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direttore e del signor Mercier, diplomatico francese, furono assai urbani, anzi cortesi. — La più forte tra le cose, signori; è la verità.

Altro capo di accusa. Io fo un giro sulla Piazza del Popolo, in carrozza o a piedi, il 3 o il 4 luglio, la mattina o la sera. — Ne convengo; abitava all’estremità del Corso. Signori, qual era tra i soldati francesi che una naturale curiosità non sentisse di vedere i difensori di Roma? Ebbene, io per conforto al mio cordoglio me ne andava a vedere, a guardare anzi i nostri vincitori. Si dice che taluno abbia beffato i Francesi. Da parte mia era ben altro. Era la desolazione, la estenuazione, la febbre. Può egli credersi che un uomo vada con proposito a correre vasta piazza, insultando a battaglioni accampati? Ciò nullameno, voglio spiegare con una semplice similitudine, l’arcano della sommossa; tuttochè ne rimanga interamente scevro in seguito alle testimonianze invocate dall’accusa.

Imaginate un teatro qualsiasi. Si alza il sipario; lo spettacolo non piace; si mormora, si fischia. È cospirazione? No, di certo. È la natura. — Ma che più? Siede in platea un autor drammatico, il signor Dumas od il signor Scribe. Tutti si rivolgono a lui. Taluno può esser propenso a crederlo il promotore della disapprovazione; ma la cosa è ben altra, giacchè gli uomini superiori sanno rispettare sè medesimi.

Il signor Commissario della Repubblica vi ha detto, che segnalandomi io stesso come autore del decreto che faceva cessare la difesa, riconobbi d’aver prestato l’assenso mio alle convenzioni cogli assedianti. Signori, nessuna convenzione ebbe luogo. Il decreto dell’Assemblea era un atto interno; noi dicemmo a noi stessi: