I responsabili della Guerra europea

Tommaso Tittoni

Indice:Tittoni - I responsabili della Guerra europea.djvu I responsabili della Guerra europea Intestazione 9 luglio 2024 100% Da definire


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Signori!

Per la seconda volta ho l’onore di prendere la parola in quest’aula dove le splendide tradizioni della letteratura, della filosofia, della scienza circondano gli oratori ed ispirano loro la dignità e l’elevatezza del linguaggio.

La prima volta una spiegazione pubblica, franca, leale tra il Presidente del Consiglio, signor Poincarè e me, metteva fine ad un malinteso sorto fra la Francia e l’Italia, lo evoco innanzi a voi questo ricordo che ci appare ora come una lontana nebbia, unicamente perchè io penso che esso non può che consolidare la volontà incrollabile dei due popoli che non sorgano più i malintesi e che tra di loro regni per sempre una amicizia rafforzata dalla simpatia, dalla fiducia, dal rispetto e dalla tutela dei reciproci interessi. [p. 2 modifica]

Il signor Poincarè parlò allora di una nube che passa. Ebbene noi non vogliamo più nubi, nemmeno passeggere; noi vogliamo che sulla Francia e l’Italia risplenda un’orizzonte sempre radioso, calmo e sereno.

Noi non pensavamo allora alla guerra e ci è stato rimproverato di non averla prevista. Il rimprovero vero non è fondato: si può prevedere una guerra necessaria; non si può prevedere una guerra inutile. Si può prevedere tutto tranne i traviamenti della follìa umana. Come già il sig. Poincarè quattro anni or sono, Anatole France e Barthou avrebbero potuto oggi assaporare il puro godimento che l’oratore prova quando riesce ad incatenare l’attenzione di coloro che lo ascoltano e far vibrare la loro anima all’unisono della sua ed il pubblico avrebbe potuto provare ancora una volta la soddisfazione di sentire esprimere nobilmente nobili pensieri.

Ma nell’ora presente questi godimenti, puramente intellettuali od estetici, ci sono divenuti estranei. Noi abbiamo delle cure più gravi, dei doveri più austeri ed una grande mèta da raggiungere, alla quale noi ci consacriamo interamente. E questa mèta non ci chiede apparenze, ma realtà. [p. 3 modifica]

La speculazione deve cedere il posto alla azione. Ricordiamoci l’ammaestramento della sapienza antica: «Facere docet philosophia, non dicere». Dunque non discorsi inutili, non banalità o vane parole, non retorica vuota che creando il fantasma delle illusioni, possa distoglierci un solo istante dall’azione disciplinata mediante la quale noi dobbiamo tutti, elevate o umili siano le funzioni che noi esercitiamo, cospicuo o modesto sia il posto che occupiamo, lavorare e contribuire, nei limiti dei nostri mezzi e delle nostre forze, all’attuazione del nostro fine supremo, la vittoria della causa comune!

Oggi, quando un oratore si appresta a parlare, il pubblico prima di preoccuparsi se la sua parola è smagliante o scolorita, si domanda: che cosa ha egli fatto per il suo paese in questo momento supremo? Ed io credo che se Luigi Barthou vi ha oggi profondamente impressionati e commossi, ciò non è dovuto soltanto al fascino ed al vigore della sua meravigliosa eloquenza, ma ciò è dovuto eziandio al fatto che egli ha dato alla Patria più della sua vita; ha dato ad essa una vita che era a lui certo più cara della propria. E la sua voce aveva un accento tragico, perchè traduceva schiettamente le [p. 4 modifica]due grandi tragedie che agitano l’animo suo: quella di questa terribile e sanguinosa guerra e quella del sacrificio del suo più grande affetto. Perdonatemi, caro amico Barthou, di ridestare il vostro dolore; ma la vostra anima di patriota è degna di questa dura prova. D’altronde io non credo che i vostri dolorosi ricordi fossero assenti quando voi avete concentrato nella vostra parola, infiammata e vendicatrice, le maledizioni di tutte le famiglie in lutto contro coloro che, senza alcuna necessità, senza alcuna ragione legittima, hanno scatenato sull’Europa un flagello più terribile di tutti i mali che affliggono l’umanità riuniti insieme.

