, e probabilmente la lega fu stipulata col tacito consenso del vescovo di Trento, cui Gundebaldo era nemico come del pari eranlo i Castrobarcensi, tiranni nella valle Lagarina, e come tali in questo documento rammentati.

Governava allora la chiesa di Trento Adalberto secondo, ucciso nel 1177 da Aldrighetto di Castelbarco in una fazione non lungi da Rovereto nel luogo detto S. Ilario. Considerando che i Castelbarco come vuole la tradizione, venuti dalla Germania, erano tiranni non dissimili da Gundebaldo, e che del pari osteggiavano il vescovo, che contro questi potenti e ribelli suoi vassalli non poteva trovar appoggio che nel popolo; considerando che la chiesa di Trento ascrisse questo vescovo fra i Beati, tosto dopo la sua morte, il che non sarebbe avvenuto se non fosse stato universalmente amato e stimato come lo era dai Perginesi che ne mantennero inviolabili i diritti; considerando che, se egli mosse guerra ai Castelbarco, secondato dal comune di Trento, non poteva avere avuta altra cagione che di liberare le oppresse popolazioni, e che quindi la causa da lui sostenuta era quella del popolo; ci è forza il ritenere che Adalberto od Adalpreto, come ora si appella, fosse veramente un uomo santo, che non osteggiava il sentimento di nazionale indipendenza, che in allora infiammava nobilmente il cuore degli italiani, e che abborrendo dalle sevizie dei nordici feudatari, favoriti dai suoi antecessori o dalle brighe imperiali, aveva a cuore l’onestà, la giustizia ed il bene delle sue pecorelle. [p. 32 modifica]

Altro municipio importante a quel tempo, specialmente per causa della navigazione sull’Adige, era quello di Egna devastata da una stragrande inondazione del fiume e poscia rifabbricata in luogo più sicuro.

Ebbe privilegi dal vescovo, dalla cui mensa ottenne gratuitamente il terreno idoneo alla propria ricostruzione e pagava, del pari a Trento, Bolzano e Riva, una tassa imposta sulle case.

Gli altri comuni foresi, gelosi delle loro statutarie consuetudini ed immunità, erano però soggetti ai capitani e gastaldioni vescovili o ai vari beneficiati cbe ne tenevano le veci, i quali, dal prircipio del decimoterzo secolo in poi si fecero ognora più frequenti, numerosi ed ereditarii, a danno dell’immediato dominio vescovile. Rare erano le eccezioni, fra le quali Tenno e Termeno, che custodivano le rocche coi propri uomini.

Meritano speciale menzione alcune aggregazioni di comuni d’origine remotissima, sparse per lo maggiori nostre vallate. La più importante era quella della Naunia, che si estendeva da Mecce al Tonale. Un apposito Vicedomino principesco ne aveva la sopraintendenza, mentre un secondo sopraintendeva agli altri affari temporali del vescovato. La valle di Rendena, come appare in documento dell’anno 1212, ora rappresentata da tre sindaci e procuratori; alcuni de’ suoi abitanti appartenevano alla Searia, ed altri erano dal vescovo chiamati suoi uomini, e con essi pattuisce per la giurisdizione del Gastaldo, per la quale gli pagarono la somma di 3300 libbre di soldi.

La valle di Flemme aveva già una organizzazione municipale nel 1111, come risulta da documento che enumera le varie prestazioni dovute per le arimanie.

Di molti comuni è fatta menzione nel Codice Vanghiano; di altri, in altri documenti di quest’epoca, dimodochè è manifesto, che il sistema comunale era qui ovunque di già organato, o che quindi non esistevano nel nostro paese intere popolazioni di servi della gleba o di schiavi, ma solo di essi varie famiglie sparse qua e là. In molti documenti leggonsi rigorose ammonizioni ai feudatari di non usare dominio che sui propri servi, rispettando le popolazioni.

