Cristoforo Colombo (de Lorgues)/Libro I/Capitolo V
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Traduzione di Tullio Dandolo (1857)
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CAPITOLO QUINTO.
Arrivo di Colombo a Cordova. — Come si trova deluso. — Suo isolamento. — Suo matrimonio. — Protetto dal Clero egli ottiene una udienza dai Re. — Colombo davanti la Giunta scientifica di Salamanca. — Irresoluzioni della Corte. — Nuove lentezze. — Istanze infruttuose. — Assedio di Baza. — Colombo vi serve nei gradi inferiori. — Si ripiglia il suo progetto alla Corte. — Nuove indecisioni. — Colombo risoluto ad andare in Francia, passa per la Rabida. — Il Padre Juan Perez ve lo trattiene e scrive direttamente alla Regina.
§ I.
Pieno di speranza nell’avuta commendatizia, dalla quale aspettava un risultamento pronto ed efficace, Colombo giunse a Cordova. L’alto credito del Priore di Prado pareva lo dovesse francare dalle ordinarie lentezze, e permettergli incontanente di essere ricevuto dalle loro Altezze. Ma ohimè! l’accoglienza di questo personaggio dileguò in brev’ora una tale illusione. Non solamente il Priore non gli fece veruna promessa, ma non gli permise veruna speranza, nè degnò pure ascoltarlo. Fernando di Talavera, che doveva essere il suo premuroso introduttore presso i Sovrani, diventò il primo ostacolo al riuscimento del suo disegno: parve che quest’uomo fosse scelto per esercitare dolorosamente la sua pazienza e la sua rassegnazione.
Giustamente indegnati contra gl’impedimenti suscitati al genio nell’adempimento dell’opera sua, diversi scrittori hanno giudicato severamente il Priore di Prado, per le ambascie che fece patire al più nobile supplicante dell’universo. L’imparzialità ci prescrive di confessare che la generosa loro indegnazione gli ha fatti trascorrere tropp’oltre.
Frate Fernando di Talavera, della congregazione de’ Geronimiti, priore di Nostra Signora di Prado a Valladolid, e confessore dei due re, non era uno spirito volgare, invidioso della gloria altrui, o per sistema nemico di ogni nuova idea. Versato ad un modo nelle lettere e nella teologia, aveva alcuni anni prima sinceramente secondato il moto letterario ispirato da -lsabella. La sapienza de’ suoi consigli eguagliava la sua modestia. La sua assiduità al lavoro, i suoi sagaci divisamenti avevano aumentate le rendite della corona di oltre trenta milioni di marevedis: in mezzo agli splendori della Corte, continuava a menar la vita di un vero religioso: sotto un’estrema mansuetudine, ed una pietà sorridente. celava uno zelo guerresco per la gloria del Cattolicismo. Scevro da ogni ambizion personale, edificante cosi co’ suoi atti, come colle sue parole, egli possedeva intera la fiducia de’ Sovrani, e godeva anche a Corte fama di virtuoso, quasi di Santo.
Quanto conosciamo di lui non indica picciolezza d’idee. Ma, per quantunque dotto e pio che fosse il priore di Prado, egli non aveva alcuna nozione speciale delle matematiche, delle scienze naturali, e non poteva essere competente a sentenziare di cosmografia: giudicò sulle apparenze, e perciò dovette ingannarsi.
L’aspetto di quello Straniero, oscuro, vestito poveramente, venuto, non si sapeva come, in Ispagna, giunto alla Corte col solo appoggio del patronato conseguito per caso da un monaco confinato esso medesimo da lunga pezza sopra un solitario scoglio, non gl’ispirava un’idea molto vantaggiosa della sua persona, e perciò, altresì, del suo progetto: credette che il padre Juan Perez de Marchena fosse stato ingannato da un sognatore; onde lasciava che il suo protetto gittasse indarno il tempo per le scale, per gli atrii, per le sale d’aspetto, affine di esercitarlo alla pazienza, di stancarlo, e disgustarlo finalmente del mestiere di postulante: e così facendo credeva di rendere a lui stesso un buon servigio: quando poi per compassione consentiva riceverlo, il suo fare incredulo o distratto, avrebbe scoraggiato la perseveranza di Colombo, s’ei fosse stato manchevole della invisibile protezione che gli era largita.
