Difesa di Enrico Cernuschi rappresentante del Popolo Romano
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DIFESA
DI
ENRICO CERNUSCHI
RAPPRESENTANTE DEL POPOLO ROMANO
fatta da sè stesso
AVANTI
IL CONSIGLIO DI GUERRA DELL’ ESERCITO FRANCESE
GENOVA
TIPOGRAFIA DAGNINO
1850.
La prima seduta pubblica ebbe luogo il 23 gennaio.
L’udienza de’ testimoni a carico dura cinque o sei ore.
Rinvio all’indomani.
Seconda seduta, li 24 gennaio a mezzodì.
Sono intesi i rimanenti testimoni a carico.
Presidente. — «Accusato, avete testimoni a scarico?»
Accusato. — «Mi riferisco alle disposizioni di quelli che furono citati a carico.»
Presidente. — «La parola è al sig. Commissario del Governo.»
Il Commissario prende la parola, e sostiene molti capi d’accusa, domandando l’applicazione delle pene corrispondenti.
Il difensore prende la parola. Dopo qualche istante è interrotto.
Accusato. — «Sig. Presidente, vi prego di togliere la parola al mio difensore. È sopra un altro terreno ch’io voglio difendermi.»
Il difensore siede.
Presidente. — «Accusato, voi avete la parola.»
L’accusato si alza.
Signori, l’Italia è mal conosciuta. Gli uomini che comparvero nell’ultima rivoluzione furono giudicati solo dietro voci vaghe, mosse sempre a profitto di parte. Nulla è più naturale. Gli avvenimenti sono seguiti con meravigliosa rapidità; e non sono ancora compiuti. La scena passò dall’una all’altra regione della Penisola in maniera vulcanica. — L’occhio della storia ha forse veduto ogni cosa; ma la sua voce non ha parlato ancora. Intanto si vollero giudicare gli uomini. La procella imperversava; ci scorgeano da lungi, al balenare dei lampi; e credettero conoscerci abbastanza per fare a memoria il nostro ritratto. Signori, oso dire ch’io fui orribilmente sfigurato da quegli artisti precipitosi. Dissero: Cernuschi è anarchista. — Il motto è in voga. I miei avversarii erano interessati ad accreditare l’imputazione; quegli che non mi conoscono, non avevano motivo di respingerla; essa giunse sino all’orecchio del generale Oudinot. Suo fratello, sotto fede giurata, vi ha detto che il generale riputava di massima importanza l’arresto mio, e ciò in ragione delle mie enormezze. Il mandato ch’egli spedi a Civitavecchia, recava ch’era d’uopo arrestare, non importa dove, il sig. Cernuschi rappresentante del popolo, uno dei più focosi anarchisti. Io vi proverò che il generale Oudinot, — non è sua colpa — fu male informato. Io vi proverò, che, lungi d’esser io violento e avventato, sono uomo d’ordine, di governo, d’indole pratica; uomo consistente, come dicono gl’inglesi; uomo serio, come dicono i francesi. Signori, io amo la mia patria con animo freddo. — Voglio demolire col martello dell’evidenza tutte le prevenzioni, tutte le fallacie, che furono causa prima della mia prigionia. Chiarirò al fuoco limpido della verità l’acqua torbida in cui si pescò per inviare informazioni al signor Relatore. Quando avrete inteso quali siano le mie antecedenze, e quale l’indole mia direte: — è impossibile; quest’uomo non può essersi lasciato andare ad atti così insensati e ridicoli.
Vi prometto di non esser prolisso, di evitare ogni allusione spiacente, e di tenermi entro i limiti di quella delicatezza che il luogo e il tempo comandano. Vi ha però una taccia che non è in mia potestà di evitare, quella di lacerar senza modo la lingua di Racine e di Chateaubriand. Per questo invoco l’indulgenza vostra, per tutto il rimanente domando solo la vostra giustizia.