Nei primi secoli del medio evo, dopochè le invasioni dei popoli settentrionali avevano data forma a nuovi governi, tanta era la relazione di servitù e dipendenza fra le varie classi della popolazione che pochi erano gli uomini liberi da ogni vincolo, e questi soli si dicevano [p. 33 modifica] nobili: casta aggranellata fra gli invasori di maggior rilievo, che seppero restare indipendenti e comandare agli altri, e fra gli antichi latini, che per ricchezze e clientele tali si conservarono di fronte ai loro oppressori.

Da un placito tenuto nella corte ducale di Trento nell'anno 845Fonte/commento: Pagina:Il Ducato di Trento nei secoli XI e XII.djvu/10 da Garibaldo, o Paolizione, messi del re Lodovico, impariamo che qui esistevano scabini e vassalli fra i quali si nominano Auperto e Pietro di Villa, Isbeo di Marco, Blando di Civezzano, Todo, Avardo di Pergine, e Corenziano dello stesso luogo, con altri vassi sì teutoni che longobardi.

Chi poi minutamente analizza i documenti del secolo dodicesimo, che le nostre condizioni d’allora riflettono, e dai quali unicamente ci è dato ritrarre qualche lume intorno allo stato del nostro paese (mancando per intero scrittori contemporanei che delle cose nostre si fossero occupati) impara che solo le famiglie dei conti di Piano, di Tiralli e di Flavon portavano il titolo di nobili, il quale, usato genericamente, comprendeva eziandio i ministeriali ed i patrizi del comune di Trento, ma che mai loro individualmente si attribuiva. Nei tempi posteriori, quasi sinonimo a quello di nobile fu l’appellativo di miles — milite — che si confondeva eziandio col carattere di cavaliere conceduto da principi secondo le leggi consuetudinarie della cavalleria, ma che qui, a quell'epoca, non usavasi ancora. Nel ducato di Trento dicevansi quindi nobili soltanto quei maggiori feudatari, i quali, quantunque avessero una relativa dipendenza dai vescovi per feudi e benefici di cui erano investiti, nullameno al solo Impero personalmente soggiacevano.

Coloro poi che si nominavano ministeriali della Chiesa o della Contea, e che possedevano averi e potenza feudale od allodiale, come altresì i patrizi dei più insigni comuni e lo persone rivestite di ufficio legale si dicevano — dominus — signore, ed al nome proprio personale aggiungevano quello della terra o del castello che signoreggiavano. Ai nomi battesimali dei patrizi frequentemente si univa qualche nome determinativo, che diede indi origine ai posteriori cognomi.

In questo secolo sussistevano ancora alcune rocche allodiali coi beni e diritti che vi appartenevano, resto di alcuni antichi latifondi deplorati da Paolo Diacono, che corti o terre si dicevano, e di dimore delle antiche famiglie longobarde qui stanziatesi, dove i novelli o gli anteriori proprietari per propria sicurezza e per offesa altrui come [p. 34 modifica] comportava la confusione sociale di quell'evo avevano costruitoFonte/commento: Pagina:Il Ducato di Trento nei secoli XI e XII.djvu/10 fortilizzi e dedotti servi della gleba non curanti delle città abbandonate ai popolani, ai negozianti ed agli industriali.

Era naturale che i più ricchi ed influenti fra questi carpissero ai vescovi o colla forza, o col terrore, o colle blandizie, o cogli inganni, o coi doni, o con corrispettivo, a titolo di benefizio, il governo dei distretti in cui era scompartito il durato, insieme al godimento delle rendite proprie della Chiesa e dello Stato, prestando in cambio giuramento di vassallaggio, secondo le consuetudini feudali germaniche, e retribuendo qualche leggiero canone livellario, quale ricognizione dell’alto dominio.

