Guerra in tempo di bagni: racconto/III - Nel quale s'ammira l'amato oggetto
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III.
Nel quale s’ammira l’amato oggetto.
Era proprio una cittadella, graziosa molto, ma ben fortificata, l’abitazione dell’ammiraglio. Le opere avanzate erano costituite da una palazzina di tre piani, con linee semplici e di buon gusto, secondo il costume toscano, fabbricata a ridosso d’un vecchio palazzo, che un tempo è stato anche un rinomato albergo e ora domicilio d’un banchiere, ritirato dagli affari, e tormentato da una malattia non meno cronica della sua avarizia. Dopo l’andito del portone, una larga invetriata di cristalli opachi metteva in un grande vestibolo, con pochi mobili di legno di noce intagliati, che da una parte aveva la sala da pranzo allegrata di piante e fiori, dall’altra un bel fumoir di stile orientale e l’ampia scala che portava al piano superiore, accanto alla porta, pure a cristalli, che dava nel giardino. Il fumoir era la residenza abituale dell’ammiraglio, che vi aveva radunato tutte le sue memorie marinaresche, e i libri prediletti, tra cui il preferito, le Vite di Plutarco, libro al disopra del quale non c’era che l’affetto per Bice e una lunga pipa olandese che da vent’anni l’ammiraglio circondava di una specie di cura religiosa, con terrore grande di Mario, che aveva sempre paura, nello spolverare, di mandarla in pezzi.
Il giardino era rettangolare, di confini modesti, ma foltissimo di piante, col pittoresco disordine dei giardini abbandonati a sè stessi. Qua e là, tra il fogliame, si vedevano statue barocche, diventate graziosissime, perchè avvolte d’edera e tigrate di muschi vellutati, con ghirigori bizzarri. Nel mezzo, mormorava una piccola fontana, nascosta da ciuffi di papiri e di ninfee. Negli stretti viali, la sabbia, tutta screziata di foglie e di fiori di oleandro, sembrava un bel tappeto di Fiandra. In fondo, tra i rami delle alte magnolie, e i larghi ventagli dei chamaerops eccelsi, tra le yucche e i rododendri, s’intravvedeva la facciata d’un capriccioso châlet, un piccolo Trianon, come negli sfondi di una tela di Greuze o di Fragonard. Lo aveva fatto costrurre, con intenzioni alquanto pornografiche, un noto giocatore di borsa, che poi rovinato più dalle ballerine e dal macao, che dalle Meridionali o dalla rendita, era stato costretto a vendere tutto a buon mercato, e l’acquisitore fu l’ammiraglio che, non curandosi dei precedenti, a lui probabilmente ignoti, s’era innamorato dello châlet, nell’idea di farne il grazioso nido della figlia e del marito che le aveva assegnato.
Così, la purità verginale era entrata in quel tempietto d’orgie eleganti, dove certi affreschi color di rosa, sulla maniera del Boucher, apparivano ancora tutti lieti di Veneri vaporose e di amorini alati, a cui l’ammiraglio non aveva dato nessuna importanza, perchè, in fatto di pittura, non faceva differenza di sorta tra la Danae del Tiziano o la Immacolata del Murillo. Soleva dire:
— Sono tutti santini.
Bice era molto soddisfatta di quel nido: le pareva d’avere quel che una donna, in alto o in basso, ardentemente desidera: una casa sua, ma proprio sua, interamente, un dominio incontrastato, che diventa il suo piccolo mondo, al di là del quale c’è l’indifferenza e il nulla. Quella graziosa scatola di confetti, quasi dimenticata in mezzo al giardino, aveva agli occhi di Bice tutta l’importanza della reggia di Caserta. Sarebbe stata stupefatta, se le avessero detto che la sala del gran Consiglio, nel palazzo ducale di Venezia, era almeno trecento volte più grande di quel saloncino a stucchi, dove metà dello spazio bastava appena a un modesto pianoforte. Bice sopratutto era innamorata d’un gabinetto di studio, un vero buco, tappezzato di stoffa empire, con qualche gruppetto di Sassonia sopra mensoline dorate, e una scrivania di palissandro, su cui Bice dava corso a quel che chiamava la sua corrispondenza, che poi consisteva in una lettera che, un giorno sì, e l’altro no, riceveva da una sua prediletta compagna di collegio. Quello stambugio elegante, che pareva quasi un armadio a muro, era sempre allegrato di fiori, che spampanavano le corolle variopinte sopra alcuni bei vasi del Giappone: e all’unica finestra si vedeva ogni tanto Bice seduta, in atto di leggere un romanzo, della cui scelta era arbitra la sola miss Trollope, perchè l’ammiraglio soleva dire:
— Non m’intendo di quelle corbellerie.
