Della educazione letteraria della donna
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DELLA
EDUCAZIONE LETTERARIA DELLA DONNA
DISCORSO
letto da
LUIGI MERCANTINI
il 10 dicembre 1834
NEL COLLEGIO ITALIANO DELLE FANCIULLE
Se io considero che, quasi appena venuto, debba presentarmi a voi, o gentili Signori, in quest’aula medesima dove da quattro anni voi siete usati di convenire per rallegrarvi e nelle belle prove che queste elette fanciulle han dato del loro amore agli studi, e ne’ premi che seguitarono alle loro dolci fatiche, e nelle sapienti parole onde il mio chiarissimo antecessore1 o altri egregi solevano accompagnarli; io vi confesso che mi sento sì grandemente onorato da dimenticare in quest’ ora di consolazione quasi tutti i dolori che si possano sostenere nel tempo della sventura. Gelosa, è vero, e difficile è l’impresa a cui io sono chiamato; ed è così santo l’ufficio di educare all’amor del Vero e del Bello queste vergini anime, che, ov’io guardassi solo alle forze mie, dovrei accusare me stesso di soverchia temerità per averlo accettato. Ma perchè desidero anch’io di spendere questa mia vita accompagnandomi sempre con chi sinceramente adoperi al bene del nostro paese, m’infingerei se vi dicessi che io non godo dentro di me della fiducia onde mi si dà sì bel segno, anche per l’onore che in qualche guisa ne viene a questo nome di esule che io mi glorio di portare e alla cagione che ci tien lungi dal luogo dove si è nati e cresciuti. E poi, a tutto ciò ch’è Bello corre naturalmente e s’innamora l’anima umana: e quanto è bello vedersi d’intorno queste fanciulle che sono gli amori più santi di genitori affettuosi, le benedizioni più care che dalla mano di Dio sieno discese dentro alle case loro; e poter dire a sè stesso — Tu cooperi all’educazione di questi giovani cuori! e se un giorno, tra la novella generazione che dalla Sicilia alle Alpi noi vedrem sorgere, conosciuti nomi di spose e di madri sentirai correre di bocca in bocca quasi esempio di femminile virtù, non godrai tu allora, e non ricorderai, lagrimando di tenerezza, questo luogo, queste fanciulle, quest’ora? — Con lieto animo adunque, e fortemente sperando, io mi pongo all’opera, o Signori; e mi è dolce che mi si porga questa occasione per significarlo a voi. Chi regge con tanto affetto il femminile Istituto ha desiderato che io vi parlassi oggi per dirvi, che, se l’andato anno scolastico non si chiudeva nel suo ultimo mese con la usata solennità di esami e di premi, a tutt’altra cagione se ne debbe apporre la colpa che alla volontà di chi dirige o insegna o studia. La funesta cagione voi la sapete, sì che io mi tengo dal nominarla; nè vuo’ turbare in maniera alcuna il conforto che voi provate noverando ad una ad una queste fanciulle e vedendo come, in fuori di quelle che pei forniti studi rimasero alle case loro, tutte sieno qui ritornate con la giocondità della salute sui volti, portando anzi con sè uno stuolo di novelle amiche e compagne. Ed esse per bocca mia vi promettono oggi, che anche in quest’ anno con tutto il loro potere studierannosi di riporre nell1 intelletto e nel cuore un tesoro di pensieri e di affetti; affinchè poi veggiate come apparecchinsi qui ad entrare nella vita per sostenerne con eguale animo le gioie e i dolori: ed io spero che da nessuna rea cagione saran di nuovo turbate o interrotte sul meglio le fatiche loro, anche perchè da questo colle, che si leva ridentissimo su la vostra bella città, le affettuose fanciulle, quasi come da un altare, leveranno ognidì coi primi pensieri una preghiera dolcissima a quel Dio che risponde sempre alle dimande degl’innocenti. E qui, avendo io adempiuto l’assegnatomi incarico, potrei far fine al mio dire, se non che, per legge almeno di cortesia, io sento di dovermi ancora un poco intrattenere con voi; e non sarà inopportuno che aggiunga alcune altre parole dalle quali possiate almeno io qualche guisa vedere nell’animo mio. E immaginerò di conversare con voi così all’amichevole; perchè, secondo il tempo concedutomi, io non posso presentarmi a voi con la gravità di erudito e sentenzioso oratore, ma posso certamente parlarvi con la sincerità di un uomo che, per amore del vero, niente altro dice se non quello che ha nel cuore.