Le responsabilità della guerra

Essi cercano di allontanare dal loro capo questa maledizione, ripetendo a sazietà che non avevano voluto questa guerra. Non dicono che questa frase e ad essa si attaccano disperatamente, poichè essa non può avere un’apparenza di verità che se si prende strettamente alla lettera. Un eminente psicologo francese, in un libro recente, pur stigmatizzando l’Austria e la Germania, ha scritto che nessuno voleva questa [p. 5 modifica]guerra e tutti la temevano. Può darsi che l’Austria e la Germania non desiderassero una guerra europea, o almeno non la desiderassero così estesa; Può darsi che l’Austria si lusingasse di perpetrare impunemente l’aggressione contro la Serbia senza che la Russia raccogliesse la sfida insolente, senza che la Francia mantenesse i suoi impegni verso la Russia, senza che l’Italia facesse nulla per impedire l’alterazione dell’equilibrio adriatico a suo danno e la violazione flagrante del trattato di alleanza, che era stato concepito come opera di difesa legittima, di equilibrio e di pace, e non poteva e non doveva costringerla a farsi complice nemmeno mediante la semplice astenzione, di una aggressione delittuosa. Può darsi che la Germania si lusingasse di ripetere una seconda volta l’intimazione fatta nel 1909 a Pietrogrado, alcuni mesi dopo l’annessione della Bosnia-Erzegovina, senza riflettere che la Russia, appunto perchè l’aveva tollerata una volta, non avrebbe potuto sopportarla una seconda volta, senza firmare la sua decadenza. Può darsi eziandio che la Germania si lusingasse di poter violare la neutralità del Belgio, senza che l’Inghilterra se ne sentisse colpita, e schiacciare questo nobile e [p. 6 modifica]piccolo paese senza che il mondo civile ne fosse profondamente commosso ed indignato.

Ma forse queste illusioni puerili, se davvero sono state accarezzate, potrebbero diminuire la loro responsabilità? Ammesso anche che l’Austria e la Germania potessero difendersi dall’accusa di avere freddamente premeditato la guerra per la quale, del resto, come i fatti lo hanno dimostrato, esse sole si erano militarmente preparate, esse sarebbero egualmente colpevoli di averla scatenata per leggerezza, per orgoglio, per disprezzo della giustizia internazionale.

Il Cancelliere dell’Impero germanico, nel discorso che ha pronunciato al Reichstag circa quindici giorni or sono, ha denunciato ancora una volta la mobilizzazione russa come la vera causa che ha provocata la guerra. Si potrebbe rispondere che la mobilizzazione ordinata da una Potenza può dare alle altre potenze il diritto di mobilizzare alla loro volta, ma che dalla mobilizzazione non consegue necessariamente la guerra, e che non mancano esempi di mobilizzazione che non hanno interrotto i negoziati diplomatici ed è stata seguita da soluzioni pacifiche. Ma, anche accettando il principio [p. 7 modifica]enunciato dal Cancelliere germanico e facendo ricadere la responsabilità della guerra su chi ha per il primo mobilizzato il suo esercito, non si eviterebbe la condanna dell’Austria, poichè è proprio essa che ha mobilizzato la prima. Può dirsi del resto che da lungo tempo la mobilizzazione era ritenuta per l’Austria un provvedimento normale. Essa ha mobilizzato il suo esercito nel 1908 e 1909 durante tutta la crisi della Bosnia-Erzegovina: essa ha mobilizzato nel 1913 durante la crisi balcanica ed albanese, e le altre Potenze non hanno perduto il sangue freddo e non hanno pensato che la guerra dovesse essere la conseguenza necessaria della mobilizzazione. La Russia sola si limitò nel 1913 ad una innocente misura di precauzione ritenendo una classe sotto le armi, ma, come il conte Berchtold lo ha detto così bene nel suo discorso alle Delegazioni del 20 novembre 1913 (e a me piace citare le sue parole testuali): «Uno scambio di vedute dovuta all’iniziativa generosa dei due Sovrani, riuscì a fare abbandonare queste misure prima che la crisi si prolungasse troppo». In questa guisa lo stesso conte Berchtold si è dato la pena di condannare nel 1913 il suo modo di agire del 1914 e di smentire [p. 8 modifica]e confutare il signor Betmann-Hollweg molto tempo prima che questi prendesse la parola.

Scrittori e filosofi di differenti nazioni hanno pubblicato sapienti dissertazioni nelle quali enumerano una lunga e numerosa serie di cause morali, psicologiche, etniche, economiche e politiche le quali, secondo essi, dovevano condurre fatalmente alla guerra. Io ammiro la loro ingegnosità e la loro dottrina che, devo riconoscerlo, ha sedotto una parte dell’opinione pubblica; ma io mi iscrivo contro la loro tesi. Come parmi averlo già dimostrato nel mio discorso al Trocadero, nè la concorrenza economica, nè le molteplici divergenze tra la Germania e le altre potenze tutte, già definite e regolate da speciali accordi potevano costituire ragioni, nè pretesti ragionevoli per la guerra.

