Critica della ragion pura (1949)/Introduzione
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Traduzione dal tedesco di Giovanni Gentile, Giuseppe Lombardo Radice (1918)
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INTRODUZIONE
I1
Della differenza tra conoscenza pura ed empirica.
Non c’è dubbio che ogni nostra conoscenza incomincia con l’esperienza; da che infatti la nostra facoltà conoscitiva sarebbe altrimenti stimolata al suo esercizio, se ciò non avvenisse per mezzo degli oggetti che colpiscono i nostri sensi, e, per un verso, danno origine da sè a rappresentazioni, per un altro, muovono l’attività del nostro intelletto a paragonare queste rappresentazioni, a riunirle o separarle, e ad elaborare per tal modo la materia greggia delle impressioni sensibili per giungere a quella conoscenza degli oggetti, che chiamasi esperienza? Nel tempo, dunque, nessuna conoscenza in noi precede l’esperienza, e ogni conoscenza comincia con questa.
Ma sebbene ogni nostra conoscenza cominci con l’esperienza, non perciò essa deriva tutta dalla esperienza. Infatti potrebbe esser benissimo che la nostra stessa conoscenza empirica fosse un composto di ciò che noi riceviamo dalle impressioni e di ciò che la nostra propria facoltà di conoscere vi aggiunge da sè (stimolata solamente dalle impressioni sensibili); aggiunta, che noi propriamente non distinguiamo bene da quella materia che ne è il fondamento, se prima un lungo esercizio non ci abbia resi attenti ad essa, e non ci abbia scaltriti alla distinzione.
V’è pertanto almeno una questione, che ha bisogno ancora di essere esaminata più da vicino e che non si può sbrigare subito a prima vista: se cioè si dia una simile conoscenza, indipendente dall’esperienza e dalle stesse impressioni tutte dei sensi. Tali conoscenze son dette a priori e distinte dalle empiriche, che hanno la loro origine a posteriori, cioè nell’esperienza.
Questa espressione intanto non è ancora così precisa da designare adeguatamente tutto il significato della questione proposta. Perchè si deve ben dire di molte conoscenze, derivate da fonti empiriche, che noi ne siamo capaci o partecipi a priori, poichè non le otteniamo immediatamente dall’esperienza, ma da una regola universale che noi tuttavia abbiamo pur ottenuto dalla esperienza. Così di uno che ha scavato le fondamenta della sua casa, si dice che avrebbe potuto sapere a priori che questa sarebbe caduta; cioè, egli non avrebbe dovuto aspettare l’esperienza che crollasse di fatto. Se non che, egli non avrebbe potuto saperlo interamente a priori; perchè, che i corpi sieno pesanti e quindi cadano se si sottraggono loro i sostegni, doveva pure essergli noto già per esperienza.
Noi dunque intenderemo in seguito per conoscenze a priori non conoscenze siffatte che abbian luogo indipendentemente da questa o da quell’esperienza, ma che non dipendano assolutamente da nessuna esperienza. Ad esse son contrapposte le conoscenze empiriche, o tali che sono possibili solo a posteriori, cioè per esperienza. Ma, delle conoscenze a priori, si chiamano pure quelle, cui non è commisto punto nulla di empirico. Ad esempio, la proposizione: «ogni cangiamento ha la sua causa» è sì una proposizione a priori, ma non pura, perchè cangiamento è concetto che può essere ricavato solo dall’esperienza.
II
Si tratta ora di cercare il segno, per cui ci sia dato distinguere con sicurezza una conoscenza pura da una empirica. L’esperienza c’insegna in verità che qualche cosa è fatta in questo o quel modo, ma non che non possa essere altrimenti. Se c’è dunque, in primo luogo, una proposizione che vien pensata insieme con la sua necessità, essa è un giudizio a priori; se, oltre a ciò, la proposizione non deriva se non da un’altra, che essa stessa a sua volta abbia valore di proposizione necessaria, in tal caso è assolutamente a priori. In secondo luogo, l’esperienza non dà mai a’ suoi giudizi una vera e rigorosa universalità, ma solo una universalità supposta e relativa (per induzione), sì che si deve propriamente dire: per quanto sin ad ora abbiamo constatato, non si è trovata eccezione a questo o a quella regola. Se dunque un giudizio è pensato con rigorosa universalità, cioè in guisa da non ammettere come possibile eccezione di sorta, esso non è derivato dall’esperienza, ma vale assolutamente a priori. L’universalità empirica è dunque soltanto un’estensione arbitraria della validità, da ciò che vale nel maggior numero dei casi a ciò che vale in ogni caso, come, per es., nella proposizione: «tutti i corpi sono pesanti». Al contrario, se a un giudizio spetta essenzialmente una universalità rigorosa, allora questa dimostra una particolar fonte di conoscenza, cioè una facoltà della conoscenza a priori. Necessità e vera universalità son dunque i segni distintivi sicuri di una conoscenza a priori; e sono inseparabilmente inerenti l’uno all’altro. Ma, poichè nell’uso di esso è alle volte più facile far vedere nei giudizi la limitazione empirica anzi che la contingenza, o anche riesce qualche volta più evidente mostrare la illimitata universalità che attribuiamo a un giudizio, che non la sua necessità; così è opportuno servirsi separatamente dei detti criteri, ciascuno dei quali per sè è infallibile.