Ed entrando subito nel proposito vi dirò, che ho più volte meravigliato meco medesimo, udendo o leggendo come questi eletti studi, a cui si vanno ora educando le fanciulle, sieno tenuti in conto di nulla più che un bell’ ornamento. Falso giudizio! io dico invece che gli studi fanno vera bellezza perchè fanno vera bontà; e la vera bellezza, senz’altro aiuto, si fa ornamento di sè medesima. Ponete pure i più vistosi fiori, le più lucide gemme e le più ricche e preziose robe intorno a un viso sgrignuto o ad una sbilenca persona, non però chi le porta se ne farà piacente a chi guarda; e così se le fanciulle si ponessero agli studi con lo stesso fine con cui le vanerelle infelici si affaccendano allo specchio, gli studi sarebbero a quelle ciò che a queste gli ori e i cincinni. Nel fine adunque che le agiate fanciulle hannosi a proporre, quando i diligenti genitori le pongono ad eletti studi, v’è qualche cosa di più che non il poter dire — Io so di francese, di tedesco e d’inglese, io i più bei luoghi di Dante, di Petrarca e di Tasso; io scrivo gentili e forbite letterine, io novelle e canzoni; io so le origini e le leggi che governano l’universo, io i nomi di tutti i mari, di tutti i fiumi, di tutti i monti, di tutte le città, e i costumi di tutti i popoli, e suonare e cantare e dipingere....! — Io non esagero, o Signori, come cose affatto disgiunte dalla felicità della famiglia e della patria noi siamo comunemente avvezzi a riguardare tutte queste attitudini nella donna, come cose insomma che o sia superfluo lo averle, o, avendole, s’abbian solo a godere per inganno del tempo o dell’ozio. Ma in verità sono alquanto da scusare le false opinioni che intorno a ciò si hanno nell’universale, ove si ponga mente al modo con cui, infuori di pochi onesti, adempiono l’ufficio loro quanti coltivan lettere e scienze, perchè in luogo di esser queste veramente e solamente esercitate al trionfo del vero e del buono, e ad ingentilire e nobilitare i cuori e i costumi degli uomini, servono le più volte o alla pazza boria o alla viltà o all’avidità o all’ipocrisia di chi si avvisa che tutti i più belli ed utili studi abbisognino del nome suo per essere avuti in onore, o di chi pensieri e parole gitta a piè dei potenti siccome creta da esser foggiata secondo che questi mostrano il dente o la borsa, o di chi, più sciagurato! fa parer bello e vero al popolo ciò ch’è più laido e più falso, e finge intanto amore degli uomini e carità della patria.
Or bene! e vorrai tu adunque, dirà alcuno, che la donna, destinata da natura alle cure domestiche e ad allevare la famiglia, si faccia essa maestra agli uomini nel vero ufficio delle lettere e delle scienze? e, lasciando le masserizie, l’ago e la cuna, dovrà la donna farsi essa dispensatrice di sapienza al popolo, e dettando storie, orazioni e poemi fare odioso alle genti il vizio, e belle e gloriose la verità e la virtù?
Queste meraviglie sarà toccato anche a voi, o Signori, di udirle fare talvolta a coloro cui sembra quasi contro a natura che le donne, non lasciando di occuparsi in quei lavori che son propri solo di esse, consacrino ai buoni studi quelle ore, che non si hanno poi per così perdute se sien passate in sazievoli leziosaggini, o in velenose letture o nel beato far niente. So anch’io che quando un santo ed utile fine non si prefigga alla loro letteraria educazione, le donne, non altrimenti che gli uomini, si fan saccentuzze e ciarliere e ad ogni tratto ti spiegano innanzi i tesori della loro sapienza con la stessa vanità con cui quella matrona di Capua mostrava i suoi giojelli a Cornelia che invece le mostrava i suoi figli. Ma questa vanità da che altro viene se non dal giudizio appunto che le donne stesse odono farsi tutto il dì della coltura del loro spirito, ch’è le più volte avuta in ischerno dagli uomini, e tanto più se a questi metta il brivido nell’ossa la sola vista di un libro? E poichè a caso mi è venuto al labbro il nome di Cornelia, io mi affretto a credere, o Signori, che voi avrete bene inteso che cosa debba finalmente operare nelle mani della donna questo istrumento dei buoni studi, e a qual fine debba esser rivolto tutto il buono e il bello in cui ella avrà incominciato ad innamorarsi fin dalla tenera età. Il primo bacio, il primo sorriso che noi abbiamo scambiato, la prima parola che ci è suonata all’orecchio e che abbiamo imparato a ripetere, tutto ci fu dato, tutto ci fu insegnato la prima volta dalla madre. Beato chi onoratamente vivendo si può ricordare con orgoglio della madre sua!