L’aggressione contro la Serbia

Bisogna ricondurre la guerra alla sua vera fonte: l’aggressione dell’Austria contro la Serbia. Coloro che ne ingrandiscono smisuratamente il quadro non fanno che creare la confusione nello spirito pubblico e di questa confusione l’Austria e la Germania profittano per cercare di sottrarsi alla grave ed incomoda responsabilità che [p. 9 modifica]pesa su di esse. Tutto l’artificio dei loro uomini di Stato consiste nel non tenere alcun conto dell’aggressione dell’Austria contro la Serbia, come se si trattasse di cosa perfettamente naturale e legittima e della quale l’Europa non aveva il diritto di occuparsi. È su questo artificio che noi dobbiamo fermare la nostra attenzione, perchè costituisce la pietra angolare della tesi austro-germanica. Se noi distruggiamo questo artifìcio, tutta la loro tesi crolla polverizzata.

La decade drammatica, trascorsa tra la presentazione dell’ultimatum alla Serbia e la dichiarazione della guerra, è stata rischiarata di vivida luce dalla pubblicazione dei documenti diplomatici di tutti gli Stati interessati. Questi documenti sono stati abbondantemente commentati nei discorsi degli uomini di Stato, nei libri, negli opuscoli, negli articoli delle riviste e dei giornali. Io stesso ebbi ad occuparmene nel mio discorso al Trocadero, aggiungendo ai discorsi pubblicati un documento inedito. Non insisterò su questo punto per non ripetere ciò che già ho detto e che tanti altri hanno detto. La redazione dell’ultimatum austriaco brutale, insolente e non documentato; il disdegno per la risposta umile e remissiva della Serbia; la [p. 10 modifica]risposta negativa data alla breve proroga domandata dalle altre Potenze; il rifiuto categorico di esaminare le proposte amichevoli, concilianti, improntate a grande equità, che alcune di esse avevano presentato, e le altre avevano appoggiato al fine di evitare la guerra e dar soddisfazione all’Austria, pur salvando l’indipendenza della Serbia e le ragioni supreme della giustizia, tutti questi fatti hanno indotto l’opinione pubblica mondiale a pronunciare contro l’Austria e la Germania una sentenza definitiva senza appello.

Ma se quanto è avvenuto tra il 24 luglio e il 4 agosto è stato messo bene in evidenza, i precedenti della questione serba non lo sono stati abbastanza. Si sarebbe dovuto fare, ed è utile ancora farlo, ed io mi ci proverò con una sintesi rapida, sobria ed imparziale. Sì, sopratutto imparziale, perchè io non ho preso la parola per fare una arringa patriottica, ma per portare un contributo alla verità ed alla storia ed affinchè la mia argomentazione possa resistere a tutti i sofismi dei nostri nemici io non darò ad essa che una base: le dichiarazioni ufficiali austriache, rigorosamente controllate. [p. 11 modifica]

Che la difesa sul terreno dell’ultimatum alla Serbia fosse diffìcile e pericolosa per gli Imperi centrali, uno dei loro uomini di Stato ha ben compreso ed ha cercato altrove la loro giustificazione. Il Segretario di Stato germanico per gli Affari Esteri, signor Von Jagow, in una intervista disse che l’Austria è stata costretta a far la guerra perchè tutti i suoi interessi nella penisola balcanica cozzavano costantemente contro l’ostilità e la cattiva volontà delle Potenze dell’Intesa, e che bisognava pure un bel giórno por fine a questo stato di cose intollerabile. Ecco dunque relegato in seconda linea l’assassinio di Serajevo e confessato che l’ultimatum alla Serbia non fu che un pretesto per provocare la guerra. Ma e almeno vera l’affermazione del signor Jagow? Io vi dirò che essa è contraddetta dai fatti e da tutte le manifestazioni ufficiali degli uomini di Stato austriaci autorizzati.

L'Austria e le guerre balcaniche

I fatti innanzi tutto. Tutto ciò che l’Austria ha domandato dopo le due guerre balcaniche lo ha ottenuto col consenso e l’appoggio di tutte le Potenze. Così è stata creata l’Albania, come essa voleva, imponendole anche il So[p. 12 modifica]vrano da essa designato: così si è obbligato il Montenegro ad abbandonare Scutari, e la Serbia a rinunciare allo sbocco nell’Adriatico; così le frontiere albanesi verso la Serbia e la Grecia sono state tracciate secondo la volontà dell’Austria. Questi risultati furono constatati dal conte Berchtold nel suo discorso alle Delegazioni del 20 novembre 1912 nel quale, dopo averli enumerati, concludeva: «Noi abbiamo eseguito la parte essenziale del nostro programma e salvaguardata la pace della nostra monarchia.»

Si è preteso che l’ingrandimento degli Stati balcanici dopo la guerra vittoriosa contro la Turchia avesse ferito profondamente gli interessi ed il programma dell’Austria. Ma questo non è che un semplice apprezzamento al quale io oppongo un fatto, e cioè che tale ingrandimento essa lo aveva accettato. Nello stesso discorso, già citato, il Conte Berchtold ricordava le dichiarazioni fatte nel 1908, al momento del ritiro delle guarnigioni austriache dal Sangiaccato. Io credo utile riprodurre testualmente queste dichiarazioni che il Conte Berchtold ha solamente ricordate.