Io sono di Milano; la mia vita politica data dal marzo 1848, da quell’insurrezione, che fece seguito alla vostra rivoluzione francese, signori. Il partito che si spingeva alla rivolta era quello di Carlo Alberto. Ma, scoppiata l’insurrezione, quella setta ebbe paura; si nascose; e trattava con Radetzky. Fu allora che per sottrarre la popolazione al pericolo di essere fucilata ed appiccata in massa, Carlo Cattaneo ed io pigliammo a reggere il combattimento, costituiti con due colleghi in Consiglio di Guerra; impedimmo due volte gl’insidiosi armistizi; si combattè cinque giorni e cinque notti senza riposo. Vincemmo. In quei cinque memorabili giorni, gli ottantamila Austriaci che tenevano l’Italia, furono ridotti a quarantaduemila, e costretti a ricoverarsi nelle fortezze. Non è per vanità che cito questi fatti. È per provarvi che a Milano, come a Roma, io fui sempre disinteressato, prudente, obbediente alle leggi della ragione e dell’umanità. Udite. — Noi trattammo gli Austriaci prigionieri come irresponsabili strumenti della tirannide. Salvammo persino gl’inquisitori di S. M. Apostolica, persino le spie, che aveano acquistato fama europea riempiendo lo Spielberg. A questo proposito, ecco due parole di un Proclama sotto il quale si leggeva la mia firma.
«Prodi cittadini! Conserviamo pura la nostra vittoria. Non discendiamo a vendicarci nel sangue di quei miserabili satelliti, che il potere fuggitivo lasciò nelle nostre mani. È vero che per trent’anni furono il flagello delle nostre famiglie. Ma voi siate generosi, come siete prodi.»
A me, saccheggiatore di Roma; a me, devastatore di ambascerie, il popolo combattente recava, senza ricevuta e senza diffidenza, gli oggetti preziosi che il nemico abbandonava. — Il Consiglio di Guerra si conservò la sola spada di Radetzky. — Noi la serbiamo ancora.
La notizia della nostra vittoria decise Carlo Alberto ad occupare le provincie liberate. Al suo arrivo, la sua setta riebbe il sopravvento; noi rassegnammo il potere. Il Consiglio di Guerra prevedeva l’esito infelice della campagna. Nel mio giornale, denunciavasi come funesto il pensiero di guerreggiar da solo, di far da sè. I miei articoli additavano incessantemente gli spregiati interessi di Pio IX e del re Ferdinando; perocchè coll’assunto programma, programma tanto raccomandato dalla Francia costituzionale, guidata da Guizot e da Thiers, cioè la concordia dei Principi italiani, si cadea in enorme contraddizione col favorire un principe solo. Laonde io predissi lo scioglimento; e pur troppo ebbi ragione; ciò che non succede facilmente, agli utopisti, ai demagoghi, agli anarchisti, ai cervelli sventati. Quelle sinistre previsioni parvero delitto: coloro s’inviperirono contro di me, e mi gettarono in carcere. Sapete voi, tra le altre, quale accusa mi affibbiavano? Quella di esser francese, cioè a dire, parteggiatore dell’intervento francese. Gli uomini sono veramente trastullo del destino; ne sono io qui la prova. — Il Tribunale, con sentenza per me onorevole, mi rimandò assolto.
Da quell’istante, cioè dalla guerra di Lombardia, si maturavano in mano della Provvidenza gli eventi di Roma. Generali piemontesi venivano imposti al papa; e parlavano in nome di Sua Santità, senz’averne il consenso. Si tramava di rapirgli Bologna. Pio IX, fatto accorto che col pretesto dell’indipendenza si mirava a spogliarlo, si rivoltò contro il pretesto medesimo, e scagliò l’enciclica contro la guerra italiana, divenuta ormai piemontese. — Era l’aprile del 1848; ed a quei tempi il popolo di Roma nulla aveva fatto, che meritasse quel fulmine. Ma il papa a costo dalla sua popolarità, si poneva in guardia contro Carlo Alberto. Era dunque ragione che Pio IX volesse un ministro non piemontese; e lo scelse in Rossi.