Ma innanzi che io particolarmente ragioni di questo precipuo fine a cui si volge, siccome a centro, tutta l’educazione intellettuale e morale della donna fin dalla prima età, mi è forza di accennare almen di volo, chè più non potrei, com’ella incominci anche prima la sua santa opera di educatrice, acquistando forza e gentilezza all’ufficio dai giovanili suoi studi; conciossiachè non possa educar gli altri chi prima non abbia educato sè stesso. E perocché io parlerò solo delle condizioni in cui più naturalmente è posta la donna, non vuo’ che s’abbia a tenere siccome un segno di riprovazione il mio silenzio intorno a quelle donne che meglio aman talora di rimanersi tranquille dentro alle case paterne, o a sostegno de’ vecchi genitori o ad altri simiglianti pietosi ed utili uffici; chè anzi a queste, cred’io, di molti conforti potranno esser cagione gli eletti studi: ma torniamo al proposito.
La donna, tutti dicono (e con sentenza forse troppo assoluta), si è tanto col cristianesimo levata in alto quanto era prima dal paganesimo tenuta in basso: chè in lei, non vedeva il pagano più in là del bel viso e della bella persona, e gli schiavi stessi poco aveano talora ad invidiarle: e se alcuna volta i poeti la fecero soggetto dei loro canti, in questi suonava tutt’altro che l’inno dell’anima umana ispirata alla santità della virtù nel raggio della bellezza, la quale per vero non poteva a quei dì essere scala a’ celesti pensieri, perocché i più belli esempi di virtù non venisser certo alla donna dalle femminili divinità. Ma con la religione del Cristo fatta veramente divina nei nomi di sposa e di madre, e incoronata della luce del martirio morendo per la novella sua fede, si trasforma la donna in una creatura tutta nuova, e si danno agli Angeli le sue dilicate sembianze; e, a far meravigliare le genti nella bellezza delle Arti, in lei s’ispirano scultori e pittori e poeti,
Ma per isventura, se per poco abbasso lo sguardo da quei primi splendori della Religione e delle Arti, io m’avveggo che per molte ragioni noi siamo tornati ad esser pagani; perchè tra le imagini false del bene che noi veniamo tuttodì seguitando, e’ non parmi ultima questa che le giovani donne siano dai più avute in pregio solamente o per bellezza di corpo, o per leggiadrìa di maniere, e più sovente per ricchezza di dote. Di che se si accorgesse la donna, in luogo di piacersene e d’inorgoglire, n’avrebbe onta e disdegno; come se queste cose soltanto valessero per se medesime a farle onore. Nell’educazione adunque dell’intelletto e del cuore e nell’avvezzarsi insino da’ primi anni a conoscere che sol nel vero e nel buono sta il bello, apprenderanno le fanciulle innanzi tutto ad onorare ed estimar se medesime: e poichè gli studi letterari a niun altro fine son volti che ad innamorare gli animi nel vero e nel buono abbellito di sua stessa bellezza; nell’anima ingenua della fanciulla la quale, senza questo, appunto come
si va facendo un segreto lavoro, per cui le fanciulle di giorno in giorno sempre notando come non sia veramente bello se non ciò ch’è buono, e che senza questo il bello è inganno è larva; quando verranno entrando nello strepito della vita, e vedranno intorno a sè crescere i sorrisi, le carezze, gli auguri, la festa del mondo, sentiranno dentro al cuore la voce dell’anima santamente educata all’amor del vero che dirà loro — sta in guardia — e s’elleno avranno una volta trionfato di queste vane e dannose lusinghe, si rideranno poi di chi accarezza le più volte per uccidere: e la bellezza della donna, che ha coscienza di sè medesima, passando infra le genti sarà guardata siccome luce dell’anima, si farà ispiratrice di alti sensi e talora di magnanimi fatti, e nemmeno i più corrotti o protervi oseranno affisare in lei, perchè la vera bellezza è spavento all’audacia siccome al vizio la virtù. Con questo senso nell’anima il primo e più gran poeta, non che di nostra nazione, dell’incivilimento cristiano cantava della bellezza della sua Beatrice:
Ogni lingua divien tremando muta
E gli occhi non ardiscon di guardare.
E una cosa venuta di cielo dovette certo parere a lui la bellezza della sua donna, perchè senza Beatrice noi non avremmo forse quel maraviglioso poema che fa una delle prime glorie d’Italia.