Da questo si può giudicare se il priore di Prado, che si era fatto una regola di non mescolarsi di alcuna commendatizia, si sentisse disposto a parlare ai re in favore di quell’Italiano: sarebbesi creduto colpevole verso le loro Altezze, se le avesse distolte dalle loro occupazioni urgenti, anche pochi istanti, per ascoltare un avventuriere, che, avendo a mala pena un abito, veniva ad offerir loro dei regni. Colombo dovette, adunque, soffrire e lottare invano contro le preoccupazioni di colui che aveva sperato dover essergli protettore. In questi disperanti e infruttuosi tentativi consumata ogni cosa, e sentendo duramente le strettezze della miseria, era ridotto per vivere a ricominciare la sua fabbricazione di carte marine, e le sue copie di manoscritti.
Perduto in mezzo al tumulto di splendida Corte rinomata per le sue eleganti frivolezze e l’esigenze del suo lusso, Colombo si trovava dimenticato, isolato, senz’amici, senza relazioni familiari, dato in preda al più tristo abbandono; allora si fu, che, non ostante la sua povertà, una nobile damigella, nel cui vicinato egli albergava, volle consolare la sua sciagura unendosi a lui con un nodo indissolubile.
Ella usciva da un alto parentado. l suoi natali superavano d’assai i suoi averi, e la sua bellezza superava i suoi natali: la si chiamava Beatrice. Questo nome amato da Dante pareva fatto apposta per un Italiano. Dona Beatrice Enriquez apparteneva alla nobile famiglia di Arana, una delle più antiche di Cordova, in cui la virtù si trasmetteva per diritto di eredità, e che non ostante le sue poche ricchezze, godeva di fama e rispetto a cui non dà titolo la sola ricchezza.
Il laconismo degli storici, spesso il loro silenzio, e sempre l’assenza di Beatrice Enriquez nelle occasioni solenni, alcune parole di Colombo al suo letto di morte, velate da una pudica reticenza e grossolanamente interpretate, hanno prodotto contro di lei una preoccupazione generale. Di fatto gli antichi storici, dopo ricordato il matrimonio di Colombo, non hanno più parlato di Beatrice Enriquez; ed è perché non avevano nulla da dire di lei: la sua modestia, la natura delle sue abitudini, che l’allontanarono dalla scena elevata, a cui il suo titolo doveva produrla, il suo attaccamento alla città natale, da cui non si allontanò mai, impediscono di seguirla nel corso della sua vita. La sua storia si limitò al suo matrimonio, come la sua felicità alla sua unione. La donna cristiana gode modestamente della gloria dello sposo, e non ne fa pompa.
Intorno a Beatrice Enriquez i documenti sono brevi, ma positivi.
Conséguita da essi ch’ell’era di un’alta nobiltà, e di gran bellezza. ll suo avere, disuguale al suo grado, le assicurava, nondimeno, una esistenza indipendente. Ma avendo alcuni fratelli, è probabile, che, secondo l’uso del tempo e del paese, non abbia ricevuto in dote che la sua legittima. ll matrimonio di Beatrice Enriquez avvenne a Cordova verso il cadere del novembre 1486: diventò madre di Fernando Colombo il 29 seguente agosto.
Si direbbe che questa unione era provvidenzialmente preparata per fissar Colombo in Ispagna, attaccandolo, mercè i legami della famiglia, a quella terra eroica diventata sua patria adottiva. Chi si fa a considerare seriamente in quali circostanze venne stretto questo matrimonio, vi scopre un carattere strano, eccezionale come il destino di Colombo; vi si manifestano associati l’inaspettato, la grandezza ed il patimento.
Quest’affezione fu potente e generosa dal lato di Cristoforo; commovente e poetica dal lato di Beatrice.