Vuolsi ora sapere d’onde venisse il colpo che spense il Rossi? Nulla più facile.
Rossi era uomo di studii e d’esperienza. Egli intendeva la questione italiana meglio assai de’ suoi avversari. Egli vedeva che il Piemonte era insufficiente alla vittoria nazionale, e stampava sulla Gazzetta officiale articoli che io, repubblicano, avrei potuto senza scrupolo firmare. Egli metteva tanto in chiaro i torti del Piemonte, che questo non potè sopportarlo. Si deliberò di farlo odiare.
Additandolo come uomo antinazionale, l’intento era facilmente ottenuto. Gli si mossero contro dimostrazioni ostili; egli rispondeva con rigori di polizia. Infine, signori, egli fu pugnalato, sulla soglia del Parlamento, quel giorno stesso che l’Europa diplomatica doveva udire, in una fulminante filippica, dalla bocca di quel Pari di Francia salito alla tribuna romana, le viete pretese, le importune millanterie del Piemonte.
Libera da sì temuto avversario, la setta albertista canto vittoria; incalzò; e fece imporre al papa un ministero piemontese puro, il ministero del conte Mamiani, che giungeva allora dalla corte di Torino. Il papa, violentato, lasciò Roma. Nè poteva fare altrimenti.
Io mi trovava in quel tempo a Firenze. Vidi che le idee piemontesi, non essendo altro mai che la rivoluzione a metà, finirebbero in nulla. Mi sentiva attratto verso Roma; fu sempre mio pensiero che l’Italia è in Roma. Vi venni; persuaso che grandi cose vi sarebbero avvenute. Il papa respinse, senza ascoltarle, le premurose deputazioni che lo pregavano a ritornare. La Costituente Romana fu quindi necessità, e surse la repubblica, senza cospirazione. — Mazzini era in Francia. — L’oratore più eloquente, quegli che era asceso al potere camminando sul cadavere di Rossi, il conte Mamiani, parlò e votò contro la repubblica. Nessun legame pertanto tra la morte di Rossi e i repubblicani. Non erano essi i nemici di Rossi. È per me di sommo momento il chiarire questo fatto.
La repubblica era già proclamata, quando nelle seconde elezioni io fui eletto in Roma rappresentante del popolo, onore che non ho sollecitato, ma che accettai lietamente. E non me ne pento.
Entrai nell’Assemblea con opinioni sì fredde, se questa parola è lecita, con idee sì temperate, che, sia detto per la verità, ne divenni alquanto impopolare. Senza tregua io combatteva ogni misura eccessiva o inconsiderata; sempre io parlava di cose calcolate e positive. Io, solo, osai condannare la seconda guerra che il Piemonte da sè, e all’insaputa di Roma, dichiarava con imperdonabile frivolezza all’Austria. Milanese, io annunciai che l’esercito regio non sarebbe entrato in Milano. I profeti di sventura non vengono in onore se non dopo i disastri. Così fu di me; la mia voce cominciò ad essere ascoltata solo dopo lo scompiglio di Novara.
Ma eccoci alla spedizione francese.
Se vi dico che l’annuncio di questa spedizione parve a me una buona nuova, voi forse non mi credete. Ma io citerò il Monitore Romano. Dapprima insistetti perchè si redigesse una protesta calma, degna e temperata. «Dev’essere, io diceva, un atto da notaro, non da poeta, come pur troppo sogliono gl’Italiani.» (Monitore Romano, 24 aprile). Io stesso dettai la protesta, e fu trovata irreprensibile. Poi, mentre l’Assemblea poneva sotto accusa le autorità di Civitavecchia, io osservai, quanto a me, sembrarmi utile che lo sbarco fosse avvenuto senz’opposizione; perocchè se l’assemblea francese non aveva consentito l’occupazione di Roma, avea però votato l’approdo a Civitavecchia. Or ecco quanto io diceva sulla spedizione: «Vi dirò un’altra cosa: tutti i nobili, tutti i preti, tutti i frati, tutti gli Albertisti e Giobertisti hanno sempre odiato l’influenza francese in Italia. Questo mi consola; ma non è che una riserva, giacchè nulla io posso sperare dal capo attuale della spedizione. Gli è però sempre vero, che l’intervenzione francese potrà essere occasione per risolvere il gran problema della libertà italiana». (Monitore Romano 25 aprile).