Ma ragionando io di bellezza propriamente detta, non vuo’ già si creda che intenda solo di parlare di quelle donne che si presentano al mondo con questo singolar beneficio della natura: il fiore degli anni sempre olezza e ride gratissimo, e la viola, perchè più umile, non però è men cara della rosa; e così, finchè dura il sorriso della giovinezza, le fanciulle attirano qual più qual meno gli sguardi di chi le incontra, e tutte sono ugualmente circondate dagli stessi pericoli. Contro i quali poi è più necessario che diligentemente si guardino quante nascono di agiate famiglie: chè mentre ogni cuore bennato si congratula oggi di vedere che anche all’educazione della figlia del popolano in questa parte d’Italia per qualche modo si vien provvedendo, molta lode si dee a quelle famiglie che più favorite da fortuna affidano le loro fanciulle a chi si mette nel geloso ufficio di educarle in quegli studi per cui esse si faranno le prime educatrici alle generazioni novelle; e soltanto sono da compiangere in Italia quelle giovinette che per mal intesa rigidezza o sono cresciute digiune di ogni cultura, contente solo di non esser losche o bistorte o di sapere che nello scrigno paterno v’ha un buon mucchio d’oro per esse; o se apprendono qualche gentilezza, questa è solo nel saper dipingere qualche fiore, suonare una fantasia al gravicembalo, ricamare una ventola, o balbettare qualche parolina francese non sapendo un jota d’italiano; e più poi quelle che, dai primi anni fino all’ora di andarne a marito, sono affidate, per apparecchiarsi a vivere con lo sposo e coi figli, a chi, volente o no, se ne fuggì dal civile consorzio per non divenir mai appunto nè sposa nè madre.
Sposa e madre! che belli e santi nomi sono questi! due nomi che primi risuonano di tutto l’amore di Dio per gli uomini nelle due più grandi opere che noi conosciamo di lui, la Creazione e la Redenzione; due nomi che appena pronunziati risvegliano dentro il cuore dell’uomo una melodìa di affetti soavissimi , come alla prima nota di mattutino augello dentro alla selva, tutti gli altri rispondono di ramo in ramo. Ma tuttavia in molti cuori non si risvegliano questi affetti, e quei nomi anzichè gioia suonan talvolta dolore! le fidanzate così gioiose del loro avvenire, tutto ad un tratto avvedute della malvagia lusinga, o si abbandonan dell’animo, o si rifuggon pei chiostri, o si muoion di angoscia: e talora le case a’ primi dì delle nozze così festeggianti di amore, dopo breve tempo si fanno squallide e mute, o rimbomban solo di maledizioni e di pianti; se pure non vi accorra, quasi ad aiuto, la guasta civiltà che di eleganti nomi aggentilisce la corruttela. Io parlo per ver dire, e giovi anzi il poterlo dire altamente: della corruttela soltanto si alimenta la tirannide, e tutte e due si danno la mano alla schiavitù delle nazioni! Ed è perciò che noi italiani saremo veramente liberi e avremo una Patria, sol quando le madri ci daranno figli che sappiano e meritino di esser liberi; e questi figli nasceranno tali quando le loro madri abbiano cominciato da fanciulle a sentire il mandato ch’esse hanno da Dio e dalla Patria: e questi figli nasceranno!
In questo pensiero io mi consolo, perchè le fanciulle educate al Buono ed al Bello negli studi quando saranno in età da doversi porre al fianco dell’uomo che le accompagnerà in questo viaggio della vita, guarderanno bene prima se l’anima del futuro compagno consuoni con la loro nel culto della Verità e della Virtù, e così saranno cagione che anche i giovani, se vogliono esser degni di siffatte consolazioni, occuperanno l’ingegno ed il cuore in più alte e nobili cose che talora non fanno. Il più bel premio che i nostri antichi padri italiani davano a’ più virtuosi e forti giovani, era lo scegliersi una compagna tra le più belle e virtuose fanciulle della loro terra; minacciandoli di ritoglierla loro ogni volta che si fossero mostrati indegni del nome e della grandezza latina: e quelli eran pagani. Nè già vuo’ dire che non vi sieno anche oggi moltissimi fra’ giovani nostri che non contenti a’ beni della fortuna, si studiano di arricchire anche di quelli cui nessuna violenza può togliere; ma ve n’ha tuttavia di altri moltissimi per cui il tempo è sinonimo di ozio; e da costoro la patria non si dee aspettare che nulla o peggio. E sarebbe quasi a desiderare che questi fossero puniti di loro ignavia all’antica usanza latina; e ciò avverrà di leggieri e naturalmente, quando le fanciulle, ammaestrate a ben discernere il vero dal falso, trarranno uno de’ più bei frutti da’ loro studi nel dare il loro cuore soltanto a chi sarà veramente degno di accrescere una famiglia nuova all’Italia: nè sarà stato indarno ad esse l’aver sentito cantare da uno de’ più potenti e perciò più sventurati ingegni italiani:
O verginette, a voi
Chi de’ perigli è schivo e quei che indegno
È della patria e che sue brame e suoi
Volgari affetti in basso loco pose,
Odio mova e disdegno.