Quella finestra, con le tende di lampasso, a fiori candidi su fondo d’oro vecchio, era, con la presenza di Bice, un vero delicato quadretto, con una cornice floreale di rose d’Olanda, di gelsomini e d’eliotropi, che diffondevano un profumo soavissimo, tra un insolente cinguettio di passeri e una ridda festosa di farfalle.
Gerard Dow avrebbe speso tre anni di intenso lavoro per fissare, in uno dei suoi piccoli dipinti inarrivabili, ogni minimo particolare di quel vivente e olezzante soggetto.
Sopra lo sfondo del gabinetto, in tenue penombra, risaltava luminoso il profilo di Bice, coi capelli fulvi, prolissi, rialzati e annodati su la nuca, con adorabile negligenza, in una massa dorata, da cui sfuggivano ciocche ricciute, rutilanti di aurei riflessi, sopra i piccioli orecchi color di rosa, e sulla fronte liscia, avorina, lieta di giovanile serenità. Il naso era alquanto pronunciato, ma di linee delicate, con tinte perlacee, che andavano digradando, verso le guance, in una leggerissima sfumatura rosata, come i lumi dell’alba, mentre i labbri arcuati e turgidi, avevano il colore fresco e provocante delle fragole agresti. Il mento sfuggiva un poco, con curva leggiadra, verso i mirabili contorni d’un collo tornito, pieno insieme di vigore e di grazia, con pronte e agili movenze di leopardo. Già, sotto una cascata di merletti di Valenciennes, palpitavano le promesse nascenti, con una certa insolente aspirazione di donnina, che cresceva le malie della fanciulla. Il busto si disegnava agile, flessuoso, sotto le pieghe amorevoli d’una vestaglia crème, stretta ai fianchi da una bizzarra cintura montenegrina d’argento, cesellato a ghirigori bizantini.
Bice passava lunghe ore seduta a quella finestra, leggendo con la febbrile curiosità dell’educanda, che nella fantasia intravvede nuovi mondi, e spesso alzando gli occhi e guardando, con fare distratto, al di là della cancellata, coperta di glicine, verso il mare e l’angolo occidentale del Grand Hôtel: pareva che guardasse senza niente vedere, ma sarebbe imprudente giurare che non vedesse assolutamente nulla.
Fu appunto in uno di tali momenti che entrò miss Trollope per domandarle:
— Signorina, fa il bagno?
— Oggi no; il mare mi ha lasciato ieri un po’ di stanchezza.
— Ma non andiamo da Pancaldi?
— Possiamo andarvi una mezz’oretta: non mi ci diverto molto; si fanno sempre gli stessi discorsi. Sai niente se siano arrivate altre famiglie? si aspettavano i Giustiniani.
— Col treno mio, è arrivata la contessa Cingoli con le ragazze.
— Parlano troppo forte, quelle due pedanti.
— Sa chi c’era nel treno? Il signor Massimo Cybeo.
— Ah, ah! — esclamò Bice con un’aria furbetta che fece arrossire miss Annie, — una persona molto simpatica: e dove ha lasciato il conte Tibaldi?
— Non so.... ma suppongo che.... sia a Livorno.
— E io sono molto meglio informata di te: è a Livorno e alloggiato al Grand Hôtel. Guarda a quella finestra: non è lui? Se non è lui, è qualcuno che gli rassomiglia in un modo spaventevole.
— Infatti.... mi pare.... dev’essere lui.... che bravo giovane!
— Quanto sei ottimista, oggi. Da che sei tornata a Livorno, trovi tutto buono e bello.
— Sarà, perchè ho trovato lei.
— Dicevi dunque che.... il signor Massimo?
Annie non rispose nulla; guardò Bice, che a sua volta la fissò nel bianco degli occhi, e scoppiarono entrambe in un’adorabile risata.
— Ma perchè — soggiunse Bice con simpatia — far dei misteri? credi tu che non mi sia mai avvista di nulla?
— E io, signorina, le ho forse mai dato occasione di credermi una sciocca?
— Tutt’altro; ora, dunque, dal momento che non c’è nulla di male....