Ora è facile mostrare, che nella conoscenza umana esistono realmente simili giudizi, necessari ed universali nel senso più rigoroso, e quindi puri, a priori. Se si vuole un esempio tolto dalle scienze, non si deve far altro che guardare tutte le proposizioni della matematica; se si vogliono esempi tolti dal più comune uso dell’intelletto, può bastare la proposizione che ogni cangiamento deve avere una causa; anzi, in quest’ultima proposizione, il concetto di necessità, del legame con un effetto e di rigorosa universalità della legge, che esso andrebbe interamente perduto, se lo si volesse derivare, come fece Hume, dal frequente associarsi di ciò che accade con ciò che precede, e da una abitudine che ne deriva (e perciò da una necessità semplicemente soggettiva) di collegare certe rappresentazioni. Si potrebbe anche, senza aver bisogno di simili esempi per trovare la reale esistenza di principii a priori nella nostra conoscenza, dimostrare che essi sono indispensabili per la possibilità della stessa esperienza, e quindi a priori. Perchè, dove l’esperienza stessa cercherebbe mai d’attingere la sua certezza, se tutte le leggi, secondo le quali essa procede, fossero sempre empiriche e però contingenti; e se, per conseguenza, esse non potessero farsi valere come primi principii? Per altro, qui può bastarci di aver esposto come un fatto l’uso puro della nostra facoltà di conoscere insieme coi segni distintivi di esso. Ma non solo nei giudizi, sibbene anche nei concetti, apparisce un’origine a priori d’alcuni di essi. Infatti, se sottraete a poco a poco dal vostro concetto empirico d’un corpo tutto ciò che vi è di empirico, il colore, la durezza, la mollezza, la pesantezza e la stessa impenetrabilità, resta tuttavia lo spazio, che esso (che ora è del tutto svanito) occupava, e che non può essere soppresso. Così, se togliete via dal vostro concetto empirico di ciascun oggetto corporeo o incorporeo tutte le proprietà che l’esperienza c’insegna, non gli potete nondimeno togliere quella, per cui lo si pensa come sostanza o aderente a una sostanza (sebbene questo concetto abbia una determinazione maggiore che quello di oggetto in generale). Spinti dalla necessità, con cui questo concetto vi s’impone, dovete dunque convenire che esso ha la sua sede nella vostra facoltà di conoscere a priori.
III2
Ciò che vuol dire anche più di tutto quel che precede, è questo: che certe conoscenze escono affatto dal campo di tutte le possibili esperienze, e han l’apparenza di allargare l’ambito dei nostri giudizi al di là di tutti i limiti dell’esperienza per mezzo di concetti, a cui non si può dare in nessuna parte di essa un oggetto corrispondente.
E proprio in queste ultime conoscenze, che trascendono il mondo sensibile, e per le quali l’esperienza non può dare in niun modo nè una guida nè un controllo, consistono le investigazioni della nostra ragione che noi riteniamo d’importanza di gran lunga più alta, e la loro meta molto più sublime di tutto ciò che possa insegnarci l’intelletto nel campo dei fenomeni; tanto che noi, a costo di cader in errore, tutto tentiamo anzi che rinunziare a così interessanti ricerche per una ragione qualunque di dubbio, o per dispregio e indifferenza. Questi inevitabili problemi della ragion pura sono Dio, la libertà e l’immortalità. La scienza, poi, il cui scopo finale è con tutti gli sforzi indirizzato propriamente soltanto alla soluzione di essi, si chiama metafisica; cioè, senza un esame preliminare della potenza o impotenza della ragione a una sì grande impresa, essa ne prende l’impegno piena di confidenza3.
Ora pare in verità naturale che, appena abbandonato il terreno dell’esperienza, non si possa subito, con le conoscenze che si posseggono non si sa donde, e sul credito di principii di cui non si conosce l’origine, elevare un edifizio, senza prima essersi assicurati con accurate ricerche della fondazione di esso, e senza che dunque sia stata scrutata piuttosto da un pezzo la questione del come possa l’intelletto giungere a tutte queste conoscenze a priori, e quale estensione, quale validità, qual valore esse possano avere. Infatti, nulla è più naturale di ciò, se con la parola naturale s’intende ciò che giustamente e ragionevolmente deve accedere; ma, se s’intende con essa ciò che accade di solito, nulla viceversa è più naturale e comprensibile del fatto, che questa ricerca dovesse lungo tempo esser trascurata. Giacchè una parte di queste conoscenze, come le matematiche, è in possesso antico della certezza, e dà perciò una buona speranza anche per le altre, ancorchè esse siano di natura affatto diversa. Oltre a ciò, se si esce dalla cerchia dell’esperienza, si è sicuri di non esser contraddetti dall’esperienza. Il desiderio di estendere le proprie conoscenze, è così grande che solo da una contraddizione manifesta, in cui si urti, si può essere fermati nel cammino. Questa, per altro, può essere scansata quando le finzioni4 siano foggiate con cautela, senza che per questo cessino di essere finzioni. La matematica ci dà uno splendido esempio di quanto possiamo spingerci innanzi nella conoscenza a priori, e perciò difficilmente si può distinguere da un concetto puro. Eccitato da una siffatta prova del potere della ragione, l’impulso a spaziare più largamente non vede più confini. La colomba leggiera, mentre nel libero volo fende l’aria di cui sente la resistenza, potrebbe immaginare che le riuscirebbe assai meglio volare nello spazio vuoto di aria. Ed appunto così Platone abbandonò il mondo sensibile, poichè esso pone troppo angusti limiti all’intelletto; e si lanciò sulle ali delle idee al di là di esso, nello spazio vuoto dell’intelletto puro. Egli non si accorse che non guadagnava strada, malgrado i suoi sforzi; giacchè non aveva, per così dire, nessun appoggio, sul quale potesse sostenersi e puntare quasi le sue forze per muovere l’intelletto. Ma è comune destino della ragione umana nella speculazione allestire più presto che sia possibile il suo edifizio, e solo alla fine cercare se gli sia stato gettato un buon fondamento. Se non che, allora si ricercano abbellimenti esterni di ogni specie per farci forti della bellezza di esso, o anche per evitare del tutto tale tardiva e pericolosa verifica. Durante la costruzione, quel che ci tien liberi da ogni cura o sospetto, e ci acquieta con una apparente solidità, è questo. Una gran parte, e forse la maggiore, delle occupazioni della nostra ragione consiste nelle analisi dei concetti, che abbiamo già degli oggetti. Questo ci dà una quantità di conoscenze, le quali, sebbene non sieno nulla più che chiarimenti ed esplicazioni di ciò che già era pensato (benchè ancora in maniera confusa) nei nostri concetti, vengono tuttavia apprezzate, almeno per la forma, come nozioni nuove, quantunque, per la loro materia e per il loro contenuto, non allarghino punto i concetti che già possediamo, ma soltanto li estraggano l’uno dall’altro. Ora, poichè tale procedimento dà una reale conoscenza a priori, la quale segna un sicuro ed utile progresso, così la ragione, senza nè anche addarsene, con questa lusinga carpisce affermazioni di tutt’altra natura; nelle quali ai concetti dati aggiunge nuovi concetti affatto estranei, e pure a priori, senza che si sappia come vi giunga, e senza lasciarsi nemmeno venire in pensiero una tale questione. Io perciò tratterò a principio della differenza di queste due specie di conoscenza.