E per conseguente a que’ giovani che si faran loro dinanzi col solo ed unico pregio d’un titolo, o d’un patrimonio, o de’ più voluttuosi profumi, o di un arsenale di ciondoli all’oriuolo, e anche delle più acute e lucide unghie, sorrideranno, cred’io, di compassione; e glorierannosi invece di porgere la mano a quelli che il nome e la ricchezza bene usino ad onore della città e della patria o che a giovare il paese con gli scritti, coi consigli e con le opere si saranno educati a forti e nobili studi o addestrati a trattare cavallo e spada, e certamente a più nobile prova che non sono le vane mostre o i combattimenti da barbari. E poichè, non ha molto, mi venne per avventura all’orecchio che una savia e gentile donzella, educata in questo collegio, è vicina a giurare la sua fede di sposa a un prode cavaliero che su le pianure lombarde colse di gloriose ferite, io le mando insin di qua tutti i più gentili augùri che si possan fare alia sposa di un valoroso giovane italiano.
Quando così le fanciulle dalle mani del padre e della madre passano in quelle dell’uomo con cui si confidano di vivere onorate e tranquille, la famiglia si fa veramente la più invidiata beatitudine che si possa avere quaggiù, e le genti fioriscono e si riposano; e il mondo non sembra più alla fine quella valle di lagrime, che noi con la nostra viltà facciamo più sempre spinosa e fangosa. Ed ecco la donna che, appena sentendosi madre, si avvede di essere diventata quasi la più nobile parte di sua nazione, conciossiachè questa tenga gli occhi in lei per vedere, com’ella sappia crescere i figli, a cui la generazione che passa lascia in custodia tutte le glorie degli avi e questa bellissima terra, che fino con la grandezza delle sue sventure fa vergognare chi ne bee l’aura e la luce, se l’anima sua non somigli in bellezza ai fiori e alle stelle che le sorridono. E non potendo io per disteso accennare almeno per quante ragioni è vero, che la madre ha in sè la potenza di crescere i figli alla gloria o all’ignavia, mi contenterò di guardare la madre quando ella tutta inchinata sul suo lattante senza batter palpebra lo affisa, aspettando ch’egli la prima volta alzi inverso lei con le picciole mani un sorriso e la chiami col nome di madre! Oh! questa dev’esser certo una di quelle misteriose voluttà che si provano talora in terra, e, quasi a conforto di anni ed anni di dolori, durano un attimo e bastano; perchè in quell’attimo solo la madre vede tutto l’avvenire del suo pargoletto e lo vede bello e ridente, perchè bello e ridente essa il vuole, e sulla fiorita via che ha dinanzi accompagna e segue sempre affannosa il figliuol suo, insino al punto in cui ella si riposa e si addorme, contenta di lasciarlo felice. Ma poi riavuta da quel baleno di estasi, si guarda intorno, e vede che molte madri così orgogliose un tempo de’ loro fanciulli, da cui si aspettavan gioia ed onore, piangon talora e si lamentano con sè medesime della mal conceputa speranza; ed ella teme allora che il medesimo incontri anche a lei, e pensa e studia le maniere per cui quella gioia non le si abbia a mutar giammai in tristezza.
Di che avviene, che alcune madri, non ammaestrate a conoscere in che stia veramente la felicità, si avvisano di adempiere in tutto all’ufficio loro e di aversi ad aspettare ogni consolazione dai figli, sol quando nulla manchi ad ogni loro vogliuzza, o che appariscano in pubblico in tutta eleganza di arnesi infantili, o che ancor grandicelli tutto il dì passino fra balocchi e ninnoli: nè di virtù loro si parla se non quando sonnecchianti si adagiano o se ne lascia ad altri la cura; e così i figli crescono senza amore agli studi che non conoscono, contenti degli agi che hanno o di quelli che aspettano; e se tra essi v’ha chi si pone o all’altare o al foro o alle armi o a’ negozi o a’ magistrati, le madri ne godono in sè stesse, ma per null’altro se non perchè veggono in essi la mantelletta o la mitra o la spallina o la toga o il nastro o il forziero.
Ma non avverrà così alle madri che innamorate alla bellezza della virtù nei buoni studi, oltre alla sanità e alla gentilezza della persona educheranno nei loro fanciulli anche il cuore; conciossiachè gli studi letterari abbiano potenza d’ingentilire la virtù, e di farne gustare quelle dolcezze che non si diffondon nell’anima, se non quando la virtù è insegnata con quegli esempi e con quelle forme del Bello onde gli scrittori e gli artisti fecero amabili e facili agli uomini i dettati della sapienza, incarnandoli ne’ più grandi e nobili fatti pe’ quali soltanto l’uomo può dire di portare in sè l’immagine e la somiglianza di Dio. E discendendo dalla bocca della madre queste prime lezioni di amorosa sapienza con la luce della Bellezza dentro il cuore del figlio, questo cuore si apre soltanto a tuttociò ch’è veramente Bellezza e Virtù; e così come il corpo vien crescendo di forza, cresce con esso, sotto il vigile occhio materno, la forza dell’anima, la quale, non potendo mai invecchiare quando è volta al sole della verità, anche quando i capelli s’imbiancano e le membra tremano per vecchiezza, è sempre giovane immutabile e salda; ed è allora soltanto che i santi e veri princìpi trionfano, e l’Umanità si fa veramente signora dell’Universo.