Dopo aver qualificato di leggenda la marcia dell’Austria verso l’Egeo, il conte Aehrenthal [p. 13 modifica]diceva: «Se le truppe austro-ungariche sgombrano il Sangiaccato ciò contribuirà a metter meglio in luce quanto poco egoistica è la politica che noi seguiamo in oriente. Ciò dimostrerà egualmente agli Stati balcanici che l’Austria non cerca affatto ingrandirsi a loro spese. Lo sgombro delle nostre truppe dal Sangiaccato rischiarerà finalmente i rapporti fra l’Austria-Ungheria e le altre Potenze»

Il conte Berchtold, dopo aver ripetuto che per l’Austria la formula di non impedire lo sviluppo degli Stati balcanici era divenuta un assioma, e che egli era disposto a tener conto il più possibile (cioè con le riserve per gli interessi economici dell’Austria e per l’Albania) della situazione creata dalla vittoria degli Stati balcanici, aggiungeva: «Noi eravamo tanto più risoluti in questa soluzione che la Monarchia ha considerato la sua estensione territoriale come terminata con la Bosnia-Erzegovina e che l’abbandono di questo punto di vista nettamente stabilito dal mio predecessore non avrebbe risposto nè ai nostri interessi ben compresi, nè al principio di continuità che io ho sempre seguito». [p. 14 modifica]

L’Austria e l’Italia

Io non voglio moltiplicare le citazioni: ma si rileggano tutti i discorsi del conte Aehrenthal e del conte Berchtold, e si troverà sempre ripetuto, fino al punto di divenire monotono, lo stesso leit motif: pace, equilibrio, disinteresse territoriale. Questo savio programma d’equilibrio, di disinteresse territoriale e di pace, costituiva la base dei rapporti fra l’Austria e l’Italia. Il giorno in cui all’improvviso lo ha bruscamente lacerato, rinnegando le sue dichiarazioni e le promesse e svelando le sue trame segrete, essa ha lacerato al tempo stesso l’alleanza con l’Italia. Si è fatto molto chiasso in Austria sul preteso tradimento dell’Italia e sulla conversione alla guerra degli uomini che avevano praticato la politica dell’alleanza. Ma è facile dimostrare che non ci sono stati nè tradimenti, nè conversioni. Noi eravamo con l’Austria per la pace, per l’equilibrio nell’Adriatico, per il rispetto dell’indipendenza e dell’integrità degli Stati balcanici, e noi siamo rimasti fedelmente con essa fino al momento nel quale essa stessa, abbandonando quel programma, ci ha costretti di cercarne altrove l’attuazione. [p. 15 modifica]

Gli uomini, dunque, ed io tra essi, i quali durante lunghi anni hanno in Italia praticato lealmente l’alleanza con l’Austria, servendo la causa del loro paese e quella della pace europea, non rinnegano affatto il loro passato; al contrario lo rivendicano altamente perchè non solo quel passato non è contraddizione con la loro attitudine attuale, ma ne è anzi la più efficace giustificazione. Non è dunque l’Italia che ha tradito l’alleata. È l’Austria che l’ha tradita nel momento stesso in cui tradiva la causa del diritto, della giustizia e della pace.

L'Austria e la Serbia

E l’aggressione austriaca è stata almeno giustificata dall’attitudine della Serbia? Una volta sola la Serbia è sorta contro l’Austria; al momento dell’annessione della Bosnia-Erzegovina che provocò in Serbia una profonda emozione ed una viva agitazione. L’Austria allora, benchè avesse mobilizzato il suo esercito alla frontiera serba, preferì indirizzarsi alle potenze ed il risultato fu quale essa lo desiderava. Il 18 marzo 1909 la Serbia firmava la dichiarazione seguente che le fu presentata [p. 16 modifica]dall’Inghilterra: «La Serbia riconosce che essa non è stata colpita nei suoi diritti dal fatto compiuto creato in Bosnia-Erzegovina e quindi essa si conformerà alle decisioni delle Potenze circa l’art. 25 del trattato di Berlino. Accettando i consigli delle grandi Potenze la Serbia si impegna da questo momento ad abbandonare l’attitudine di protesta e di opposizione assunta verso l’annessione dall’autunno scorso e si impegna inoltre a cambiare l’indirizzo della sua politica attuale verso l’Austria-Ungheria per vivere con quest’ultima come una buona vicina. In conformità di queste dichiarazioni e fiduciosa delle intenzioni pacifiche dell’Austria-Ungheria, la Serbia ricondurrà il suo esercito allo stato della primavera del 1908, in ciò che concerne la sua organizzazione, la sua dislocazione ed il suo effettivo».

