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celebre voto del 7 maggio a Parigi; voto, il quale coronò il nostro coraggio non solo, ma ben anco la nostra prudenza. Tutto quanto io dissi dalla tribuna sulla spedizione francese potrebbe citarsi a mia difesa. La precisione ed il buon senso reggevano le mie parole; nè questi modi, mi sia lecito ripeterlo, sono quelli dell’anarchista, dello sventato, del demagogo. Il generale Oudinot persisteva, voleva Roma. Alle sue minaccie l’assemblea rispose per la terza volta deliberando di respingere la forza colla forza. La decisione erasi adottata in comitato segreto, con discussione di più ore. Era il 26 aprile; le tribune pubbliche riaperte. Bonaparte, che per sè opinava di ammettere il presidio francese, come vice-presidente proclama il voto. Lasciate ch’io traduca ancora una volta il nostro Monitore.
— «Cernuschi sale alla tribuna visibilmente commosso. Silenzio profondo».
«Non si parli più, non si discuta più; è deciso che si ha da combattere. Il popolo deciderà che si ha da vincere. Combatteremo e vinceremo. Ma per questo, molte cose sono necessarie, il coraggio non basta; è necessario un grand’ordine. Se c’è momento» — notate questo, o signori — «in cui l’odio al regime clericale debba essere sospeso; il momento è questo. guai a chiunque del popolo facesse atto che potesse sembrare insulto alla religione (vivi applausi alle tribune). Noi diamo un esempio a tutte le assemblee depositarie dell’onor nazionale: fummo calunniati e non lo meritavamo. Noi sapremo morire colle nostre sciarpe (l’oratore mostra la sua in uno stato di commozione straordinaria; l’entusiasmo è al colmo). Il popolo