Per la signoria così acquistata sul figlio, la madre rimane sempre la prima e più cara imagine che sta continuo qua fissa nel cuore dell’uomo dabbene anche provetto, tanto che è impossibile quasi ch’egli faccia mai cosa che possa in qualche modo turbare il riposo delle ossa materne. Quindi è che solo nella santità della vita e nell’amore del popolo si glorierà il sacerdote cui sua madre, prima d’ogni altro, avrà detto: — Se tu non farai quello che leggi nell’Evangelio, quel libro sarà la tua condanna! — E solo nelle ferite riportate per la patria il soldato cui sua madre avrà detto: — Spezzerai la tua spada anzichè tuffarla nel sangue del popolo per l’ebbrezza della tirannide! — E così in atto di rimprovero la materna imagine starà innanzi agli occhi del filosofo che per viltà o per ambizione sagrificasse la Verità alla Forza; o al poeta il quale, anzichè cantare le sventure e le glorie di sua nazione, ne ammollisse o corrompesse gli animi, stendendo tutte e due le mani alla borsa e neppure un dito all’alloro.
Il cuore adunque il cuore innanzi lutto bisogna formare nei fanciulli; ed è appunto questa oggi la prima e più potente cagione de’ nostri mali, il difetto di cuore negli uomini. Dura cosa a pensare, che in questa terra dove hanno sempre battuto tanti nobili cuori, dove noi dal sentimento del Bello siamo educati all’affetto, e dalla potenza dell’ingegno all’altezza della Virtù, e dalla sventura di secoli alla scuola della carità di fratelli, dove tante migliaia di giovani morirono di carnefice con questa patria nel cuore da Crescenzio a chi morrà forse oggi o domani, dura cosa a pensare, che, a dispetto quasi della natura e delle glorie e dei martirii nostri, non sieno tanti oggi in Italia che, avendo un cuore educato alla bellezza della Virtù, si accordino tutti in un solo affetto e in un solo pensiero per far sentire finalmente la nostra potenza! Pochi, è vero, sono i privilegiati dal cielo di un cuore che quasi per naturale istinto sia portato a sentire la bellezza del bene; tuttavia là dove manchi la spontanea natura, accorre in aiuto l’educazione che nobilita anch’essa le anime, ma se non incomincia a informare di sè il cuore quando è ancor tenero, e non adopera tutti quegli argomenti che sono suggeriti dalla gentilezza della virtù, le indoli si fanno o restie o false, o piegano al bene per metà, pronte sempre a ritorcersi al male appena ne sieno allettate; e di qui gli uomini o ambigui, o ipocriti o mutabili o nulli o pessimi.
Veggano pertanto le madri, come, e certo senza che il vogliano, sieno esse cagione in gran parte di questo danno, perchè essendo le prime ad aver questo cuore fra mani, gli affetti che poi vi batteranno per tutta la vita saranno o nobili o ignobili secondo che lo avranno piegato al bene o al male; e le azioni dell’uomo, com'esso viene crescendo in età, quasi le imagini sotto il pennello dell’artista, prenderanno colore e bellezza e vita, sol quando la mano esperta e sicura della madre gliele avrà prima disegnate nel fondo dell’anima.
E se io non fossi stretto dal tempo e non temessi di abusare la gentilezza vostra, o Signori, vorrei ben dirvi per quante altre ragioni all’educazione dei figli è necessario che la donna sia educata da fanciulla alla bellezza del Vero e del Buono ne’ più eletti studi; perchè, venendo a’ più minuti particolari, potrei dirvi come la madre, iniziando il figlio a quelle scuole in cui dovrà entrare, agevolerebbe, per quanto è da lei, le difficoltà che s’incontrano nel volere che fin dai primi elementi s’insegnino tante cose che date tutte ad un tempo sono, a parer mio, un po’ troppe. Solo dirò, che dovendo essa fuor d’ogni dubbio esser la prima a insegnare a parlare al flgliuol suo, una utilità grandissima ne verrà alla lingua e alla nazione insieme, se ella sarà stata ammaestrata sin da’ primi anni suoi a ben parlare e scrivere nell’ingenua e cara bellezza del nostro idioma. Grave insulto, ingratitudine anzi da non comportare si è che questa lingua bellissima, nata col più gran poema che possan vantare le moderne nazioni, e che è stata infin qui il solo vincolo che in qualche unità di famiglia ha stretto venticinque milioni d’italiani, sia oggi dai più così villanamente bistrattata e sformata, che talora, leggendo le nostre scritture, ci convien dubitare se queste escano dalle penne di stranieri che si affatichino di scrivere italianamente.