IV
In tutti i giudizi, nei quali è pensato il rapporto di un soggetto col predicato (considero qui soltanto quelli affermativi, perchè poi sarà facile l’applicazione a quelli negativi), cotesto rapporto è possibile in due modi. O il predicato B appartiene al soggetto A come qualcosa che è contenuto (implicitamente) in questo concetto A; o B resta interamente al di fuori del concetto A, sebbene si trovi in connessione col medesimo. Nel primo caso chiamo il giudizio analitico, nel secondo sintetico. Giudizi analitici (affermativi) son dunque quelli, nei quali la connessione del predicato col soggetto vien pensata per l’identità loro; quelli invece, nei quali questa connessione vien pensata senza identità, si devono chiamare sintetici. I primi si potrebbe anche chiamarli giudizi esplicativi, gli altri estensivi; poichè quelli per mezzo del predicato nulla aggiungono al concetto del soggetto, ma solo dividono con l’analisi il concetto ne’ suoi concetti parziali, che erano in esso già pensati (sebbene confusamente); dove, al contrario, questi ultimi aggiungono al concetto del soggetto un predicato, che in quella era punto pensato e non era deducibile con nessuna analisi. Se dico, per es.: tutti i corpi sono estesi, questo è un giudizio analitico. Giacchè non mi occorre di uscir fuori dal concetto che io unisco alla parola corpo, per trovar legata con esso l’estensione, ma mi basta scomporre quel concetto, cioè prender coscienza del molteplice ch’io comprendo sempre in esso, per ritrovarvi il predicato; questo è dunque un giudizio analitico. Invece, se dico: tutti i corpi sono gravi; allora il predicato è qualcosa di affatto diverso da ciò che io penso nel semplice concetto di corpo in generale. L’aggiunta d’un tale predicato ci dà perciò un giudizio sintetico.
I giudizi sperimentali, come tali, sono tutti sintetici. Infatti sarebbe assurdo fondare sull’esperienza un giudizio analitico, poichè io non ho punto bisogno di uscire dal mio concetto per formare il giudizio, nè a ciò m’è d’uopo alcuna testimonianza dell’esperienza. Che un corpo sia esteso, è una proposizione che vale a priori, e non è un giudizio di esperienza. Infatti, prima di passare all’esperienza, io ho tutte le condizioni del mio giudizio già nel concetto, dal quale posso ricavare il predicato soltanto secondo il principio di contraddizione, e acquistar a un tempo coscienza della necessità del giudizio, che l’esperienza non potrebbe mai insegnarmi. Al contrario, se nel concetto di corpo in generale io non includo punto il predicato della gravità, allora quel concetto rappresenta pure un oggetto dell’esperienza mediante una parte di essa, alla quale io dunque posso aggiungere ancora altre parti della stessa esperienza, come appartenenti a quello. Posso prima conoscere il concetto di corpo analiticamente per le note dell’estensione, dell’impenetrabilità, della forma, ecc., che sono tutte pensate in questo concetto. Ma poi estendo la mia conoscenza, e ricorrendo di nuovo all’esperienza, della quale ho tratto il concetto di corpo, trovo con le note precedenti legata costantemente anche quella della gravità, e l’aggiungo quindi sinteticamente, come predicato, a quel concetto. Sull’esperienza dunque is fonda la possibilità della sintesi del predicato della gravità col concetto del corpo, perchè questi due concetti, sebbene l’uno non sia compreso nell’altro, tuttavia, come parti di un tutto, cioè dell’esperienza, che è essa stessa una connessione sintetica delle intuizioni, convengono l’uno all’altro, benchè solo in modo accidentale5.
Ma nei giudizi sintetici a priori questo sussidio manca assolutamente. Se devo uscire dal concetto A, e conoscerne un altro B come legato al primo, su che cosa mi fondo, e da che cosa è resa possibile la sintesi, poichè qui non ho il vantaggio di orientarmi per ciò nel campo dell’esperienza? Si prenda la proposizione: tutto ciò che accade ha la sua causa. Nel concetto di qualche cosa che accade io penso per verità una esistenza, alla quale precede un tempo ecc.; e da ciò si possono trarre giudizi analitici. Ma il concetto di causa sta interamente fuori di quel concetto, e6 indica alcunchè di diverso da ciò che accade, e però non è punto incluso in quest’ultima rappresentazione. Come mai dunque vengo io a riferire, e per di più necessariamente, all’effetto alcunchè di affatto diverso, il concetto della causa, sebbene in quello non contenuto? Che cos’è qui l’incognita x, su cui si appoggia l’intelletto, quando crede di trovar fuori del concetto A un predicato B, ad esso estraneo, e che, ciò malgrado, stima con esso aggiunto? Non può essere l’esperienza, poichè il principio citato aggiunge questa seconda rappresentazione alla prima, non solo con universalità maggiore di quella che può dare l’esperienza, ma altresì con la nota della necessità, e perciò del tutto a priori, e in base a semplici concetti. Ora tutto lo scopo supremo delle nostre conoscenze speculative a priori si fonda su tali principii sintetici o estensivi; perchè gli analitici sono, sì, importantissimi e necessariissimi, ma solo per giungere a quella chiarezza dei concetti, che è desiderabile per una sicura ed ampia sintesi, come per una conquista realmente nuova7.