L’invio della protesta aveva mutato notabilmente il tenore dei proclami del generale Oudinot. E su questo io diceva all’assemblea, la notte del 25 aprile: «La nostra condotta savia e degna ha già ottenuto un risultato. Persistiamo sull’istessa via. Il generale Oudinot dichiarò ai nostri inviati, che la Francia non ha una politica prestabilita. Cerchiamo dunque d’indicargliene una, con una condotta nobile e franca. Io ve lo dico francamente, in fondo sono contento di una influenza francese in Italia». (Monitore Romano)
Sì, io sosteneva che l’intervento francese finirebbe coll’esserci vantaggioso; e lo credo ancora. L’ultimo vostro battaglione non partirà mai. — «Ma perchè questo intervento possa avere presto o tardi tal felice risultato, una condizione è necessaria, io ripeteva: difenderci da prodi».
Signori, la notte del 14 giugno, io fui, come parlamentario al quartier generale di Villa Santucci. Vi scorsi la bandiera italiana, che oggi trovasi appesa all’Ospizio degli Invalidi di Parigi. È fortuna per me di qui distruggere dubbi sollevati da una malaccorta opposizione contro la legittimità di quel trofeo. Perocchè quella bandiera, nel tempio di Napoleone, allato ai vessilli di Marengo e di Iena onora l’Italia. Quella bandiera comanda rispetto; e senza vicendevole rispetto, nessuna fratellanza tra popoli.
Del resto, la deliberazione di difenderci, anche al punto di vista più attuale, era savia. Lo prova il celebre voto del 7 maggio a Parigi; voto, il quale coronò il nostro coraggio non solo, ma ben anco la nostra prudenza. Tutto quanto io dissi dalla tribuna sulla spedizione francese potrebbe citarsi a mia difesa. La precisione ed il buon senso reggevano le mie parole; nè questi modi, mi sia lecito ripeterlo, sono quelli dell’anarchista, dello sventato, del demagogo. Il generale Oudinot persisteva, voleva Roma. Alle sue minaccie l’assemblea rispose per la terza volta deliberando di respingere la forza colla forza. La decisione erasi adottata in comitato segreto, con discussione di più ore. Era il 26 aprile; le tribune pubbliche riaperte. Bonaparte, che per sè opinava di ammettere il presidio francese, come vice-presidente proclama il voto. Lasciate ch’io traduca ancora una volta il nostro Monitore.
— «Cernuschi sale alla tribuna visibilmente commosso. Silenzio profondo».
«Non si parli più, non si discuta più; è deciso che si ha da combattere. Il popolo deciderà che si ha da vincere. Combatteremo e vinceremo. Ma per questo, molte cose sono necessarie, il coraggio non basta; è necessario un grand’ordine. Se c’è momento» — notate questo, o signori — «in cui l’odio al regime clericale debba essere sospeso; il momento è questo. guai a chiunque del popolo facesse atto che potesse sembrare insulto alla religione (vivi applausi alle tribune). Noi diamo un esempio a tutte le assemblee depositarie dell’onor nazionale: fummo calunniati e non lo meritavamo. Noi sapremo morire colle nostre sciarpe (l’oratore mostra la sua in uno stato di commozione straordinaria; l’entusiasmo è al colmo). Il popolo sia con noi. Qui non ci sono traditori. — Viva la Repubblica (l’oratore, scendendo dalla tribuna, è circondato da’ suoi colleghi ec., applausi ec.)».