Ogni volta che io m’avvengo oggi a udire un fanciullo parlare nitido e corretto la nostra lingua, io chieggo a me medesimo — Nella stessa guisa in cui questo fanciullo è ammaestrato dalla madre sua a significare i desiderii e gli affetti primi del cuore nella lingua di nostra nazione, e nol potrebbero essere quanti fanciulli sorridono oggi fra le braccia materne dal pie’ delle Alpi all’estrema punta della Sicilia? e se ciò fosse, non potremmo noi fra pochi anni parlare tutti uno stesso linguaggio e intenderci un po’ meglio fra noi? e se ogni madre pensasse a questo non sarebbe lieta di poter dire a sè medesima: io con sì lieve fatica ho cooperato alla concordia e alla gloria di mia nazione? e quelle madri che qua e là per Italia o s’odono parlare il solo dialetto, o, quando la gentilezza del conversare il richiegga, cinguettano un male imparato francese, non ismetterebbero la brutta usanza per cui pare che rifiutino tanta nostrale ricchezza di favella? Non dico già io che s’abbia a lasciare lo studio delle lingue forastiere; dico che in casa nostra dobbiamo parlare la nostra lingua, perchè non ho mai udito a dire che le donne francesi parlino fra loro in italiano, e fanno bene, e noi faremo benissimo ad imitarle. Oltredichè io credo ancora che queste ridevoli gare di pedanti e di licenziosi finirebber pure una volta; perchè non istudiandosi più la lingua solamente come cosa affatto nuova, ove questa bene si parli, a meglio anche scriverla, si farà più agevole l'ingentilirla con l’assiduo e ben ordinato studio dei nostri grandi antichi e moderni; e così le nostre scritture non avrebbero più nè quella misera grettezza per cui pare che taluni ci vorrian quasi far parlare coi modi di Fra Guittone, nè quella sozza licenza, che lo sdegnoso Alighieri farebbe costar cara a chi vi si gitta, se per poco tornasse fra noi. E così, tra per l’opera delle madri, onde l’Italiano che nasce in Sicilia parlerebbe la stessa lingua dell’Italiano che nasce in Piemonte, tra per questo miracol nuovo di vie che una volta condotte dall’uno all’altro estremo, per ravvicinarci finalmente tutti, vincerebbero con la potenza dell’Arte la bizzarria della Natura; queste antiche divisioni onde siamo tanto scherniti da chi più se ne avvantaggia, forse in parte si toglierebbero. E almeno allora sapendo finalmente le madri che cosa voglia dire questo nome di Patria, tenuto oggi da alcuni come una curiosità, come una moda; non ci si potrebbe più rimproverare che questo amore di Patria — empie a mille la bocca a dieci il petto — perchè una volta bevuto col latte, e imparato a venerare e ad amare insieme col nome di Dio, non sarà più nè insultato, nè calunniato, nè trafficato, nè tradito, nè insanguinato; e i figliuoli di questa terra conosceranno che l’essere amanti della loro patria vuol dire essere onesti, virtuosi, valorosi, gentili, grandi insomma: e se forastieri o nostrali vorranno solo spaventarci d’un’insidia o d’una minaccia, noi, per punirli di loro protervia, non ci faremo armi di basse contumelie, ma ci basterà saper dire il vero così com’egli è, assai terribile di sua nobiltà; e in luogo di roderci e di straziarci fra noi, ci ricorderemo, senza millanteria, dell’antico valore latino. Oh! se cinque o sei lustri addietro la metà almeno delle donne nostre avessero potuto sentir questo nel cuore...!
Ma torciamo, se si può, lo sguardo dagli errori del passato e dalle funeste imagini del presente, e guardiamo invece nell’avvenire: e l’avvenire chi ’l sa? è vero! questo tuttavia sappiamo che l’avvenire sta in noi: anche le illusioni sono funeste, ed io ’l concedo; ma ove queste illusioni comincino a diventare speranze, allora debbon esser care al cuor nostro. Intanto in questo luogo, ove noi siamo ora adunati, tutto ci parla di giorni migliori che verranno, e queste fanciulle, che portano con sè l’avvenire, c’invitano a sperare: e noi non saremo certo così scortesi da rifiutare l’augurio di questi cuori!