Nonostante la nobile origine, la gioventù, la sorprendente bellezza, ella sposava un uomo allora senza nome, di cui non si conosceva la famiglia, senza cognizione della lingua spagnola, senza gioventù, perocchè aveva quarantanove anni, senza verginità di cuore, perch’era vedovo con un figlio, senza beni di fortuna, perchè non possedeva nè terre, nè rendite, niente al mondo. Sicuramente il suo contegno, la nobiltà de’ suoi modi e il suo conversare mostravano la sua superiorità; ma vestiva umilmente e poveramente. l suoi capelli incanutiti e le rughe della fronte non offrivano per lui speranza di un lungo avvenire: non possedeva altro che un progetto tre volte stato rigettato ne’ consigli de’ Governi. Certamente le famiglie Arana ed Enriquez si saranno opposte a questa unione che le offendeva nel loro legittimo orgoglio, nei loro interessi, nei loro pregiudizi, e perfino nella loro ragione. È certo che avranno dissuasa Beatrice, che le avranno dipinto Colombo come un audace cianciatore, 0d un visionario.
D’altra parte, perchè un’intelligenza così ferma come quella di Colombo dovesse cedere a’ movimenti del cuore, la bellezza di dona Beatrice doveva esser tale, da non poterlesi resistere, le sue doti morali formando colla sua persona un insieme di maravigliosa armonia. Ma s’ei l’ammirò a motivo delle sue attrattive, vuolsi credere che l’amasse perch’essa amò lui. La riconoscenza, quel generoso sentimento che mette radici nel più profondo dell’uman cuore, soggiogò la tenerezza di quest’uomo cui null’altro avrebbe assoggettato, dacchè racchiudeva nella sua meditazione il più vasto pensiero che unqua fosse.
Non fu matrimonio di convenienza, di fortunao di stato; sibbene una inclinazione pura, invincibile, più forte dell’ambizione, dell’esperienza e della sciagura. Questo legame era misteriosamente destinato a Cristoforo Colombo qual prova suprema. Bisognava ch’egli amasse con tutta la possa del suo cuore, perché la necessità di abbandonare risolutamente la persona amata, di vivere volontariamente lontano e separato da lei, affine di compiere l’opera sua, rendesse più meritorio il suo sacrifizio, più sublime l’immolazione del suo cuore; sacrifizio e immolazione, di cui nessuno ha parlato mai, di cui la storia non gli ha tenuto alcun conto.
La felicità che gli offriva Beatrice, posta come una tentazione, sulla via austera ch’ei doveva correre, non potè incatenare quell’anima tutta ispirata dalla sua missione, e stornarla dal suo scopo immortale. Mentre Colombo er’ancora a Cordova, e non ostante le dolcezze della sua unione, pur continuò con eguale perseveranza i suoi. sforzi inutili ond’essere ascoltato, e giungere sino ai Sovrani: non potendo riuscirvi, prese la penna e si rivolse direttamente al re Ferdinando in questi termini:
«Serenissimo Principe,
«Io sono navigatore dalla mia gioventù, e volgon omai quarant’ anni che corro i mari: ne ho visitato tutte le parti conosciute, ed ho conversato con moltissimi dotti, con ecclesiastici, con secolari, con latini, con greci, con mori, con persone d’ogni religione: ho acquistato qualche conoscenza nella navigazione, nell’astronomia e nella geometria: sono alquanto esperto a disegnar la Carta del Mondo, e porre le città, i fiumi e le montagne a’ luoghi ove son veramente: mi son applicato a libri di cosmografia, di storia e di filosofia: mi son ora deciso ad intraprendere la scoperta delle Indie; e vengo all’Altezza Vostra per supplicarla di favorire la mia impresa. Io sono certo che quelli che udiranno la cosa, se ne faranno beffe; ma se l’Altezza Vostra vuol darmi i mezzi di eseguirla, qualunque sieno gli ostacoli che mi si appresenteranno, spero di farla riuscire.»
Questo stile retto, fermo e conciso, in cui i fatti tengon luogo di parole, porta l’impronta del carattere dell’Uomo.
A questa lettera non fu data risposta. Come il suo autore aveva preveduto, probabilmente quelli a cui fu comunicata se ne beffarono, e il re fece com’essi. Colombo aspettò senza scoraggiarsi; continuando, però, a cercar nuovi mezzi per essere ascoltato. Finalmente, dopo tanti dispiaceri sofferti in silenzio, riuscì a fare conoscenza coll’antico Nunzio Apostolico, monsignor Antonio Geraldini: a preghiera della Regina, questo prelato era tornato in Ispagna per compiervi l’educazione dell’Infanta, sua primogenita.