— Ma io sono in una condizione molto delicata; suo papà mi onora di tanta fiducia....
In quel punto si sentì sbatacchiare, con insolito rumore, la grande vetriata del vestibolo e la voce stentorea dell’ammiraglio che gridava, con una certa concitazione:
— Prospero, Gennaro, Mario, Teresa! Dove siete? venite tutti qua!
Mario, il domestico, accorse per il primo, brontolando:
— Ahi! l’ammiraglio oggi ha la voce della burrasca. Tira libeccio!
Prospero, il giardiniere, giunse anche lui di corsa, con una faccia stralunata, cercando indovinare dagli occhi di Mario che ci fosse di nuovo.
Quasi nello stesso punto, arrivò il portiere Gennaro, con quel suo naso grosso, porporino, luminoso, che ricordava quei boccioni pieni d’un misterioso liquore con la tinta del rubino che i farmacisti mettono nelle vetrine, per attirare l’attenzione del pubblico, mentre invece non servono che a spaventare i cavalli.
Lisetta scese dalla scala e, vedendo quei tre uomini in riga, prese anche lei bravamente il suo posto, mentre l’ammiraglio passeggiava su e giù, con le mani incrociate sul dorso, come un caporale di settimana, che si stia eccitando per dare ai suoi quattro uomini una solenne lavata di testa.
La verità era che l’ammiraglio non sapeva di dove cominciare; al suo carattere aperto ripugnavano le vie oblique, mentre d’altra parte non gli pareva conveniente di mettere la servitù a parte di faccende di famiglia.
Finalmente si arrestò in faccia a Gennaro, lo guardò fisso fisso, quasi volesse indagare quanti litri n’avesse bevuto quel giorno, e disse:
— Voi mi siete molto affezionati, lo so, ma siete anche un branco d’imbecilli.
Poi soggiunse correggendosi:
— Secondo i casi, s’intende. Voi Lisetta, per esempio, quando si tratta dei comodi vostri, siete più furba di un demonio.
Lisetta abbassò gli occhi mormorando:
— Non so che cosa abbia a rimproverarmi, signor padrone. Non credo di aver mancato, nel mio servizio.
— Eh, non parlo del mio servizio, giuraddio! parlo piuttosto del servizio.... doganale.
— Hai capito? — mormorò Prospero sottovoce a Gennaro, — si tratta di quella guardia di finanza.
Gennaro non aveva capito, ma sorrise ugualmente. Dal momento che c’entrava una guardia di finanza, la cosa doveva essere comica.
L’ammiraglio si lisciò nervosamente i favoriti e continuò:
— Vi ho radunati per avvisarvi che c’è qualcuno che minaccia di farmi un qualche brutto tiro.
— Chi è, chi è? — esclamò Mario, con accento di Rogantino: — gli do una lezione, che non se ne scorda più.
— Smetti, con queste tue solite bravate; qui non si tratta di sbudellare nessuno; desidero soltanto che raddoppiate la vostra vigilanza. C’è un pazzo che pretende a ogni costo la mano di mia figlia, il conte Tibaldi.... io ho dovuto rifiutarla e allora egli mi ha minacciato di riescire, per inganno, nel suo progetto. Quel che voglia tentare non so, e appunto per questo è più che mai necessario di stare in guardia.
— Ammiraglio, voi avete un Mario al vostro servizio, e quando mi dite: Mario, bada che....
— Io ti dico che tu non sei che un gran parolaio, e che qui invece si tratta d’agire e di sorvegliare sul serio, tanto più, — proseguì fissando Lisetta, — che il nemico potrebbe avere qui dentro delle intelligenze, ma se Dio liberi, mi accorgo di qualche cosa!...
— Senta, ammiraglio, — disse Prospero, — quanto al giardino, garantisco io, giorno e notte.
— Mi fido sino a un certo punto; ricorda che ti hanno sempre rubato gli aranci e le camelie.
— Eh, ma io lo so chi è stato! non ho voluto rovinare un giovane, per quanto sia un birbaccione.
— Io non so nulla: so che hanno rubato. La tua pietà, a spese mie, è bella e buona, ma sarebbe anche più pericolosa per adesso, poichè si tratta anche qui d’un giovane, che non è punto un birbante. E sopratutto voi, Lisetta, che vi lasciate troppo commuovere dalla gioventù. Capisco! il prestigio dell’uniforme....
— Sono, creda, una brava ragazza, — balbettò Lisetta, — e poi ha promesso di sposarmi.