V
1. I giudizi matematici sono tutti sintetici. Questa proposizione pare sia sfuggita sinora all’indagine di quanti hanno analizzato la ragione umana, e anzi par proprio opposta alle loro congetture, sebbene sia incontestabilmente certa, e molto importante nella sua conseguenza. Infatti, poichè si trovava che le deduzioni dei matematici procedono tutte secondo il principio di contraddizione (richiesto dalla natura di ogni certezza apodittica), così si credeva anche i principii fossero conosciuti in virtù dello stesso principio di contraddizioni; e in ciò si sbagliavano; perchè una proposizione sintetica può sempre esser conosciuta secondo il principio di contraddizione, ma solo a condizione che si presupponga un’altra proposizione sintetica, dalla quale possa esser dedotta; non mai in se stessa.
Prima di tutto bisogna notare, che le proposizioni propriamente matematiche sono sempre giudizi a priori, e non empirici, perchè portano seco quella necessità, che dalla esperienza non si può ricavare. Se questo non si vuol concedere, ebbene, io limito la proposizione alla matematica pura il cui concetto già include che essa non contiene conoscenze empiriche, ma solo conoscenze pure a priori.
Veramente a prima vista si dovrebbe pensare che la proposizione 7 + 5 = 12 sia una proposizione semplicemente analitica, risultante pel principio di contraddizione dal concetto di una somma di sette e di cinque. Ma, se si considera la cosa più da vicino, si trova che il concetto della somma di 7 e 5 non racchiude altro che l’unione di due numeri in un solo, senza che perciò venga assolutamente pensato qual sia questo numero unico che raccoglie gli altri due. Il concetto di dodici non è punto pensato già pel fatto che io penso semplicemente quella unione di sette e di cinque, e finchè io analizzerò il mio concetto di una tale possibile somma, dodici. Bisogna oltrepassare ad uno dei numeri, come, ad es., alle cinque dita della mano, o (come Segner nella sua aritmetica8) a cinque punti, e aggiungendo successivamente al concetto di sette le unità del numero cinque date nell’intuizione. Infatti io prendo prima il numero 7, e, ricorrendo pel numero 5 all’aiuto delle dita della mia mano come intuizione, le unità, che prima ho prese tutte insieme per formare il numero 5, ora le aggiungo in quella mia immagine ad una ad una al numero 7, e vedo così nascere il numero 12. Che 5 si dovesse aggiungere a 7, l’avevo in verità pensato nel concetto di somma 7 + 5; ma non che questa somma fosse uguale a 129. La proposizione aritmetica è, dunque, sempre sintetica; ciò che si fa tanto più manifesto, quanto più alte sono le cifre che si prendono, perchè allora risplende chiaro che noi potremmo girare e rigirare i nostri concetti a piacer nostro, ma, senza ricorrere all’aiuto dell’intuizione, mediante la semplice analisi dei nostri concetti non potremmo trovar mai la somma.
Tanto meno è analitico un principio qualunque della geometria pura. Che la linea retta sia la più breve fra due punti, è una proposizione sintetica. Perchè il mio concetto di retta non contiene niente di quantità, ma solo una qualità. Il concetto della più breve è dunque interamente aggiunto, e non può essere ricavato con nessuna analisi da quello della linea retta. Qui deve perciò chiamarsi in aiuto l’intuizione, mediante la quale solamente è possibile la sintesi.
Alcune poche proposizioni fondamentali10 presupposte dai geometri sono, in verità, realmente analitiche e riposano sul principio di contraddizione; ma è anche vero che non servono, in quanto proposizioni identiche, se non alla catena del mondo, e non han valore di principii; tali sono per esempio a = a, il tutto è uguale a se stesso; oppure a + b > a, ossia il tutto è maggiore della parte. E pure anche queste stesse, sebbene valgano in base a semplici concetti, in matematica vengono ammesse solo perchè possono esser rappresentate per intuizione. Quel che in questo caso ci fa credere comunemente, che il predicato di tali giudizi apodittici si trovi già nel nostro concetto, e però il giudizio sia analitico, è soltanto l’ambiguità dell’espressione. Cioè, noi dobbiamo aggiungere un certo predicato ad un concetto dato, e questa necessità tocca già i concetti. Ma la questione non è che cosa dobbiamo pensare in aggiunta ad un concetto dato, ma che cosa realmente pensiamo in esso sebbene solo oscuramente; ed è chiaro che il predicato aderisce bensì necessariamente a quei concetti, ma non perchè pensato nello stesso concetto, sibbene in virtù di un’intuizione, la quale deve aggiungersi al concetto.
2. La fisica (physica) comprende in sè come principii giudizi sintetici a priori. Addurrò in esempio soltanto un paio di proposizioni, come quella che in tutti i cangiamenti del mondo corporeo la quantità della materia resta invariata; oppure quest’altra, che in ogni comunicazione di movimento l’azione e la reazione saranno sempre uguali tra loro. In entrambe non soltanto è chiara la loro necessità, la loro origine a priori, ma è chiaro altresì che sono proposizioni sintetiche. Giacchè nel concetto della materia io non penso alla permanenza, ma solo alla sua presenza nello spazio, in quanto lo riempie. Perciò io oltrepasso realmente il concetto della materia, per aggiungervi a priori qualche cosa che in quel concetto non pensavo. La proposizione dunque non è analitica ma sintetica, e tuttavia pensata a priori; e lo stesso si dica delle altre proposizioni della parte pura della fisica.