L’alta intelligenza di Antonio Geraldini lo disponeva ai grandi concepimenti: di ventidue anni era stato coronato col lauro d’oro fra gli applausi di quasi tutta l’ltalia: secondo Apostolo Zeno .aveva composto, fra l’altre notevoli poesie, dodici elegie sulla vita del Salvatore: la sua precocità negli affari non allentava la generosità del suo spirito. Appena ebbe conosciuto Colombo, l’antico Nunzio risentì per lui una viva attrazione, e si trovò suo amico, non credendo essere che suo protettore: parlò del progetto di lui coi primi personaggi della Corte, sopratutto col grande cardinale di Spagna, don Pedro Gonzales de Mendoza, ch’era altresì gran cancelliere di Castiglia, e che, per la sua potente influenza, veniva soprannominato terzo re delle Spagne.
A richiesta dell’antico Nunzio, il gran Cardinale accolse il navigatore straniero. Più abituato agli affari del priore di Prado, e misurando gli uomini al primo gettarvi su gli occhi, appena ebbe veduto Colombo, comprese la sua superiorità: dopo uditolo, gli diede la sua stima, e concepì sì alta opinione della sua persona, che, prestatogli fede, anche senza investigar profondamente il merito del suo progetto, cosa che non poteva immediatamente fare, ne parlò ai re. Per questa benevola intromissione, Colombo potè finalmente ottenere udienza.
A malgrado della povertà delle sue vesti e del suo accento straniero, Colombo si presento senza esitare e senza scomporsi innanzi ai Sovrani. La dignità del suo volto, la grazia austera del suo contegno, la nobile familiarità del suo dire fermarono la loro attenzione. Lo si sarebbe detto un re travestito che conversava con suoi eguali. Dimentico della sua povertà, tutto compenetrato della santità del suo scopo, e sollevandosi all’altezza del suo mandato, egli si presentava come l’inviato dalla Provvidenza, «mandato in ambasceria» secondo la sua espressione, verso i più potenti principi cristiani, e sopratutto i più zelanti per la fede, a proporre ad essi tale impresa che immortalerebbe il loro regno, «facendo servigio a Nostro Signore, diffondendo il suo santo nome e la fede fra popoli,» che ignoravano ancora il Messia. Glorificare il Redentore, portare il Vangelo e l’incivilimento alle contrade più remote, e rendere proficua a questo modo la potenza temporale, questo era prepararsi una corona imperitura nell’eternità.
Rivolgendosi alla regina di Castiglia, Colombo si fondò unicamente e schiettamente su questo motivo religioso. I vantaggi politici e commerciali che aveva messi innanzi co’ governi di Genova, di Venezia e di Portogallo non furono qui presentati se non quali accessorii. ll primo oggetto della scoperta, sciolto e libero da ogni interesse umano, era dunque la glorificazione del Redentore, l’estensione della Chiesa di Gesù Cristo. Ecco ciò che gli storici hanno sino ad ora passato sotto silenzio o lasciato in ombra.
Colombo, uomo di desiderio alla maniera di Daniele, tutto animato dello spirito divino, consapevole dalla religiosità amorevole della Regina, e avendo qual pegno della sua simpatia la benevolenza della sua attenzione, lasciò parlare il suo cuore. Da quel primo istante ella prese un indefinibile interesse a questo straniero, il cui sguardo penetrante, la cui fronte illuminata dal genio, ed il cui linguaggio pieno di una naturale elevazione, non ostante le sue molte scorrezioni, rivelavano la superiorità, e ispiravano, insieme colla fiducia, una stima mescolata a rispetto.
ll re risentti certamente anch’egli di questa influenza; ma il suo carattere freddamente circospetto, e opposto ad ogni seduzione dell’anima, lo impedì di pronunziarsi: volle che un progetto fondato su dati e principii scientifici fosse primieramente esaminato dalla scienza; e chiamo giudice della cosa una giunta di dotti, incaricando il priore di Prado di raccoglierla e presiederla.
La commissione data a Fernando di Talavera non era così facile ad adempiersi come si potrebbe credere. A quel tempo, la Castiglia non annoverava che un piccolo numero di cosmografi, che, a dire di uno storiografo reale, erano tutt’altro che valenti. Difettando cosmografi, il priore di Prado convoco teologi.