— E allora basta, che diavolo! io vorrei sapere quale guardia di finanza abbia visto una ragazza, senza prometterle di sposarla. Siete tutte così. Se un rinoceronte vi promettesse di sposarvi, sicuro gli andreste appresso. Dunque intendiamoci bene, non voglio storie, non voglio sotterfugi. La consegna è chiara e precisa: in casa mia, sotto nessun pretesto, non deve entrare nessuno, se io non ho dato il permesso. Anzi, metterò la quistione più chiara e più semplice: non deve entrare nessuno. Mi spiego?
Tutti fecero un cenno affermativo col capo, tranne Gennaro, che bisbigliò al giardiniere:
— Che cosa intende dire?
— Se voi sarete vigili e fedeli, — proseguì l’ammiraglio, — il giorno delle nozze di mia figlia con Liberti vi regalerò cento lire a testa, ma se, al contrario, mi accorgo d’una qualsiasi minima cosa che mi dia sospetto, vi licenzio, senza pietà, su due piedi....
Momento di silenzio.
— Anzi, sopra un piede solo.... il mio!
Ciò detto, e tutti persuasi non essere vana minaccia, l’ammiraglio si ritirò nel suo studio, e la gente di servizio escì nel giardino, ciarlando a bassa voce, con grande curiosità, sopra quell’avvenimento inatteso che veniva a turbare la vita tranquilla di quel cantuccio di mondo, dove le stesse frequenti sbornie di Gennaro avevano qualche cosa d’innocuo e d’arcadico. Bisogna pur dire, che, per quanto il giardiniere vi si provasse di buona voglia, non fu possibile far capire a Gennaro la faccenda: egli si ostinava a ripetere:
— Non so che questo: non devo lasciar entrare anima viva.
— E se viene il macellaio? il fornaio?
— Non entra neanche Cristo.
— Dunque non aprirai neanche all’ammiraglio?
— Neppure a lui, se prima non me ne dà il permesso e per iscritto.
— Ma la signorina saprà niente, — chiese Lisetta, — di tutto questo pasticcio?
— Io credo di no, — rispose Mario, — e sarà meglio che non sappia nulla.
— È quel che pensavo anch’io! — replicò Lisetta, e andò allo châlet, dalla signorina Bice, per ispiattellarle tutto quanto, dall’a fino alla zita.
Donna Teresa Baliani, lenta e dignitosa quanto una processione del Santissimo, aveva attraversato la rotonda di Pancaldi, e s’era seduta in un cantone, presso quel buco dove si vendono i sigari e s’affittano ai ragazzini, spavento della colonia, quelle tremende canne da pesca che vanno sempre a finire nell’occhio di un bagnante.
Donna Teresa, dopo avere scambiato un saluto cerimonioso con un gruppo di esseri anfibi, tra l’istitutrice e la bambinaia, riprese con diligenza il suo ricamo, un paio di pantofole, con la cifra in mezzo e un’orrenda ghirlandetta di fiori, destinate all’ammiraglio. Massimo, fumando una sigaretta, passeggiò un pezzo avanti e indietro, mormorando:
— Ma guarda, adesso, che cosa mi capita! e che dirò io a quella graziosissima strega?
La cosa proprio non gli andava giù, neppure dopo aver bevuto, al caffè, due bicchierini di sherry, per infondersi maggiore ardimento.
— Eh, dopo tutto, — pensò, — mica mi ammazzerà!
E presa la risoluzione a due mani, come un disperato che sia per buttarsi a fiume, mosse, con apparente disinvoltura, verso la governante, rimase un momento a contemplare una scaletta, quasi un archeologo attratto dai frammenti d’una epigrafe latina, poi si sedette accanto a donna Teresa, dicendole:
— Perdoni: che le dà noia il fumo della sigaretta?
— Signor no, faccia pure.
— Senza complimenti, sa: fumare o no, per me è lo stesso.
E buttò via, con atto cavalleresco, la sigaretta, dicendo entro di sè:
— Non l’avrei fatto neppure per una duchessa.
Donna Teresa non potè a meno di mostrarsi sensibile alla delicata attenzione, e sopra il viso arcigno, si disegnò un sorriso che pareva la smorfia d’un mascherone di fontana.
— E non dice una parola, che il diavolo se la porti! — mormorò Massimo, sconcertato da quel mutismo.