Questa sola citazione basta a provarmi innocente.
In seguito venne il sig. Lesseps. Il sig. Lesseps fece di tutto per vincere sul terreno diplomatico. Non era facile, colla Nazione di Macchiavelli e del Concilio di Trento. — Deluso, per non rimanere senza parte nella scena, voltò faccia e tradì i suoi committenti.
A proposito del signor Lesseps, ricevo qui all’udienza una lettera di Parigi. Sia ben venuta. Vi trovo il passo che or leggerò, d’un dispaccio inviato dal sig. Lesseps il 18 maggio, al suo ministero.
«L’Assemblea Romana ad unanimità deliberò di nominare una commissione per entrare in negoziati. Furono chiamati a farne parte Sturbinetti, Audinot di Bologna e Cernuschi di Milano. Quest’ultimo, che sarebbe stato una buonissima scelta, non accettò per delicatezza. Gli parve più convenevole che la deputazione fosse composta di soli italiani originarii dello Stato Romano».
Io non ho ammirato mai l’avviamento che il sig. Lesseps diede ai negoziati; ma siccome il valore delle persone non dipende dalla mia opinione, mi sia lecito citare questa testimonianza del console di Barcellona, di colui che Guizot incaricava dei matrimonii spagnuoli. Il sig. Lesseps sembra dire che l’anarchista potrebbe essere un buonissimo negoziatore, forse un diplomatico. E questa testimonianza fu fatta in quel tempo che il sig. Lesseps eraci sommamente avverso.
Le ostilità si riaccesero. Perchè la resistenza fosse onorevole e consentanea all’idea che la dettò, bisognava spingerla sino all’estremo. Lo fu. Ma venuto il momento, io stesso proposi all’assemblea di cessare la difesa. Ecco, signori, l’originale decreto; e fu scritto di mio pugno; e la prima firma è la mia.
REPUBBLICA ROMANA.
In nome di Dio e del Popolo
«L’Assemblea Costituente Romana cessa una difesa divenuta impossibile e sta al suo posto.
«Firmati: Enrico Cernuschi — Vincenzo Caldesi — Ludovico Caldesi — Bosi Federico — Vincenzo Cattabeni — Rinaldo Andreini — Giovanni Costabili — Audinot Rodolfo — Grillenzoni — Arduini — P. Sabbatini — A. Mattioli — Vincentini».
Dopo aver udito i capi militari, l’assemblea adottò il decreto ad unanimità, meno una voce. — Qual seduta per me! Una convulsione spasmodica mi prese dopo quel voto, che aveva pur provocato io. Era il 30 giugno. — La voce contraria fu quella di Mazzini. Egli protestò. Alla sua protesta io risposi in pubblico parlamento il 2 luglio così:
«Cittadini io ebbi, il coraggio — notate la parola coraggio, signori — di proporre il decreto del 30. Noi ci siamo dapprima difesi, perchè era l’onor nostro ed il nostro vantaggio. Noi ci siamo difesi in appresso, perchè avevamo per noi il voto della Costituente francese, e più tardi il trattato Lesseps. Abbiamo perdurato nella difesa, nove giorni dopo ascese le brecce, nove giorni dopo che il nemico era in Roma, nove giorni dopo l’annuncio del 13 giugno a Parigi, per dimostrare che non eravamo al servigio dell’insurrezione Parigina, che non eravamo la retroguardia d’un partito qual si fosse. Qui non siamo, l’ho detto sovente, nè socialisti, nè comunisti, nè montagnardi: noi siamo Italiani e siamo repubblicani: dacchè oramai non avvi altra via d’esser nazionali in Italia! Dopo gli ultimi fatti dell’assedio sopravvenuti quest’oggi la resistenza non ha più scopo. Non ci resta più altro che coprirci il volto come Cesare. — Vengano e ci finiscano. — (Vedi anzi i fogli dei Stenografi)».