Salamanca, ove la Corte passava quell’anno il verno, fu naturalmente il luogo designato alla dotta riunione. Ad assistere il priore di Prado, fu dato quale assessore il suo parente dottor Rodrigo Maldonado di Talavera, podestà di Salamanca. La storia non ha conservato la data di tal ragunamento memorabile: nondimeno, due circostanze particolari ci permettono determinarlo molto approssimativamente. La Giunta si raccolse nel novembre del 1846. l processi verbali delle sue sedute, imperfettamente compilati due anni dopo, non sono peranco usciti dagli archivi di Simancas. Mancando questi documenti, conviene formarsi almeno un’idea del luogo e delle persone che videro questo curioso dibattimento fra l’intuizione del genio, e l’incredulità della invalsa consuetudine.
§ II.
La città di Salamanca si occupava esclusivamente di Religione e di Scienza. Oltre il collegio del re, degli Ordini di Calatrava e di Alcantara, delle città di Burgos e di Oviedo, degli Irlandesi, di san Giovanni, di san Pelagio, di san Michele, de’ santi Pietro e Paolo, del Monte degli Olivi, della croce di Santa Maria, di san Bartolomeo, ecc. ecc.; i Domenicani, i Francescani, gli Agostiniani, i Benedettini, i Geronimiti, i Bernardini, i Padri della misericordia, i Trinitari, i Canonici regolari, i Carmelitani scalzi, aveveanvi tutti la loro particolare scuola.
Questi diversi istituti comprendevano ogni grado di istruzione. Gli uni si limitavano all’insegnamento del latino, delle umanità; mentre altri spingevano lo sviluppo degli studi sino alle scienze naturali, al diritto ed alla teologia. Ne’ conventi in cui si professavano questi corsi superiori, sale pubbliche, esteriormente annesse al chiostro, aprivansi alla gioventù: gli studenti vi convenivano alle ore delle lezioni, come oggidì nelle nostre Facoltà.
L’istruzione in tutti i gradi era dunque largamente dispensata a Salamanca. Questi così numerosi istituti di educazione insegnavano sotto la direzione unica di un consiglio chiamato l’Università, a cui presiedeva un rettore eletto a voti il giorno della festa di san Martino, che aveva dipendenti da’ suoi ordini più di quaranta segretari, ragionieri, ufficiali, mazzieri e bidelli: e sotto la sua vigilanza settantatrè cattedre, la cui esistenza er’assicurata da largo reddito. Circa otto mila studenti erano iscritti sui registri della potente Università.
Per le sue ricchezze, la sua celebrità, le sue influenze, l’Università regnava a Salamanca: ell’aveva la sua amministrazione, il suo governo personale, la sua cancelleria, i suoi dominii, il suo notariato, i suoi giudici, i suoi medici, i suoi musici, il suo predicatore, la sua chiesa speciale dedicata a san Girolamo, il suo spedale, sotto l’invocazione di san Giovanni Battista, esclusivamente a pro degli studenti poveri, e la sua vasta biblioteca aperta ogni giorno per quattr’ore ai professori ed agli allievi.
Per la sua Superiorità reale, e per la sua rinomanza, il collegio degli alti studi, diretto dai Domenicani nel loro convento di santo Stefano, la vinceva allora su tutti gli altri istituti. Nel ricinto di quel chiostro si raccolse pertanto la giunta scientifica.
Nessuno dubiterà che questo congresso di Salamanca non fosse per suscitare grande aspettazione. Primieramente era fatto nuovo, non mai dianzi visto, e, in secondo luogo, la stranezza dell’argomento da trattare suscitava la curiosità d’ogni pensatore. Sedeva vice presidente della Giunta il dottore in diritto Rodrigo Maldonato, reputato geografo, non si sa perchè, uom grave senza pedanteria, e di una squisita affabilità, che, nato a Salamanca, vi aveva ricevuto la istruzione e i gradi universitarii. La sua famiglia, i suoi amici pigliavano un interesse personale ai dibattimenti che stavano per cominciare. ll giovane Gaspare de Gricio, segretario del re, e altri ufficiali della corte, eran nati anch’essi a Salamanca.