3. Nella metafisica, considerando questa scienza solo come una scienza finora soltanto tentata, ma tuttavia indispensabile per la natura della ragione umana, devono esser contenute conoscenze sintetiche a priori, e non si tratta perciò di semplicemente scomporre e chiarire analiticamente i concetti che ci formiamo a priori delle cose, ma vogliamo estendere a priori la nostra conoscenza; e a tal uopo dobbiamo servirci di tali principii che aggiungano al concetto dato qualche cosa che non vi era contenuto; e mediante giudizi sintetici a priori ci spingiamo fin là, dove l’esperienza non può seguirci: per esempio, nella proposizione: il mondo deve avere un primo principio ecc.; e così la metafisica consta dunque, almeno secondo il suo scopo, di mere proposizioni sintetiche a priori.
VI
È già un bel guadagno quando si può raccogliere una quantità di ricerche sotto la formola di problema unico. Giacchè per tal modo non solo vien agevolato il nostro proprio lavoro in quanto esso è esattamente determinato, ma anche ad ogni altro che voglia esaminarlo è reso facile il giudizio se abbiamo fatto abbastanza o no pel nostro proposito. Il problema proprio della ragion pura è dunque contenuto nella domanda: come sono possibili giudizi sintetici a priori?
La ragione, per la quale la metafisica è rimasta fin qui in una condizione oscillante di incertezza e di contraddizione, è da cercarsi esclusivamente nel fatto, che non s’è posto mente in passato a questo problema, e nemmeno forse alla differenza dei giudizi analitici e sintetici. Intanto la vita e la morte della metafisica dipende dalla soluzione di questo problema, o da una dimostrazione soddisfacente che la possibilità, che essa desidera saper definita, in realtà non c’è. David Hume, che fra tutti i filosofi ha affrontato più da vicino questo problema, ma che rimase lungi dal pensarlo con sufficiente precisione e in tutta la sua universalità, e si fermò semplicemente alla proposizione sintetica del nesso dell’effetto con la sua causa (principium causalitatis), credette di poter concludere che tale principio a priori fosse assolutamente impossibile; e, secondo le sue conclusioni, ciò che chiamiamo metafisica, verrebbe ad essere una semplice illusione d’una presunta cognizione razionale; illusione, che essa in fatto ha preso a prestito dall’esperienza, e che dall’abitudine ha ricevuto l’apparenza della necessità. Alla quale asserzione, distruttiva di ogni filosofia, pure egli non si sarebbe mai lasciato andare, se avesse avuto innanzi agli occhi il problema nostro nella sua universalità; poichè allora avrebbe visto che, secondo i suoi argomenti, non potrebbe esserci più neppure una matematica pura, perchè questa comprende certamente principii sintetici a priori; affermazione della quale il suo buon senso allora lo avrebbe ben preservato.
Nella soluzione del superiore problema è risposta a un tempo la possibilità dell’uso puro della ragione per fondare e recare in atto tutte le scienze che contengono una conoscenza teorica a priori degli oggetti, con concetti, e, cioè, la risposta alle domande:
Com’è possibile una matematica pura?
Com’è possibile una fisica pura?
Di queste scienze, poichè esse realmente ci sono, convien bene domandarsi come sieno possibili, poichè che debban esser possibili, è provato dalla loro stessa esistenza di fatto11. Per ciò che riguarda la metafisica, il suo progresso fin qui assai infelice, poichè di nessuna delle metafisiche fin qui esposte, per ciò che spetta al suo scopo essenziale, si può dire che essa realmente esista, deve ad ognuno lasciar dubitare con ragione della sua possibilità.
Ma, tuttavia, anche questa specie di conoscenza deve, in un certo senso, essere considerata come data, e la metafisica, se pure non come scienza, esiste certo come tendenza naturale (metaphysica naturalis). Giacchè la ragione umana viene irresistibilmente, anche senza che la muova la semplice velleità di molto sapere, incitata da un proprio bisogno, e muove incontro a quei problemi che non possono esser risoluti da nessun uso empirico della ragione, nè da principii tolti da questo; e così in tutti gli uomini, appena in loro la ragione si è innalzata sino alla speculazione, v’è stata in ogni tempo una metafisica, e vi sarà sempre. Ora anche per essa c’è la questione: com’è possibile la metafisica in quanto tendenza naturale? cioè, come nascono dalla natura della ragione umana universale i problemi che la ragion pura affronta, e ai quali essa si sente dal proprio bisogno spinta a rispondere il meglio che può?
Ma, poichè tutte le ricerche fatte fin qui, per rispondere a quelle naturali domande: se il mondo abbia un cominciamento, o esista dall’eternità e così via, sono sempre incorse in inevitabili contraddizioni, così non ci si può arrendere alla semplice tendenza naturale verso la metafisica, cioè alla stessa facoltà pura della ragione, dalla quale certo deriva sempre una qualche metafisica (quale che sia); ma dev’esser possibile giunger con essa alla certezza di un giudizio relativamente alla nostra scienza o ignoranza de’ suoi oggetti, cioè a pronunziarsi circa gli oggetti delle sue questioni, ovvero intorno alla potenza e impotenza della ragione rispetto ai medesimi; e però o allargare con fiducia la nostra ragion pura, o restringerla entro limiti determinati e sicuri. Quest’ultimo problema, che deriva da quello generale di sopra, sarebbe a ragione questo: com’è possibile la metafisica come scienza?