Non sapendo che altro fare, guardò il ricamo e poi disse:
— Non ho mai capito, come ci si possa raccapezzare, in mezzo a tutte quelle tinte diverse.
— Sa suonare il pianoforte?
— Signora, no.
— Eppure c’è tanta gente che ci si raccapezza in mezzo a quei tasti: questione di studio e di abitudine.
— Ma c’è chi suona a orecchio.
— E c’è chi ricama a occhio, — replicò donna Teresa, superba del suo talento, — guardi, non ho mica un modello, davanti a me.
— E anche sua figlia ricama?
— Non ho figlie! — rispose asciutta Teresa, con un’occhiata piena di sospetto.
— Come? quella signorina, che ho visto con lei, non è sua figlia? eppure, si somigliano tanto! — esclamò Massimo, e aggiunse mentalmente: — Perdona, clemente Iddio, quest’orrenda bestemmia!
— Lei ha voglia di scherzare, — disse donna Teresa con accento acre, prendendo in mala parte quell’adulazione troppo smaccata, — c’è una differenza come dal giorno alla notte.
— Al contrario! — borbottò Massimo, — creda che.... c’è qualche cosa.... nei lineamenti.... nel naso....
— Ma vada là, lei e il suo naso! senta, se mi ha preso per una grulla, si sbaglia di grosso: ci vuol altro che un pivetto come lei, per grattare una donna della mia esperienza e della mia età.
— Perdoni, ma io non ho nessuna intenzione di grattarla.
— Abbia lo spirito, almeno, di non farmi il nesci. Vuole che sia tanto ingenua da credere che un signore come lei, che sta qui a Livorno, che frequenta Pancaldi, non conosca la figlia dell’ammiraglio Sterbini? È come se mi venisse a domandare se la signora Rodocanacchi sia giapponese o russa. Ma le pare? Crede che ci voglia molto ingegno a capire che lei ha smania di attaccare discorso per le vie traverse? Eh, se sapesse! me ne son già capitati dei più furbi di lei. Se ne venga lindo e schietto, senza tanti rigiri di frase.
Massimo rimase un po’ sbalordito, ma pensò:
— Perdinci! o io non capisco più nulla, o la strega se ne viene da sè nel paretaio.
E ripreso coraggio, fece un sorrisetto d’intelligenza e soggiunse:
— Con una persona di spirito, come lei, la migliore diplomazia è la sincerità.
— Tanto più che l’altra non serve.
— Nè io aveva intenzione di fare il diplomatico: e se ho cominciato a parlare del ricamo....
— Era per poi ricamare sopra la signorina.
— Dio me ne guardi! quello è un ricamo divino, cui non c’è più nulla da aggiungere.
— Ci siamo! — pensò donna Teresa, e riprese, con accento un po’ beffardo: — lei ne parla con un calore, che non mi lascia più nessun dubbio.
— Badi, chè lei sta per pigliare un equivoco sul conto mio.
— Badi: chè le potrei rispondere altrettanto. Le ripeto che me ne son capitati degli altri: purtroppo, la signorina è tal bellezza, che ogni momento è seccata dai cascamorti.
— Non sono uno di quelli: e anzi, le dirò che della signorina, salvo la sua grazia adorabile per tutti, non me ne importa proprio nulla.
Donna Teresa lo guardò talmente stupefatta, che le cascarono due punti delle maravigliose pantofole. Massimo, imperturbabile, proseguì:
— È vero; mi son seduto qui con l’intenzione di parlarle, ma per perorare la causa di un altro, di un amico mio....
— Oh!
— Un bravissimo giovane, bello, buono, nobile e ricco, degno insomma di casa Sterbini.
— Ma che mi va cantando?
— La verità; io le domando di darci una mano per compiere una bella e buona azione; e stia pur certa che non s’impegna con gente ingrata....
— Mi meraviglio di lei.
— Non si meravigli, cara e buona signora; e pensi che un migliaretto di lire non ha mai fatto male a nessuno.
— Sa che le ho da dire? — rispose irritata e seccamente donna Teresa, — le ho da dire che lei, signorino, fa.... un bel mestiere, ma che questo mestiere non è il mio.
Ciò detto, si alzò con dispetto, raccogliendo tutte le sue matassine di lana, e andò a sedersi cinquanta passi più in là.
Massimo rimase male assai e se ne andò via, come un cane bastonato, borbottando:
— Si trova al mondo una governante onesta, e ha da capitare proprio a me!