Sorsero così le famiglie di Lodron, di Arco, di Madruzzo, di Stenico, di Castel Barco, di Lizzana, di Beseno, di Pergine, di Caldonazzo, di Trilaco, di Enno, di Sporo, di Tono, di Cleis, di Livo, di Cagno, di Arsio, di Caldes, di Egna, di Formigaro, di Vanga, di Ravenstein, e varie altre minori, che, insieme ai canonici ed ai giurisperiti ed ai più cospicui cittadini, costituivano la curia del vescovo, che trattava gli affari del ducato, giudicava le cause più importanti, eleggeva i vescovi stessi, e forse i loro vicedomini, e aveva in mano la somma del governo del paese. Dopo la metà del XII secolo la maggiorìa dei ministeriali andò celeremente aumentando per la eredità dei benefici e per le ricchezze accumulate in qualche famiglia, per modo che riuscirono alcune a portare successivamente sul seggio principesco varii di loro, come nel 1183 Alberto di Madruzzo, poi Corrado di Beseno, Federico di Vanga, ed Alberto di Ravenstein. Tale loro possanza che dividevano coi conti di Tiralli, Piano e Flavon, e con alcuno dei patrizii di Trento, fu culminante alla fine del XII secolo ed andò scemando sotto il governo del Vanga che cercò di rialzare il potere principesco, e frenare quello dei feudatari.

Dopo i ministeriali, nell'ordine sociale-politico gerarchico, succedevano i municipali, cioè i popolani che erano non soggetti o sudditi di alcun signore, ma vincolati ai comuni con giuramento di fedeltà e quindi comunisti. Varii fra questi tenevano feudi o dalla chiesa o dai ministeriali, per i quali pagavano canone livellario, ma non erano soggetti colla persona. A questi tenevano dietro coloro che erano obbligati a qualche ufficio o servigio ai ministeriali e che erano quindi subfeudatari dei medesimi, senza appartenere però alla condizione servile; e finalmente per tutto il territorio era sparso un buon numero di famiglie [p. 35 modifica] serve, vera proprietà dei loro padroni, che non potevano possedere nulla in proprio, che coltivavano terre signorili, e costrette a maritarsi secondo il beneplacito dei padroni, cui appartenevano anche i figli, che di frequente si dividevano con altro comproprietario, come p. e. se l'uomo servo di uno sposava donna serva di altro signore. Tali famiglie di servi si vendevano, si comperavano, si cambiavano e si ereditavano, come qualunque altra proprietà, feudo per feudo ed allodio per allodio. Erano questi gli uomini detti di macinata, obbligati altresì a prestazione di uffici personali al padrone, e che gli servivano nelle masnade con cui conculcavano il popolo, sostenevano le offese dei vicini e loro usavano rappressaglie, e si portavano in guerre più lontano al seguito di principi ed imperatori. Le carte di manomissione sono rarissime in questi secoli; si fanno più comuni nel decimoterzo, e nel decimoquarto la servitù andò dileguandosi nel Trentino quasi per intero.

Il sistema di prima genitura non era conosciuto negli antichi feudi trentini; i figli tutti ereditavano dal padre in eguali porzioni nè dalla eredità erano escluse le femmine; leggendosi varii documenti di vendite fatte da esse di porzioni ereditarie consistenti in castelli, diritti, beni stabili, livelli ecc. La donna maritata godeva eziandio molta considerazione; quantunque vincolata alla tutela del marito, soleva questo dotarla d’una quarta parte delle sue sostanze, di cui godea l'usufrutto in caso di vedovanza con figli, e la proprietà se ne andasse priva. Tale era poi nei dominatori la gelosia di conservare nella classe dei feudatari l’elemento tedesco, che avevano proibizione di ammogliarsi con donne della rimanente Italia, o di accasare ivi le figlie; cagione questa delle scarse relazioni famigliari che in quell’epoca incontransi fra le nobili nostre famiglie e le altre della Lombardia e della Venezia.