La critica della ragione, dunque, conduce alla fine necessariamente alla scienza; l’uso dommatico, invece, di essa senza critica, ad affermazioni prive di fondamento, alle quali si potrà sempre contrapporne altre ugualmente verisimili, e però allo scetticismo.
Inoltre, questa scienza non può essere d’una lunghezza grande, scoraggiante, perchè non ha da fare con oggetti della ragione, la cui molteplicità è infinita, ma soltanto con se stessa, con problemi che sorgono esclusivamente dal suo grembo, proposti a lei, non dalla natura delle cose che sono da lei differenti, ma dalla sua propria; dal momento che, quando essa abbia prima imparato a conoscere compiutamente la sua propria capacità rispetto agli oggetti, che le si possono presentare nella esperienza, deve diventar facile determinare in modo completo e sicuro l’ambito e i limiti del suo uso al di là di tutti i confini dell’esperienza.
Si può dunque, anzi si deve far conto che non sieno mai esistiti i tentativi fatti sino ad ora per creare dommaticamente una metafisica; perchè quel che vi è in questa o in quella di analitico, cioè la semplice scomposizione dei concetti che giacciono a priori nella nostra ragione, non costituisce punto lo scopo, ma solo un preparativo per la vera metafisica, per estendere, cioè, sinteticamente la sua conoscenza a priori; e a questo essa12 non basta; poichè mostra solo ciò che è contenuto nei concetti, ma non come noi siamo pervenuti a priori a tali concetti, acciò si possa in conseguenza determinare il loro legittimo uso rispetto agli oggetti di ogni conoscenza in generale. E basta anche soltanto una piccola dose di abnegazione per rinunziare a queste pretese, giacchè le incontestabili contraddizioni della ragione con se stessa, inevitabili in un procedimento dommatico, già da molto tempo han gettato il discredito sulla metafisica passata. Piuttosto sarà necessaria molta costanza per non lasciarsi rimuovere per nessuna difficoltà intrinseca lo sviluppo rigoglioso e fecondo di una scienza indispensabile all’umana ragione; una scienza della quale si potranno tagliare i rami che ne son venuti fuori, ma non mai svellere le radici, con un’altra trattazione del tutto opposta alle precedenti.
VII
Da tutto ciò scaturisce dunque l’idea di una scienza speciale, che si può chiamare Critica della ragion pura. Poichè la ragione è la facoltà che ci fornisce i principii a priori della conoscenza13. Ragion pura è perciò quella che contiene i principii per conoscere qualche cosa assolutamente a priori. Un organo della ragion pura sarebbe un complesso dei principii, secondo i quali possono essere acquistate ed effettivamente recate in atto tutte le conoscenze pure a priori. L’applicazione completa di un siffatto organo costituirebbe un sistema della ragion pura. Ma poichè questo sistema è desiderato moltissimo, e resta ancora a veder se e in quali casi una tale estensione della nostra conoscenza sia possibie, così noi possiamo considerare una scienza che si limiti al semplice giudicamento della ragion pura, delle sue fonti e dei suoi limiti, come propedeutica al sistema della ragion pura. Una tale scienza non si dovrebbe ancora chiamare dottrina, ma solo critica della ragion pura; e la sua utilità sarebbe in realtà, riguardo alla speculazione14, solo negativa, giacchè servirebbe ad epurare, non ad allargare la nostra ragione, e a liberarla dagli errori; ciò che è già moltissimo di guadagnato. Chiamo trascendentale ogni conoscenza che si occupa non degli oggetti, ma del nostro modo di conoscenza degli oggetti in quanto questa deve esser possibile a priori15. Si direbbe filosofia trascendentale un sistema di siffatti concetti. Ma questa filosofia, d’altra parte, è troppo ancora per cominciare. Infatti, dovendo una tale scienza contenere interamente tanto la conoscenza analitica quanto la sintetica a priori, essa è, per ciò che riguarda il nostro scopo, di estensione troppo vasta, laddove noi vogliamo spingere l’analisi fin dove sia indispensabilmente necessario affinchè si possano cogliere in tutta la loro portata i principii della sintesi a priori, come quello che ora soltanto ci riguarda. Questa ricerca, che non possiamo propriamente chiamare dottrina, ma solo critica trascendentale, poichè non mira all’allargamento delle conoscenze stesse, ma soltanto alla loro rettificazione, e che deve darci la pietra di paragone del valore o della vanità di tutte le conoscenze a priori, è ciò di cui ora ci occupiamo. Una tale critica è dunque una preparazione, se è possibile, ad un organo; e, se questo non dovesse riuscire, almeno ad un canone della ragione, secondo il quale in ogni caso si potrebbe un giorno esporre, così analiticamente come sinteticamente, il sistema completo della filosofia della ragion pura, abbia esso a consistere nell’estensione o nella semplice limitazione della sua conoscenza. Che poi questo sistema sia possibile, anzi non sia per essere di tale ampiezza da togliere la speranza di compierlo, si può già argomentare da ciò, che qui si tratta non della natura delle cose, che è inesauribile, ma dell’intelletto, che giudica della natura delle cose, anzi di questo intelletto soltanto rispetto alla sua conoscenza a priori; e il contenuto di quest’oggetto, non dovendo esser cercato fuori di noi, non può restar celato, e secondo ogni presunzione è abbastanza piccolo da poter essere rilevato interamente, giudicato nel suo valore o non valore, e ridotto al suo giusto apprezzamento. Tanto meno si deve qui aspettare una critica dei libri e dei sistemi della ragion pura, ma quella della facoltà stessa della ragion pura. Se non che, se si pone a base questa critica, si ha una sicura pietra di paragone per apprezzare il valore filosofico delle opere antiche e moderne in questa branca; se no, storico e giudice, incompetenti, giudicano le asserzioni infondate degli altri in nome delle proprie, che sono altrettanto arbitrarie16.