Signori giudici, l’accusa ebbe sette mesi per raccoglier prove contro di me. Io ebbi ventiquattro ore; e pure mi rimasi con le braccia al petto; nè tempo, nè bisogno io aveva di rintracciare testimoni a scarico. Rendo giustizia ai molti testimoni comparsi per citazione dell’accusa; ebbero l’accento della verità. E poi le loro deposizioni che ascoltaste, corrispondono agl’interrogatori che ieri ci lesse l’attuario.
Soltanto desidero di notare la deposizione del sig. vice-direttore dell’Accademia Francese, sul proposito dell’imputazione che mi fu fatta d’aver depredato quello stabilimento. Egli disse, che mi riputava uomo talmente pericoloso, che in coscienza ei si credette in dovere di avvertire il signor Corcelles d’avermi veduto, in pieno giorno, il 5 luglio, partire da Roma, in calesse scoperto col signor Bonaparte. Il signor Corcelles ringraziandolo, ne ragguagliò immantinenti il generale Oudinot, il quale comandò il mio arresto. Ebbene, infine, che cosa depose questo signore? Egli provò anzi; che, al pari del palazzo Farnese, l’Accademia francese non fu depredata nè da me, nè da nessuno. Egli provò che la sola volta che io mi recai a quello stabilimento, i miei modi in presenza del direttore e del signor Mercier, diplomatico francese, furono assai urbani, anzi cortesi. — La più forte tra le cose, signori; è la verità.
Altro capo di accusa. Io fo un giro sulla Piazza del Popolo, in carrozza o a piedi, il 3 o il 4 luglio, la mattina o la sera. — Ne convengo; abitava all’estremità del Corso. Signori, qual era tra i soldati francesi che una naturale curiosità non sentisse di vedere i difensori di Roma? Ebbene, io per conforto al mio cordoglio me ne andava a vedere, a guardare anzi i nostri vincitori. Si dice che taluno abbia beffato i Francesi. Da parte mia era ben altro. Era la desolazione, la estenuazione, la febbre. Può egli credersi che un uomo vada con proposito a correre vasta piazza, insultando a battaglioni accampati? Ciò nullameno, voglio spiegare con una semplice similitudine, l’arcano della sommossa; tuttochè ne rimanga interamente scevro in seguito alle testimonianze invocate dall’accusa.
Imaginate un teatro qualsiasi. Si alza il sipario; lo spettacolo non piace; si mormora, si fischia. È cospirazione? No, di certo. È la natura. — Ma che più? Siede in platea un autor drammatico, il signor Dumas od il signor Scribe. Tutti si rivolgono a lui. Taluno può esser propenso a crederlo il promotore della disapprovazione; ma la cosa è ben altra, giacchè gli uomini superiori sanno rispettare sè medesimi.
Il signor Commissario della Repubblica vi ha detto, che segnalandomi io stesso come autore del decreto che faceva cessare la difesa, riconobbi d’aver prestato l’assenso mio alle convenzioni cogli assedianti. Signori, nessuna convenzione ebbe luogo. Il decreto dell’Assemblea era un atto interno; noi dicemmo a noi stessi: cessiamo dal difenderci. Non era questo un atto bilaterale; era un decreto come tutti gli altri; avevamo giurato di non capitolare. Il Municipio dichiarò inoltre di non poter rispondere di quanto sarebbe avvenuto (Vedi Monitore Romano, supplemento al 3 luglio). Voi dunque, occupando Roma, non avevate garanzia nostra veruna. Ma abbandono questo terreno spinoso; signori, non voglio sembrare poco accorto.