Le più importanti istituzioni monacali del Trentino datano da questa epoca. Nei secoli anteriori al dodicesimo pochissime ne esistevano; nè qui si ricordano quelle larghe donazioni dei Longobardi e dei Franchi, per le quali nelle altre Provincie d’Italia sorsero monasteri che in potenza e ricchezza gareggiarono coi principi più temuti. A due cause ascrivere devesi tale condizione eccezionale: la prima si fu, perchè pochi i latifondi abbandonati od incolti, o quindi suddivisa assai la terra e fornita di coltivatori, e protetta da compatti ordinamenti comunali; la seconda, perchè, spenta la famiglia d'Evino primo duca longobardo, alcun'altra non seppe ammassare tali dovizie da potere col superfluo [p. 36 modifica] redimere l'anime dei propri parenti con preghiere di frati generosamente retribuite; mentre il popolo andava pago delle proprie chiese popolane, e dei suoi sacerdoti secolari. Alla mancanza di conventi nei secoli anteriori al mille dobbiamo ascrivere il difetto quasi assoluto di memorie storiche di quell’epoca da essi in altre parti d’Italia tramandate con documenti e cronache; se ne eccettui la sola histioriola del monaco Secondo da Trento, di cui si giovò Paolo Diacono per la sua storia delle gesta dei Longobardi. Nel secolo dodicesimo sorsero a qualche considerazione i Benedettini di S. Lorenzo e le Monache di S. Michele presso Trento, i Canonici regolari in S. Michele all’Adige, od in Augia (ora Gries presso Bolzano) e l’ospedale di S. Croce pure in Trento. Si ricordano ancora i monasteri di S. Tommaso fra Arco e Riva, uno sul Ritten, uno in S. Margherita fra Ala e Marco, altro in S. Leonardo in Sarno, e parecchi di minor conto, fra cui varii ospizii sui pili alti passi alpini, dove i Geronimini albergavano i viandanti, come sul Tonale, in Campiglio, a S. Martino di Castrozza ecc. Nessuna traccia abbiamo di Templari, e solo assai più tardi si stabilirono nel Bolzanino i cavalieri teutonici.

Le Parocchie erano allora quali sono adesso, meno quelle sorte posteriormente per suddivisioni patite, e coincidevano colle università comunali, il cui nome di Pieve passò nei secoli posteriori a dinotare il perimetro ecclesiastico, anzichè il civile, quando per opposti interessi o per velleità di passioni sorta discordia nell'aulico comune, questo andò diviso in più comuni minori.

Lo parocchie, amministrate dal clero secolare, dipendevano dal Capitolo e dal Vescovo, e sui beni delle fondazioni provvedevano i comuni coi Sindaci delle chiese.

Il celibato del clero soffriva delle eccezioni, giacché i documenti del tempo fanno qualche volta menzione di figli di preti.

Le Decime e le offerte costituivano la maggior parte delle rendite ecclesiastiche. Frequenti largizioni si leggono dei fedeli alle chiese, e specialmente di oglio e di sacri arredi, di cui varii in oro ed in argento.

Quantunque il governo fosse affidato alla Chiesa, il clero non salì al primo grado di potenza; gli furono d’ostacolo i feudatari controbilanciati dall’organismo comunale, e dallo spirito pubblico che tenne fermo nei suoi propositi di indipendenza.

All’epoca che imprendemmo ad analizzare, la condizione finanziaria [p. 37 modifica] dello Stato era forse più propizia che non in qualunque altro secolo posteriore.

Attesa la fusione dei diritti e dei beni della chiesa e dello stato, tre fonti di rendita pubblica esistevano, la rendita di pretta origine ecclesiastica che fornivano le decime e le offerte; gli allodii dell’episcopato, acquistati sia per donazioni, sia per disposizioni testamentarie, sia per compere; finalmente i beni e le entrate proprie dello Stato, quali erano le regalie delle miniere e della zecca, i dazii, i teloni, i contributi giurisdizionali, le entrate dei castelli, curie e corti che amministravano i gastaldioni, e i tributi e côlte che prestavano i comuni, beni e rendite che in buona parte passarono successivamente per infeudazioni alle potenti famiglie che seppero trarre profitto dagli imbarazzi del Principato e dalla debolezza de’ suoi rettori per avvantaggiare se stesse.

Il sistema finanziario rifletteva l’universale confusione e sminuzzamento dei diritti e pretesi e riconosciuti, come ci viene fatto palese dallo stesso Codice Vanghiano, che ricorda tutti i seguenti titoli di percezione: Albergaria, Arimannia, Bannum, Bonum, Buscaticum, Collecta, Colta e Biscolta, Conditio, Dacia, Datio, Daderia, Decima, Districtus, Famulatus, Fictus dominii, Fictus terrarum, Fodrum, Herbaticum, Honorantia, Minella, Munera, Opera, Pixonaticum, Placitum, Preces, Regula, Ripaticum, Scaria, Scufium, Servitia, Sylvania, Talea Pascolaticum.