Le mie parole sono state infin qui alquanto aspre forse, ma vere; perchè ho detto cose che tutti sanno, nè ho fatto che raccorre in uno i desideri che ogni dì s’odono per le bocche dei buoni, e che tutti si stringono in questo motto — Bisogna educare. — Non basta il poter dire che in Italia non sono poi tutte le famiglie in cui i figli non sieno educati al bene; è maggiormente necessario che non si dica più che ve ne ha molte in cui sono educati al male: e nemmeno giova il contrapporre che anche senza questa novità di letteraria educazione femminile noi tuttavia siamo venuti infin qui; come ci siamo venuti ognuno sel vede: e il desiderio onesto e sincero del meglio non dee recar nessuna offesa a quelle madri che, ammaestrate soltanto dal proprio cuore, abbiano allevato o allevino i loro figliuoli per la via della virtù e dell’onore. Gloria a queste madri! Ma noi dobbiamo desiderare che per questo riguardo nessun rimprovero s’abbia a fare all’Italia, perchè sarebbe troppo doloroso che questa nazione che già diede la civiltà ad altre genti, corresse oggi pericolo di non saperla mantenere per sè medesima: ed è però che quel giorno in cui per tutte le città italiane le fanciulle saranno educate al Buono e al Bello negli studi, noi potremo prometterci che quel rimprovero si farà muto. Che se tuttavia fra tante sventure e fra tante divisioni noi vediamo che in Italia penuria di belle anime non fu mai, lascio immaginare a voi, o Signori, che gentile nazione sarà la nostra, quando ci saremo stancati di far puntello alla tirannide con la nostra ignoranza. Quello poi, che avrebbero a fare i padri per l’educazione dei figli, sarebbe soggetto di più lunghe e severe parole; e le madri vedrebbero che solo una parte di questa educazione è ad esse affidata: e non dissi nulla di ciò che particolarmente è loro debito inverso le fanciulle, perchè ho creduto più necessario distendermi in ciò che si crede meno possibile alle madri. E se io mi sono unicamente fermato nella necessità in cui siamo di vedere oggi educate le fanciulle italiane agli studi, non ho inteso di dire che non sieno di continuo esercitate in quei lavori che si addicon solo alla donna; v’ha tempo a tutto sol che si voglia, e non è certo a futura pompa di dottrina che le fanciulle s’hanno a dare agli studi: se v’ha tra esse alcuna che per potenza d’ingegno e di cuore prometta di onorare e giovare un giorno le nostre lettere e la nostra patria, e questa sarà gran ventura; ma il precipuo fine della letteraria educazione per tutte si è ch’esse educhinsi per poi meglio educare. Può dar bei frutti la buona pianta quantunque cresciuta in luogo inculto; ma li dà più saporosi e più belli, ove sia cresciuta in ben coltivato e ben guardato terreno. Solo amore adunque della nostra patria comune ha mosso le mie parole, ed io ho parlato come se tutte le donne d’Italia fossero qui ad ascoltarmi. Questo è certo che io ho parlato quasi ad una piccola assemblea in cui sieno rappresentate tutte le fanciulle italiane; perchè, se io mal non mi appongo, non è provincia italiana che non abbia in questo collegio qualche fanciulla: sì che guardando in voi, o giovinette, è una gran dolcezza il pensare che voi potete parere in qualche guisa il simbolo della futura concordia di nostra nazione!
Un geloso mandato da adempiere voi pertanto avete, gentili fanciulle: e, se io bene argomento dai primi segni che mi avete dato in questi pochi giorni che ho incominciato, a sedere in iscuola fra voi, potrei quasi affermare sin da ora che voi l’adempierete con lode. Ma stiavi bene a mente, che una promessa ho io fatto in nome vostro a questi egregi Signori fin dal principio del mio ragionamento; e quello, che ho promesso io, si aspetta a voi di attenere; ed io non ne dubito. Se studierete con quell’affetto, senza il quale ho mostrato riuscire inutile ogni coltura, voi farete la gioia dei genitori vostri, e di chi vi ha educato alla virtù negli studi, e l’onore della patria e la felicità di voi medesime: e anch’io non avrò oggi parlato indarno, perchè queste mie parole hanno, è vero, inaugurato gli studi e si sono rivolte a questa fioritissima adunanza di cittadini; ma io le ho dette principalmente per voi. E, come verrete crescendo negli anni, forse ciascuna di queste mie parole tornerà a risuonarvi nel cuore; e se in quel tempo ancora, come io spero, nuove fanciulle entreranno in questo medesimo luogo ad esservi educate, voi dovete fin da oggi fare in guisa, che quei genitori, che le porteranno allora, entrino qui sicuri della buona riuscita delle loro figliuole, perchè avranno già ammirato la vostra.
Note
- ↑ Prof. Prospero Viani