Garibaldi era partito da qualche giorno. Al Farnese io aveva un’armeria, e nemmeno un fucile ne fu levato. Signori, se veramente avessi spinto alla sommossa, qualche grande infortunio ne sarebbe venuto; perocchè l’influenza mia era grande. Sarebbe stato deplorabile, insensato, direte voi. Sì, è vero; e per questo nol feci. E se io avessi indirizzate parole sconvenevoli ad un official francese, voi lo vedete al par di me, qualche fatto positivo ne sarebbe venuto, da lasciare incontestabili prove; o per lo meno l’officiale ne avrebbe inoltrato rapporto, e l’accusa non l’avrebbe obliato.
Per compiere questa dimostrazione, ecco quali consigli noi davamo il 3 luglio per l’ultima volta a quel popolo che ci aveva sempre religiosamente ascoltati:
REPUBBLICA ROMANA
COMMISSIONE DELLE BARRICATE
- Popolo!
«Da un anno le città italiane sono bombardate e mitragliate dagli stranieri e dai re. Roma ebbe i più civili stranieri, ebbe il più sacro dei re, per bombardatori. Roma è vinta. La Repubblica francese volle immergere nel cuore della Repubblica Romana un pugnale, mentre gli Austriaci ed i Borboni ne torturavano barbaramente le membra. E perchè mai, o giustizia di Dio?
Il leone, ferito a morte, è maestoso. Non garrisce, non rimprovera, non guata a chi lo ferì, non prorompe in estremo inutile sfogo di vendetta: No: la morte dei forti è spettacolo di dignità.
Popolo! la virtù non s’insegna; è nel cuore. Ascolta il tuo, che è cuore romano; e sarai grande.»
Questo proclama è nel fascio dell’accusa; vi fu letto ieri, con molti altri che si pubblicarono durante la guerra.
Per le delapidazioni, invasioni, devastazioni, depredazioni, atti tutti che si assomigliano al furto, vi dirò una sola cosa, signori. Io ho un avvenire. Io combatteva, sapendo di dover probabilmente comparire in giudicio innanzi ai vincitori. Dov’è l’uomo il quale osi pensare ch’io giocassi l’onor mio per un’inezia di gabinetto, o per una batteria di cucina? Il Farnese era il quartier-generale, l’arsenale del Popolo; le palle da cannone lo frequentavano: le vestigia sono indelebili. Questo è nulla, dacchè noi stessi avevamo chiesta la sede più esposta; ad ogni istante ci si annunciava la morte d’un eroe, la perdita d’un amico. Ah! signori, quali memorie!
Io sono avvocato; di competenza me ne intendo; prigioniero di guerra, potrei dirvi: Voi siete i vincitori; io, vinto, sono inviolabile. — I Russi non recarono in Ungheria giudici russi. I prigionieri del 30 aprile non furono tratti da noi innanzi ai consigli di guerra romani. Ma no, le proteste, lo so, non salvano i popoli, nè i privati.
Giudicatemi. Sono ben lieto di astergere innanzi a voi l’ingiusta credenza che si promosse sul conto mio.
Voi foste in errore. La mia divisa fu sempre: Libertà e virtù.
Il 3 luglio, proclamammo la nostra Costituzione; e Roma era occupata dai Francesi. Io passai la notte nel mio turno di permanenza all’Assemblea; il 4, vi passai la mattina. — La sera di quel giorno, occupaste anche il Campidoglio. Il 5, Bonaparte mi offre un posto nella sua carrozza: accetto; chè oramai era partire, non fuggire, il mio passaporto è firmato lo stesso giorno alla Polizia, da voi rinnovata. A Civitavecchia vogliono prendermi a bordo del Bulldog, vapore di guerra inglese. Vi rinuncio, per non precorrere i miei colleghi. Poi passo sei mesi a studiare, nel forte di Michelangelo a Civitavecchia. Vogliono farmi fuggire, rapirmi. Io resisto all’invito. Per fermo, io sono il più strano de’ colpevoli. — Signori, a manco di fortuna e felicità, la coscienza ci fa tranquilli e impassibili.
