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della mia prigionia. Chiarirò al fuoco limpido della verità l’acqua torbida in cui si pescò per inviare informazioni al signor Relatore. Quando avrete inteso quali siano le mie antecedenze, e quale l’indole mia direte: — è impossibile; quest’uomo non può essersi lasciato andare ad atti così insensati e ridicoli.
Vi prometto di non esser prolisso, di evitare ogni allusione spiacente, e di tenermi entro i limiti di quella delicatezza che il luogo e il tempo comandano. Vi ha però una taccia che non è in mia potestà di evitare, quella di lacerar senza modo la lingua di Racine e di Chateaubriand. Per questo invoco l’indulgenza vostra, per tutto il rimanente domando solo la vostra giustizia.
Io sono di Milano; la mia vita politica data dal marzo 1848, da quell’insurrezione, che fece seguito alla vostra rivoluzione francese, signori. Il partito che si spingeva alla rivolta era quello di Carlo Alberto. Ma, scoppiata l’insurrezione, quella setta ebbe paura; si nascose; e trattava con Radetzky. Fu allora che per sottrarre la popolazione al pericolo di essere fucilata ed appiccata in massa, Carlo Cattaneo ed io pigliammo a reggere il combattimento, costituiti con due colleghi in Consiglio di Guerra; impedimmo due volte gl’insidiosi armistizi; si combattè cinque giorni e cinque notti senza riposo. Vincemmo. In quei cinque memorabili giorni, gli ottantamila Austriaci che tenevano l’Italia, furono ridotti a quarantaduemila, e costretti a ricoverarsi nelle fortezze. Non è per vanità che cito questi fatti. È per provarvi che a Milano, come a Roma, io fui sempre disinteressato, prudente, obbediente alle leggi della ragione e dell’umanità. Udite. — Noi trattammo gli Austriaci pri-