Quest’intervento dell’Inghilterra presso la Serbia è la confutazione perentoria del discorso letto qualche giorno fa a Budapest dal Conte Tisza in nome del Barone Burian.

Perchè l’Austria, che ha domandato essa stessa l’intervento delle Potenze presso la Serbia fremente del 1908, ha rifiutato di conversare con esse circa la sua disputa con la Serbia umile [p. 17 modifica]e sottomessa dal 1914? Non c’è che una spiegazione plausibile, ed è che nel 1908 l’Austria, benchè fosse la sola potenza militarmente pronta, voleva la pace e nel 1914 non la voleva più. Dopo il 1908 l’Austria non ha potuto formulare alcuna accusa seria contro la Serbia. Si è detto che il Trattato di Bucarest sia grandemente dispiaciuto all’Austria. Ciò è possibile sopra tutto se, come molti non senza qualche fondamento ritengono, essa non fu interamente estranea all’aggressione della Bulgaria contro la Serbia e la Grecia, che avevano accettato l’arbitrato per regolare con essa la loro contesa macedone. Ma la potenza che dichiarò per prima che il Trattato dì Bucarest doveva essere rispettato, fu proprio la Germania. L’Austria ha sempre detto che essa pretendeva dalla Serbia solo talune garanzie di ordine economico. Ciò affermava il conte Aehrenthal il 14 ottobre 1910, quando si compiaceva dell’accordo commerciale con la Serbia.

II 20 novembre 1913 il conte Berehtold diceva alle Delegazioni:

«Per quanto concerne il Regno di Serbia nostro vicino noi consideriamo l’avviamento delle buone relazioni economiche con esso come [p. 18 modifica]un segno dei rapporti di buon vicinato. Il Governo serbo ha già ricevuto da parte nostra delle comunicazioni in questo senso e noi attendiamo ora da esso, come prova del suo desiderio di avere con noi rapporti identici, delle dichiarazioni suscettibili dì provocare dei negoziati dal punto di vista della reciprocità della situazione economica».

E il conte Berchtold terminava il suo discorso con un linguaggio che poco dopo doveva dimenticare completamente: «In questo intento noi possiamo esprimere la speranza che dopo i cambiamenti sopravvenuti nei Balcani si inaugurerà per noi una nuova èra nei nostri rapporti con gli Stati balcanici, un’èra di relazioni economiche più strette e più vivaci e di rapporti amichevoli e pieni di fiducia». Tutte le potenze applaudivano a questo linguaggio tenuto poco prima della guerra, e anzi io credo di poter dire che esse erano disposte ad esaminare favorevolmente delle garanzie per la libertà del porto e della ferrovia di Salonicco se l’Austria le avesse richieste. Ma la verità è che l’Austria non ha mai chiesto niente di preciso. La sola questione economica che aveva trattato con la Serbia è che era sul punto di essere risoluta di [p. 19 modifica]accordo era quella delle ferrovie orientali per la quale l’Austria aveva fatto appello al capitale francese. Le famose proposte economiche non furono mai presentate alla Serbia; esse non erano state ancora presentate il giorno funesto della redazione dell’ultimatum. È proprio uno dei casi nei quali il vero non è verosimile, talmente la condotta dell’Austria cozza con la logica e la ragione. Certo c’erano in Serbia dei «chauvins» come ve ne sono in tutti i paesi, ma il Governo e la nazione serba comprendevano benissimo di essere troppo piccoli e troppo deboli e di dover necessariamente vivere in buoni termini con la loro grande e potente vicina. Uno degli uomini di Stato serbi più illuminati e più colti, il mio amico Vesnitch, che è circondato in Francia da tanta simpatia, nel luglio 1914 in una intervista, dopo aver deplorato con parola commossa il delitto di Serajevo, diceva che la sua emozione era accresciuta dal timore che esso potesse ritardare gli sforzi del Governo serbo per stabilire con l’Austria rapporti fiduciosi, e terminava con le seguenti parole le quali alla vigilia dei tragici avvenimenti ch’eran per svolgersi, suonavano come un appello disperato alla pacificazione, all’equità, alla [p. 20 modifica]buona volontà: «Guardiamoci bene, diceva egli, di giudicare l’Austria di oggi dagli scritti di alcuni pubblicisti troppo zelanti. Essa conta uomini di Stato che discernono con sangue freddo gli interessi del loro paese. Essa è retta — e possa esserlo ancora lungamente — da un grande monarca. Io non posso quindi trattenermi dallo sperare che tra essa e la mia patria questa triste nube passerà senza tempesta e che dopo, per il bene dell’Europa intera oscurata da questa crisi, verranno giorni di buona volontà, di buon vicinato e di serenità.»