Una circostanza singolare e quasi ridicola aumentava il romore di tale avvenimento: la confraternita de’ barbieri di Salamanca aveva la sua bandiera, la sua cassetta della limosina e la sua cappella nel convento di santo Stefano: nella loro vanitosa gioia tutti i figari dell’Università parevano partecipare all’onore reso al convento dei Domenicani: da questo giudichi il lettore, se la loro loquacità potesse lasciar qualche riposo ai loro clienti, e se fosse permesso a Salamanca d’ignorare la esistenza di tal dotto congresso. Perfino i mulattieri e le nutrici sapevano che uno Straniero pretendeva di provare che la terra è rotonda come un arancio, che vi hanno paesi in cui gli uomini camminano col capo in giù, e che, continuando a navigare dirittamente all’occidente, si tornerebbe per la parte d’oriente. ll pubblico stupiva che si trattasse seriamente una simile facezia.
La Giunta fu composta de’ professori di astronomia e di cosmografia che sedevano sulle prime cattedre di quell’Università, e dei principali geografi e geometri che avevano studiato le matematiche sotto maestro Apollonio, e la fisica sotto maestro Pasquale de Aranda, i due soli professori eminenti in fatto di scienze che Salamanca allora possedesse. Nè il padre Juan Perez de Marchena, nè il giovane piloto Juan de la Casa fecero parte di quella riunione. Lo spagnuolo, senza alcun dubbio più competente a que’ di in fatto di cosmografia, il dotto lapidario di Burgos, Jaime Ferrer, che il gran Cardinale onorava della sua amicizia, non aveva per mala ventura potuto essere chiamato: ei si trovava probabilmente allora al Cairo o a Damasco pel suo commercio di pietre preziose.
La Regina, che tante volte nel pensiero di favoreggiare gli studi, aveva assistito alle tesi per la licenza e il dottorato, non volle in questa circostanza colla sua presenza recare impedimento alla libertà della discussione: si privò del piacere di assistere a quella lotta del genio contro l’erudizione. D’altronde, a que’ giorni essa era realmente affaccendata in rivedere tutti i processi e le cause di Valladolid, affine di scoprire in qual maniera vi era stata resa la giustizia. Ma la purista dona Lucia Medrano, avvezza a spiegare in pubblico i Classici, la celebre dona Beatrice Galindez, soprannominata la latina, nata a Salamanca, e da cui la regina aveva imparato la lingua di Virgilio, l’armoniosa Fiorenza Pinar, amata per le sue poesie, e Francesca de Lebrija, dotta figlia del dotto maestro, che ella doveva surrogare un giorno nell’Università di Alcala, figuravano ammesse al convegno.
Fra’ personaggi più notevoli che tenner dietro assiduamente a que’ dibattimenti, si noverarono il Nunzio Apostolico, Bartolomeo Scandiano, e più spesso suo nipote Paolo Olivieri, segretario della Nunziatura, propagatore del buon gusto; il già Nunzio Antonio Geraldini, e suo fratello, l’ingegnoso Alessandro, il decano di Campostella, Didace Muro, segretario del primo Ministro, l’illustre professore Guttierez di Toledo, cugino del Re, il siciliano Antonio Blaniardo, più conosciuto sotto il nome romano di Flaminio, il suo compatriota Lucio Marineo, Villa Sandino, primo professore di diritto ecclesiastico; Pietro Pontea professor supplente di diritto civile, conosciuto dal padre Guardiano della Rabida; il matematico Juan Scriba, che dismise il compasso per diventare ambasciatore; il dottore Gaspare Torrella di Valenza, poscia chiamato qual medico da due Papi, e che, dopo di avere sollevato i corpi, volendo guarir le anime, morì vescovo di Santa Justa; il portoghese Arias, professore di letteratura greca, spesso lontano dalla sua cattedra per la sua cattiva salute. ll primo professore di teologia del collegio di Santo Stefano, fra Diego de Deza, egualmente rinomato per la sua pietà e la sua scienza, precettore del Principe reale, era in grande stima ed amore in questa università, di cui, dopo d’esserne stato l’allievo, faceva allora la gloria; intorno a lui si raccoglieva il fiore della Scuola.
Si vuol confessarlo schiettamente: in questo congresso l’uditorio era meno imponente dei giudici; aveva altrettanto sapere, e maggiore indipendenza. ll lettore ricorderà. come il presidente della commissione era contrario al disegno di Colombo; il suo assessore, Rodrigo Maldonado, la pensava allo stesso modo. Secondo che avvengono le cose ne’ giudizi delle commissioni, è certo, che, anche prima di sedere, la Giunta, tenendo giustissima l’opinione già conosciuta del presidente, era fortemente prevenuta contro la tesi che doveva giudicare, e contro l’Uomo che veniva a sostenerla e difenderla.