E per dilucidare questo argomento meglio non saprei fare che riportarmi a quello che ne scrisse il dotto King nel proemio alla terza parte del codice.

• Non è più possibile determinare nè la precisa significazione, nè la quantità delle enumerate prestazioni, perchè mancano i ruoli delle obbligazioni. A quel tempo non si avevano principii generali che dichiarassero con certezza la natura del debitore e l’ammontare del debito. Mentre in alcuni luoghi e per alcuni contribuenti i nobili ed i ministeriali erano esenti, in altri vi erano espressamente compresi. Per esempio: il Placitum: valeva dove uno dove sei moggia di frumento, ed altresì sta scritto — scit quod solvebat placitum, sed nescit quantitatem— e bene spesso dovevasi ricorrere alla deposizione di sette o di dodici giurati per comprovare l’obbligo di un comune o di una persona a prestare un dato tributo. Per la qual cosa asserisco essere assioma [p. 38 modifica] storico l’inutilità dello studio per fissare con matematica certezza l’importare di quelle diverse prestazioni, tanto più in quanto che i casi speciali non danno norme generali. Nullameno coll’ajuto degli antichi registri sopra le Rationes (ragioni) della Camera principesca, e d’altri documenti esistenti nell’archivio trentino (archivio trasportato a Vienna, di cui erroneamente e forse per malizia, fu in addietro sparsa la voce che naufragasse nel Danubio, ma per ora perduto nel nostro paese) si può con qualche probabilità ritenere:

1. Che i nomi di bonum, datio, munera, opera, servitia e preces erano appellativi generali, senza determinato tributo di speciale oggetto.

2. Il famulatus indicava prestazione di servizio, mentre si legge — famulatus quem exibebant curiae de Livo (e non quem solvebant).

3. Altre erano prestazioni di speciale oggetti, cosi buscaticum e sylvania, per il godimento di boschi e pascoli, minella per l’uso di lavori delle miniere, pixonaticum per quello di estrare la pece o resina dai coniferi, ripaticum, diritto sul trasporto delle persone e merci per acqua sopra barche (naves) o zattere (sclavae, rates).

4. Conditio denotava il rapporto di servitù. Un homo conditionalis era nelle sfere inferiori quello che il ministerialis era nelle superiori.

5. L’Albergaria seu scufium consisteva nel diritto di essere albergato ed ospitato quando il signore viaggiava; fodrum, dal tedesco futter, la somministrazione di vettovaglie per la cavalcata imperiale a Roma, pretesa posteriormente anche dai nuovi feudatari; decima, una parte aliquota, e di solito la decima, delle frugi di campagna: ed honorantia, una prestazione fissa che si dava nei cambiamenti di possesso di beni stabili o nelle rinnovazioni dei contratti enfiteutici consistente ordinariamente in una libbra di pepe.

Più specialmente derivavano dai rapporti di sovranità e di vassallaggio l’Arimannia, il bannum, l’hostaticum, il placitum, la regula ed il vasallaticum.

Arimannia. Le famiglie degli invasoriFonte/commento: Pagina:Il Ducato di Trento nei secoli XI e XII.djvu/10 che ottenevano in feudo una parte del territorio novellamente conquistato — portio — costituivano gli arimanni (Heermann) e le arimannie.

Dalla famiglia passò questo concetto alla terra infeudata, o finalmente dalla terra al tributo annualmente corrisposto dai possessori al feudatario. Arimanni del vescovo incontransi in Fiemme; altri a [p. 39 modifica] Sopramonte, Cadine, Sardagna e nell'Archese. Dopo il dodicesimo secolo le arimannie vanno scomparendo.

Bannum era e la ricognizione tributaria dovuta al principe da chi a lui era personalmente soggetto, e la multa inflitta per delitti commessi, che in seguito si distinse col dirsi bannum maleficorum.