Era il linguaggio della ragione, della moderazione, della onestà. L’ambasciatore d’Austria-Ungheria a Parigi, incontrando il signor Vesnitch, si congratulava con lui per le sue dichiarazioni. Io non mi permetto di mettere in dubbio la buona fede di queste congratulazioni. Io non sono il solo a pensare che gli ambasciatori dì Austria-Uugherìa e di Germania a Parigi fossero poco al corrente del colpo che si preparava a Vienna e a Berlino. Ma quale sapore di ironia crudele e macabra gli avvenimenti hanno dato a queste congratulazioni, che precedono di dieci giorni soltanto la presentazione dell’ultimatum austriaco! [p. 21 modifica]

L’Austria e le Potenze dell’Intesa

L’ironia lugubre degli avvenimenti posteriori colpisce anche un’altra manifestazione che precede di poco la guerra — l’omaggio che il Ministro degli Esteri francese nel marzo 1914 rendeva alla tribuna all’alta saviezza che regolava i destini dell’Austria-Ungheria. Non solamente, beninteso, qualunque spirito di critica da parte mia è assente da questa dichiarazione perchè l’Austria effettivamente era stata savia durante tutto lo sviluppo della crisi balcanica, ma anzi io deduco da ciò un altro argomento contro la tesi del signor Jagow circa il malvolere sistematico delle Potenze dell’Intesa verso l’Austria-Ungheria. Questo malvolere non ha mai esistito. Per ciò che riguarda la Francia, il conte Aehrenthal diceva nel 1908: «La Francia continua ad esercitare la sua influenza per appianare le divergenze esistenti nelle diverse questioni. Noi possiamo salutare i suoi sforzi degni di riconoscenza con la più grande soddisfazione poichè noi intendiamo allo stesso fine della Francia: la conservazione della pace.»

Per ciò che riguarda l’Inghilterra io ho già detto che fu essa che si incaricò in conformità [p. 22 modifica]dei desideri dell’Austria e di far firmare alla Serbia la dichiarazione del 18 marzo 1909 e tutti sanno con quali propositi pacifici e conciliati l’Inghilterra dopo le guerre balcaniche ha presieduto la conferenza di Londra.

Il 20 novembre 1913 il conte Berchtold del quale il barone Burian finge di non ricordarsi, ha reso omaggio ad essa con le seguenti parole: «La politica estera dell’Inghilterra proseguita con rigorosa obiettività ha sensibilmente contribuito ad eliminare le numerose difficoltà della situazione senza produrre serio malcontento da parte delle Potenze interessate».

E quanto alla Russia, senza rimontare ai tempi già lontani del patto dì Mürzsteg che fu il riconoscimento da parte dell’Austria dell’interesse della Russia nei Balcani, senza ricordare che nel 1908 il conte Aehrenthal diceva a proposito delle questioni balcaniche: «Si sa a Pietroburgo che noi abbiamo una conoscenza perfetta degli interessi e dei desideri della Russia». Io citerò la dichiarazione più recente del conte Berchtold alla fine del 1913: «L’evoluzione della situazione nei Balcani ha eliminato molti motivi di malinteso fra l’Austria-Ungheria e la Russia e non soltanto ha diminuito le occasioni [p. 23 modifica]di dissenso tra di esse ma ha anche prodotto sotto molti rapporti una felice armonia di concetti e di interessi che avrà una eccellente influenza sullo sviluppo delle nostre relazioni». E questa sarà l’ultima parola, poichè io non voglio schiacciare nè l’Austria nè i miei uditori sotto una valanga di citazioni che potrei moltiplicare all’infinito. Quelle che ho lette sono più che sufficienti per permetterci di dire all’Austria: ex ore tuo te judico!

Uno dei più bei saggi del grande scrittore inglese Macaulay é quello sul convenzionale regicida passato alla posterità col nome di Anacreonte della ghigliottina. Esso termina con questa veemente invettiva: «Io sfido chicchessia di farlo discendere dall’altezza di obbrobrio alla quale sono stato costretto di collocarlo».

Gli autori e i complici della aggressione contro la Serbia sono proprio sicuri che gli storici futuri i quali sveleranno o stigmatizzeranno la loro condotta, non si ricorderanno dell’invettiva di Macaulay?


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Lo sforzo militare italiano

Dovrò parlare dello sforzo militare italiano? Il miglior modo di farne comprendere l’importanza al pubblico francese è la testimonianza dei francesi stessi che l’hanno visto da vicino. Uomini eminenti che sono in contatto quasi quotidiano con la pubblica opinione. Luigi Barthou, Stefano Pichon, Gabriele Hanotaux, Maurizio Barres e Giuseppe Reinach, sono stati sul nostro fronte, nelle nostre trincee, in mezzo ai nostri soldati. Essi hanno conversato col nostro Re, coi nostri generali, coi nostri ufficiali, coi nostri «poilus» ed hanno riassunto le loro impressioni fresche, vive, spontanee in eccellenti articoli. Luigi Barthou ha voluto rinnovarne la espressione in questa Conferenza, nella quale ci ha dimostrato ancora una volta che la eloquenza e la efficacia della sua parola uguaglia la finezza e l’eleganza della sua penna.