Prima di finire, per mostrarvi in qual modo un vano rumore possa aver corso incredibile, ecco un fatto singolare sul conto mio. Non so se per rendermi odioso o ridicolo, si disse: Cernuschi tempo fa era prete e canonico. Questa ciancia posta in giro diventò in Roma persuasione generale. Se fossero chiamati in proposito testimoni che l’abbiano udito dire, come quelli che assistono a questo processo, se ne avrebbero a centinaia. Ma certo non avrebbero la magia di provare ciò che non è; in parola d’onore, non fui prete mai, di nessun colore.
Mi rimane un solo pensiero ad aggiungere. Signori, non è egli vero che se l’Assemblea Romana avesse firmato una capitolazione, vale a dire la sommissione all’antico regime, la vita e la libertà dei rappresentanti sarebbero state assicurate dal general francese? Ebbene, perchè essendo a Roma, ci ricordammo che a Roma vi è tal cosa ch’è più antica della Santa Sede, la religione, voglio dire, della patria e la potenza del sacrificio, e perchè nulla stipulammo per noi, saremmo meno degni di rispetto?
I Galli antichi, entrando in Roma, furono compresi di venerazione all’aspetto de’ senatori. Non è nostra presunzione di farci simili a quei grandi. Ma infatto noi pure restammo immobili al nostro posto, sino all’estremo. E io vi sono ancora.
Ecco le conclusioni che ho l’onor di deporre in mano al signor Presidente:
Dimando alla vostra giustizia e alla vostra equità di essere assolto interamente.
Dimando alla vostra cortesia una scorta francese per uscire dagli Stati Romani.
Proscritto dall’Austria e dal papa, dimando al vostro animo francese un grano di stima che mi consoli nell’esiglio.
ENRICO CERNUSCHI.
Il Presidente (tenendo in mano le conclusioni esibite dall’accusato). — «Sulla prima conclusione potete essere certo della giustizia ed equità dei vostri giudici. Sulla seconda, debbo dirvi che il Consiglio di Guerra non è competente».
Accusato. — «Ho presentato le mie conclusioni. Il Consiglio di Guerra deciderà».
Il Presidente insiste a fare alcune osservazioni.
Accusato. — «Voi mi dichiarerete innocente; e allora sarete miei naturali protettori. I Francesi ponno scortarmi fuori di Roma. Signori, io sono un animo forte. Della salvezza mia non m’importa. Si compia il mio destino. Ma si tratta della mia considerazione; è questo un altro punto sul quale non transigo; uomo politico, io non vado come un ragazzo a gettar sassi sugli angoli delle strade o a portare stendardi».
Dopo che i giudici si sono consultati a voce bassa:
Pres. — «La vostra sentenza vi sarà nota domani».
Accusato. — «Non credo che vi possa essere dilazione».
Presidente. — «No, ecco le leggi francesi»...
Accusato. — «Lasciate, lasciate, signor Presidente. Non conosco il codice penale francese; e il vostro asserto mi basta; mi rimetto».
Presidente. — «La seduta è levata (ore tre pom.)
Dopo mezz’ora, il capitano relatore invita l’accusato a scendere per tornare a Castel Sant’Angelo.
Accusato. — «Signori ho l’onore».
La piazza della Minerva offre spettacolo imponente. Folla, e silenzio profondo. Gli spettatori sono tenuti a considerevole distanza da piantoni disposti in cerchio. L’accusato sale in carrozza; e dietro lui quattro gendarmi francesi nello stesso calesse; e vari cacciatori nelle vetture seguenti.
L’accusato è ricondotto nel Forte Sant’Angelo in mezzo alla commozione generale.
Il giorno 25 il capitano relatore si reca al Forte Sant’Angelo, e legge all’accusato in piedi, e presenti quattro granatieri sotto le armi, la sentenza di piena assoluzione, ed il ricorso in revisione del Commissario della Repubblica Francese.