Districtus e regula indicò originariamente la appartenenza ad un luogo determinato, colla differenza che distretto era l’unità di circondario soggetta ad un funzionario vescovile, regula quella di un comune. Perciò dicevasi per esempio: Districtus Castri Arci, e regula hominum plebis Arci.

Hostaticus era la ricognizione pagata da tutti i feudatari ad ogni nuovo vescovo. Leggesi la formula — si quis vassullus per annum et diem non solverit hostalicum, dominus se in feudum intromittat.

Vassallaticum era la prestazione annua del vassallo.

Placitum era la tassa dovuta per i placiti, che il principe teneva per rendere giustizia, tassa stabilita per convenzione, come avvenne con quelli di Rendena e di Ledro.

Carattere d’imposizione pubblica rascossa due volte all’anno aveva la Colletta o Colta. Si distribuiva per fuochi, e generalmente di 40 soldi per ognuno; se poi era commisurata per testa si diceva taglia, e fictus se prelevata sulle case, come in città e nelle grosse borgate.

Finalmente i beni stabili erano dati a coltivare con contratti entiteutici e di locazione perpetua. Canone era detto l’annuo contributo in prodotti o denaro.

La miniera d’argento del Monte Argentario sopra Trento era però quella che nel dodicesimo secolo non solo porgeva larghe risorse allo Stato, ma ancora ricchezze alla città, e tale ne era l’importanza, che il primo statuto montanistico conosciuto in Europa fu quello del Trentino. In esso si distinguono minatori, esportatori, fondatori, epuratori e lavoratori del prezioso metallo. Le numeroso ed importanti compere fatte dal vescovo Vanga di castelli, terre ed altri diritti signorili, e la erezione del grandioso edifizio della cattedrale costruita nel dodicesimo, ed al principio del seguente secolo, non si possono altrimenti spiegare, che coi guadagni dello miniere, che, esaurite nei secoli posteriori, ora non presentano che numerosi cunicoli e larghe sale nelle viscere di quel monte.

I Gastaldioni versavano alla Camera principesca le rendite rascosse [p. 40 modifica] in tre modi differenti: o consegnavano tutto ciò che percepivano, ricevendo in compenso una fissata rimunerazione: o trattenendo per sè una quota, il resto pagavano: o al loro ufficio era unito il feudo di alcuni beni, ed il tutto amministravano per conto del principe. Presso le Gastaldie trovavasi una Canipa, seu Gaforum (granajo), od una Scaria, in cui erano deposti i prodotti; i quali nomi di sovente furono scambiati per gli stessi tributi.

La condizione del Trentino era in quell’epoca peggiore o migliore della comune in Europa?

Spiacenti il non avere fatto studi sull'agricoltura, sul commercio, sulla industria e sulla istruzione nostra d’allora; per cui difficile riesce la soluzione del proposto problema senza conoscere appieno lo stato di civiltà del paese; tuttavia dal complesso dello esposte riflessioni dobbiamo ritenere che, se non era migliore, non era al certo nemmeno peggiore. L’autorità del governo non era assoluta, ma controllata, quanto i tempi il comportavano; le guerre intestine rare e di lieve importanza, i commerci favoriti dalla posizione ai confini di Germania e dalla prossimità a Venezia; l’aristocrazia non dispotica, e brutale per eccezione; generali le leggi romane, le migliori di quei tempi, e le longobarde le più giuste dopo di esse; la proprietà suddivisa, i comuni autonomi nella interna amministrazione, e loro proprietà monti e selve. Il guajo maggiore apportarono le frequenti calate degli imperatori tedeschi e le prepotenze usate dalle loro comitive. Mali più grandi soffrì il Trentino nei secoli posteriori, dopo l’imprudente infeudazione della Avvocazia fatta ai Conti di Tiralli, alla metà del secolo decimoterzo, epoca cui è mestieri dedicare altri studii ed altre riflessioni.




Questo libro è stato pubblicato in rete dalla
Biblioteca Comunale di Trento