Nulla io aggiungerò a ciò che egli ed i suoi illustri amici hanno detto con tanto splendore ed autorità. Mi limiterò a ringraziarli pubblicamente in nome del mio Paese per la loro perseverante collaborazione all’amicizia [p. 25 modifica]franco-italiana e, come tutti coloro che li hanno letti od ascoltati, associerò in unico pensiero gli eroi di Verdun e gli eroi del Trentino. A me sembra che l’urto rude che noi abbiamo sopportato insieme, che l’ansietà dei primi momenti dell’offensiva germanica ed austriaca cui ha tosto succeduto la gioia di apprendere che la bravura dei nostri eserciti aveva arrestato lo sforzo nemico, ha ancora più stretto i nostri legami, unite le nostre anime e ci ha fatto meglio e più intensamente sentire e comprendere la nostra fraternità. Pensiamo a coloro che combattono e e muiono per la Patria! Sarà questo il mezzo più sicuro per dissipare le difficoltà interne e cementare l’unione sacra.

Io devo anche ringraziare Anatole France che ha voluto presiedere la nostra riunione. È naturale che egli sia in prima fila in tutte le manifestazioni per la giustizia che è il suo grande affetto. Essa lo è sempre stata. Il giorno del ricevimento di Anatole France, alla Accademia francese (è melanconico per me e per lui il constatare quanto questo giorno sia da noi lontano) il suo collega Greard dopo aver fatto allusione ai titoli piacevolmente ingannatori dei suoi libri e lodato le seduzioni di una lingua così perfetta [p. 26 modifica]che sembra che essa uon abbia da diffidare di altro se non della sua grande perfezione, metteva in rilievo la sua preminente qualità: il suo spirito di ribellione contro tutte le ingiustizie. Anatole France, questa qualità, che è l’onore e l’orgoglio della vostra vita, le circostanze attuali la fanno ancora meglio apprezzare da noi!

Sforzo comune, cannoni, munizioni

Signor Presidente, il vostro Comitato facendo conoscere al pubblico lo sforzo inglese, belga, francese, italiano, giapponese, russo e serbo ha compiuto opera degna e patriottica. Ma havvi un altro sforzo del quale il pubblico ha salutato il principio con gioia e del quale aspetta la continuazione col concorso di tutti senza eccezione e senza interruzione o esitazioni.

Questo sforzo è lo sforzo comune, lo sforzo collettivo su tutte le fronti nello stesso momento, la coordinazione e l’azione simultanea delle forze alleate affinchè gli Imperi centrali cessino di godere il vantaggio del quale lungamente ed abilmente hanno profittato di combattere successivamente su ciascun fronte, giammai su tutti [p. 27 modifica]i fronti insieme. Certo vi ha in ciò anche una questione di cannoni e di munizioni. Gli uomini chiaroveggenti, fin dai primi giorni della guerra, hanno compreso che il numero ed il rinnovamento continuo dei cannoni e la produzione illimitata delle munizioni ne costituisce il fattore forse decisivo, certo il più importante. Ciò è stato compreso in Francia dove si può dire con fierezza aver risoluto il formidabile problema. Bisogna assolutamente che dappertutto non solo si raddoppino ma si centuplichino gli sforzi prendendo ad esempio lo sforzo ammirevole della Francia. Io non dirò che la vittoria è a questo prezzo, poichè in ogni caso la nostra fiducia nella vittoria finale deve essere incrollabile. Ma la fiducia non deve essere mistica o contemplativa; deve essere integrata dall’azione che non si affievolisce un istante solo, che non si arresta mai. Poichè se dobbiamo pensare a por fine alla guerra mediante la vittoria, non dobbiamo nulla trascurare per conseguirla al più presto possibile. Noi abbiamo detto e ripeteremo sempre che quale sia la durata della guerra noi la proseguiremo fino alla fine, ma sarebbe davvero incoscienza e spensieratezza colpevole dire che è indifferente che la guerra sia più o [p. 28 modifica]meno lunga, quasi che si potesse essere indifferenti agli enormi sacrifici dei popoli, in sangue ed in denaro.