La filosofia trascendentale è l’idea d’una scienza, di cui la critica della ragion pura deve architettonicamente, cioè per principii, abbozzare il disegno intero, con pieno garanzia di solidità e sicurezza di tutte le parti che compongono un tale edificio. Essa è il sistema di tutti i principii della ragion pura. Se questa critica non si chiama essa stessa filosofia trascendentale, la ragione è che, per essere un sistema completo, dovrebbe contenere altresì un’analisi compiuta di tutta la conoscenza umana a priori. Ora la nostra critica certo deve metterci sott’occhio l’enumerazione completa di tutti i concetti fondamentali, che costituiscono la suddetta conoscenza pura. Ma non contiene l’analisi particolareggiata di questi concetti, nè la rassegna completa di tutti quelli che ne derivano, in parte perchè tale analisi non sarebbe conforme ai suoi fini, non presentando essa la stessa difficoltà, che sta invece nella sintesi, intorno alla quale lavora, come in proprio terreno, tutta la critica; in parte perchè sarebbe rotta l’unità del disegno, se si volesse dare con la responsabilità della compiutezza una tale analisi e deduzione, di cui possiam fare a meno, considerati i fini della nostra critica. Questa compiutezza, per altro, tanto nell’analisi quanto nella deduzione dai concetti a priori che rimangono da assegnare, è facile a integrare quando prima di tutto ci siano questi concetti soltanto come principii completi della sintesi e non manchi nulla rispetto a questo scopo essenziale.
Appartiene quindi alla critica della ragion pura tutto ciò che costituisce la filosofia trascendentale, ed essa è la idea completa della filosofia trascendentale, ma non ancora questa scienza stessa, giacchè nell’analisi va soltanto fin là dove è necessario, per giudicare perfettamente la conoscenza sintetica a priori.
La mira precipua nella partizione di tale scienza è, che non vi devono entrare punto concetti i quali contengano in sè qualcosa di empirico: ossia, che la conoscenza a priori sia pienamente pura. Perciò, sebbene i principii supremi della moralità e i suoi concetti fondamentali sieno conoscenza a priori, essi non appartengono tuttavia alla filosofia trascendentale, poichè essi, per quanto certo non mettano i concetti del piacere e del dolore, dei desiderii e delle tendenze, ecc., che son tutti di origine empirica, a base dei precetti morali, tuttavia nel concetto del dovere non possono non farli entrare per la costruzione d’un sistema di moralità pura, o come impedimento che va superato, o come stimolo di cui non va fatto un motivo17. Perciò la filosofia trascendentale è filosofia18 della ragion pura semplicemente speculativa. Giacchè tutto ciò che è pratico, in quanto comprende de’ motivi, ha attinenza con i sentimenti, che appartengono alle fonti empiriche della conoscenza.
Se dunque si vuol dividere questa scienza dal punto di vista generale di un sistema, la scienza, che ci accingiamo ad esporre, deve comprendere, in primo luogo, una dottrina degli elementi, e in secondo luogo, una dottrina del metodo della ragion pura. Ciascuna di queste parti principali avrebbe poi sue proprie suddivisioni, il cui fondamento tuttavia non è qui ancora il luogo di esporre. In una introduzione o avvertenza preliminare par che sia necessario soltanto notare che si danno due tronchi dell’umana conoscenza, che rampollano probabilmente da una radice comune ma a noi sconosciuta: cioè, senso e intelletto; col primo dei quali ci son dati gli oggetti, col secondo essi sono pensati. Ora il senso, in quanto deve contenere rappresentazioni a priori, che formano la condizione a cui ci son dati gli oggetti, apparterrebbe alla filosofia trascendentale. La teoria trascendentale della sensibilità dovrebbe spettare alla prima parte della scienza degli elementi, poichè in condizioni, a cui soltanto gli oggetti sono dati alla conoscenza umana, precedono quelle, a cui i medesimi oggetti sono pensati.
Note
- ↑ La 1ª ediz. divideva l’introduzione solo in due paragrafi: I. Idea della filosofia trascendentale, II. Partizione alla filosofia trascendentale; e al posto dei primi due paragrafi di questa 2ª ediz., aveva questi pochi periodi:
«L’esperienza è, fuori di dubbio, il primo prodotto che dà il nostro intelletto mettendosi ad elaborare la materia greggia delle sensazioni. Ed è, appunto per ciò, il primo ammaestramento, e nel suo procedere fonte così inesauribile di nuovi insegnamenti, che la vita concatenata di tutte le future generazioni non avrà mai difetto di nuove conoscenze che possano essere raccolte su questo terreno. Tuttavia, è ben lungi dall’essere l’unico campo nel quale il nostro intelletto venga circoscritto. Essa ci dice bensì ciò che è, ma non che così e non altrimenti debba necessariamente essere. Per ciò appunto non ci dà nè anche una vera universalità; e la ragione, così avida di questa specie di conoscenze, è dalla esperienza più eccitata che soddisfatta. Tali conoscenze universali, che abbiano a un tempo il carattere della necessità intrinseca, debbono esser indipendenti dall’esperienza, chiare e certe per se stesse; quindi prendono il nome di conoscenze a priori, laddove, al contrario, ciò che scaturisce esclusivamente dall’esperienza è, come si suol dire, conosciuto soltato a posteriori o empiricamente.
Ora è chiaro, ed è sommamente degno di nota, che mescolate alle nostre esperienze si trovano conoscenze, che debbono avere la loro origine a priori, le quali forse servono solamente a tenere insieme le nostre rappresentazioni sensibili. Giacchè se dalle prime si toglie via anche tutto ciò che appartiene ai sensi, rimangono tuttavia taluni concetti originari e taluni giudizi prodotti da questi concetti, che debbono esser sorti assolutamente a priori, indipendentemente dall’esperienza, poichè essi fan sì che degli oggetti che appaiono ai sensi si possa, o almeno si creda di poter dire più che non potrebbe insegnare la semplice esperienza, e poichè vi sono affermazioni che per mezzo di essi acquistano vera universalità e rigorosa necessità, ciò che non potrebbe dare la semplice conoscenza empirica.»
- ↑ Questo paragrafo, tolti i pochi periodi tradotti nella nota precedente, e poche e quasi insignificanti aggiunte e correzioni, riproduce il paragrafo I della 1ª edizione.
- ↑ Questo capoverso: «Questi inevitabili... l’esecuzione», è un’aggiunta della 2ª edizione.
- ↑ Erdichtungen, ossia queste conoscenze escogitate senza fondamento nell’esperienza.
- ↑ La prima pate di questo capoverso sino a «...l’esperienza non potrebbe mai insegnarmi», è tolta dai Prolegomeni, con piccolissime e trascurabili modificazioni di forma.
Nella prima edizione, al posto di tutto il capoverso, fino a «...sebbene solo in modo casuale», c’erano questi altri:«Ora da ciò risulta evidente: 1) che per mezzo di giudizi analitici la nostra conoscenza non può estendersi punto, ma può invece essermi reso esplicito e intelligibile in concetto che già posseggo; 2) che nei giudizi sintetici io ho bisogno, oltre che del concetto del soggetto, di qualcos’altro ancora (x), su cui si appoggi l’intelletto per riconoscere che gli appartiene un predicato non compreso in quel concetto.
Nei giudizi empirici o sperimentali non v’è perciò nessuna difficoltà. Giacchè questa x è la completa esperienza dell’oggetto, che io penso mediante un concetto A il quale costituisce solo una parte di questa esperienza. Infatti, sebbene io nel concetto di corpo in generale non includa punto il predicato della gravità, tuttavia quel concetto designa tutta l’esperienza per mezzo d’una parte di essa, alla quale dunque posso aggiungere ancora altre parti della medesima esperienza, come appartenenti a quel concetto. Posso prima conoscere il concetto di corpo analiticamente, per le note dell’estensione, dell’impenetrabilità, della forma, ecc., che sono tutte pensate in quel concetto. Ma poi, se estendo la mia conoscenza, e guardo di nuovo all’esperienza dalla quale ho tratto il concetto di corpo, trovo con le note precedenti unita costantemente anche quella della gravità. L’esperienza è dunque quella x, che è fuori del concetto A, e sulla quale si fonda la possibilità della sintesi del predicato della gravità B col concetto A.»
- ↑ Le parole «sta... concetto e» sono aggiunte nella 2ª edizione.
- ↑ I due paragrafi che seguono (V e VI) sono desunti dai Prolegomeni (V, n. 1) con piccole modificazioni. Nella 1ª edizione a questo punto seguivano le parole:
«Qui dunque si cela un certo mistero7 1, il cui scioglimento soltato può render sicuro e fidato il nostro progresso nel campo sconfinato della conoscenza pura dell’intelletto: occorre cioè scoprire, con la sua universalità, il fondamento della possibilità di giudizi sintetici a priori, vedere le condizioni che ne rendono possibile ogni singola specie, e non descrivere con un cerchio fugace, ma determinare, compiutamente e a sufficienza per ogni possibile uso tutta questa conoscenza (che costituisce le loro varie specie) in un sistema, secondo le sue fonti originarie, le partizioni, l’ambito e i limiti. Tanto basta per ora di quel che di peculiare hanno i giudizi sintetici.»
- ↑ «Se ad uno degli antichi fosse venuto in mente anche solo di porre il presente problema, questo solo avrebbe potentemente scosso tutti i sistemi della ragion pura sino al tempo nostro, e ci avrebbe risparmiato tante e tante vane prove, che, senza sapere propriamente con che si avesse a fare, si sono ciecamente tentate.»
- ↑ Segner, Anfangsgründe der Mathematik, 2ª ediz. Halle, 1773.
- ↑ Questi due ultimi periodi sono aggiunti nella 2ª ediz.
- ↑ Grundsätze, che in generale da noi si traduce principii.
- ↑ Taluno potrebbe ancora dubitare che questa esistenza l’abbia la fisica pura. Ma basta dare un’occhiata alle diverse proposizioni, che s’incontrano al principio della fisica propriamente detta (empirica), come quelle della permanenza della stessa quantità di materia, dell’inerzia, dell’ugugaglianza di azione e reazione e così via, per convincersi subito che esse costituiscono una physicam puram (o rationalem), che merita bene di essere esposta separatamente, come scienza speciale, in tutta la sua estensione, piccola o grande che sia. (N. di K.)
- ↑ La scomposizione dei concetti.
- ↑ La prima edizione diceva: «...una scienza speciale, che può servire alla critica della ragion pura. Ma si chiama pura ogni conoscenza, che non è mista di nulla d’estraneo. In particolare poi si chiama pura una conoscenza, nella quale non sia mescolata nessuna esperienza o sensazione, e che perciò è possibile del tutto a priori. Ora la ragione è la facoltà, ecc.».
- ↑ Le parole «rispetto alla speculazione» sono della 2ª edizione.
- ↑ Le parole «...ma alla nostra..., a priori» ci sembrano più chiare di quelle della 1ª edizione: «ma coi nostri concetti a priori degli oggetti in generale».
- ↑ Le parole «tanto meno... arbitrarie» non erano nella 1ª ediz. Dopo di esse, con le parole «la filosofia trascendentale...» incominciava la seconda sezione della primitiva redazione di questa introduzione, intitolata, come già ricordammo (pag. 37): Partizione alla filosofia trascendentale.
- ↑ Prima edizione: «poichè i concetti di piacere e dolore, ecc., che hanno tutti origine empirica, devono esservi presupposti».
- ↑ Weltweisheit (= sapienza mondana).