La durata dalla guerra

e la possibilità della pace

Il Cancelliere germanico nel suo ultimo discorso ha voluto far ricadere la responsabilità della durata della guerra sugli Alleati dicendo che essi avevano respinto con disprezzo i suoi primi accenni alla pace. Lasciamo da parte le parole gravi e domandiamoci piuttosto se si trattava davvero d’una pace avente una base seria e cioè di una pace che rendesse impossibile una nuova guerra a breve scadenza. E proprio questa pace, la sola desiderabile, non è ancora possibile. Essa non è possibile anche indipendentemente dalle questioni territoriali che tuttavia sono anche esse irte di difficoltà, sopratutto se si rifiuta di esaminarle alla luce del gran principio liberale di nazionalità. È per questa ragione che i nostri popoli senza il concorso e l’adesione dei quali i nostri Governi non potrebbero continuare la guerra, sono decisi di condurla fino alla fine, poichè con il loro [p. 29 modifica]buon senso e col loro intuito sicuro dicono che val meglio continuare la guerra fino alla fine piuttosto che cedere all’allettamento ingannatore di una pace apparente ed effimera che non metterebbe fine definitivamente alla guerra ma l’interromperebbe provvisoriamente per alcuni anni, lasciando arbitri coloro che l’hanno provocata di ricominciarla quando e come ad essi convenisse meglio.

Parlando dell’attitudine che conviene agli Alleati nella discussione della pace, voi avete cominciato altra volta, caro amico Barthou, una formula che io adotto: Moderati ed equi, sì: ingenui no.

D’altronde se vi sono riparazioni materiali e morali da esigere, nazionalità oppresse da redimere, città ed officine incendiate o distrutte da far risorgere, noi non dobbiamo dimenticarci che c’è anche da ricostruire un altro edificio che è miseramente crollato e che ha nome: il diritto e la giustizia internazionale.

È forse possibile che l’Europa quale era prima della guerra, l’Europa della pace armata, della concorrenza pazza e della corsa febbrile agli armamenti, sia ancora l’Europa di dopo la guerra? Come si potrebbe senza preoccupazioni [p. 30 modifica]considerar dopo la guerra una situazione nella quale le grandi Nazioni dovessero pagare i poderosi aggravi della guerra passata ed al tempo stesso quelli non meno poderosi della preparazione della guerra futura a breve scadenza che cosa rimarebbe mai pel progresso civile ed economico, per le riforme sociali, per tutto ciò che costituisce il cammino della civiltà? Si ingannerebbe a partito chi pensasse che le Nazioni potrebbero rassegnarsi ad un tale stato di cose che creerebbe dappertutto gravi situazioni interne e provocherebbe le collere dei popoli. Guglielmo Ferrero, al quale siamo debitori di vedute interessanti ed originali sulla guerra e le sue conseguenze, in uno dei suoi articoli ha espresso la speranza che gli elementi rivoluzionari rinuncino a sfruttare a loro profitto la situazione che lascerà la guerra. Io credo che sarebbe più prudente dare alle nostre speranze per l’avvenire una base meno fragile.

I problemi del dopo-guerra saranno più complicati di quelli della guerra ed il còmpito dei governanti sarà più difficile dopo che durante la guerra.

Secondo me non vi è che una via per facilitare la soluzione di questi problemi, ed è [p. 31 modifica]fare in modo che abbiano a porsi a noi nella forma meno grave possibile. Questa considerazione deve confermarci nella risoluzione di non deporre le armi prima di avere ottenuto mediante la vittoria, la sola pace desiderabile, la pace che deve contenere l’elemento ai quale noi non potremmo mai rinunciare, l’elemento della durata per un gran numero di anni.

Non basta terminare questa guerra, bisogna a qualunque patto evitare i terribili problemi che dopo la guerra farebbe sorgere una pace zoppicante.

Conclusione

Gli uomini che sono responsabili di questa guerra, atterriti dai risultati spaventosi dell’opera loro, vorrebbero, ove lo potessero, non averla scatenata come vorrebbero, se lo potessero, arrestarla ora. Ma essi non lo possono; ma nessuno lo può; ma noi stessi, se lo volessimo, non lo potremmo, poichè v’ha una cosa che è superiore alla volontà degli uomini, cioè la logica fatale ed implacabile degli avvenimenti. Gli uomini possono scatenarli; ma, una volta scatenati, non è più in loro potere di arrestarli. [p. 32 modifica]Ben può dirsi degli uomini responsabili di questa guerra ciò che un filosofo della antica Roma diceva di tutti i conquistatori che, trascinati dall’amore insensato di una falsa grandezza (insanus amor magnitudinis falsae), sono condannati a non potersi arrestare se non quando cadono o vengono meno, alla stessa guisa di un masso lanciato nello spazio, che non si arresta se non quando cade e si stritola sulla terra!



DISCORSO pronunciato da S. E. TOMMASO TITTONI, Ambasciatore d’Italia in Francia, il 21 Giugno 1916, ALLA SORBONA DI PARIGI.