Primieramente tutti lo consideravano come un orgoglioso che pretendeva scoprire una cosa, alla quale nessun cosmografo aveva pensato, donde s’induceva che nel suo interno egli si supponeva superiore a tutti i suoi predecessori. D’altra parte, egli era straniero; la qual circostanza lo aggravava molto, e costituiva forse il maggiore suo torto.
Al giorno indicato, Colombo comparve dinanzi a’ suoi giudici con una grande tranquillità di animo, non ostante l’infinita distanza che lo separava dalle loro idee.
Gli uni credevano fermamente che la Terra era il corpo più vasto della creazione visibile, il centro fisso dell’universo; quindi trovavano cosa naturalissima che,il Sole girasse intorno ad essa: per la sua massa poi, la Terra superando tutti gli astri, essa sola era lo scopo dei loro diversi movimenti. Altri reputavano che la Terra era un circolo piatto, od un quadrilatero immenso, limitato da una massa d’acqua incomensurabile. Gli uni ammettendo la forma quadrangolare o circolare, ma sempre piatta della Terra, limitavano l’estensione dei mari al settimo della sua parte solida: gli altri, non fabbricandosi alcun sistema, giudicavano qual sogno qualunque idea contraria agli antichi autori.
Alcuni inchinavano a vedere nella teoria di quello Straniero una innovazione pericolosa, in fondo alla quale covava forse qualche eresia.
Colombo si era indebolito, e quasi disarmato prima di parlare, colla sua risoluzione di non oltrepassare in quella controversia certe generalità, e di non dar più oltre in balìa alla pubblica indiscrezione la sorgente intima delle sue convinzioni. La perfidia del Portogallo teneva sempre sveglia la sua prudenza, anche dinanzi alla leale corte di Isabella. Quello ch’egli era per istabilire sopra notizie e fatti cosmografici, non costituiva dunque la ragione decisiva del suo sistema, e la dimostrazione perentoria di questo: ei presentava come sue ragioni principali solamente i suoi argomenti secondari.
Non ostante questa imbarazzante complicazione, Colombo espose con fidanza i ragionamenti fondamentali ch’erano la base del suo progetto: siccome si appoggiava specialmente sulle scienze, l’assemblea non potè seguire molto innanzi la sua argomentazione: soli i Domenicani di Santo Stefano l’ascoltarono con attenzione e favore.
Alcuni membri della Giunta obbiettarono alle sue deduzioni diversi passi delle Sante Scritture, che applicavano molto male, e frammenti tronchi di alcuni scrittori ecclesiastici contrari al suo sistema. Varii professori «cathedraticos,» stabilirono per maggiore e per minore che la Terra è piatta come un tappeto e che non potrebbe esser rotonda, dacchè il salmista dice: «Distendendo il cielo come una pelle,» extendens cœlum sicut pellem; il che sarebbe impossibile se la Terra fosse sferica. Lor si opponevano le parole di san Paolo, il quale paragona i cieli ad una tenda spiegata al di sopra della Terra, ciò ch’esclude la rotondità. Altri, meno rigidi, o meno estranei alla cosmografia, sostenevano, che, ammettendo la rotondità della Terra, il progetto di andare in cerca delle regioni abitate nell’emisfero australe era chimerico, perch’esso giaceva occupato dal mare tenebroso, golfo formidabile e senza limite: che se, per buona ventura, una nave mossa in quella direzione giungesse a toccar le Indie, non se ne potrebbe aver mai notizie, perchè questa pretesa rotondità della Terra formerebbe un ostacolo insuperabile al suo ritorno, per favorevoli che si supponessero i venti.
Quando egli rispondeva con ragioni tratte dall’esperienza e dalla nautica, gli era replicato coll’autorità di Lattanzio e di sant’Agostino, il quale condanna l’opinione di chi crede agli antipodi; e si citavano per giunta Epicuro e Seneca.
Rispetto a Seneca, i «cattedratici» commettevano un errore involontario: credevano di parlare del filosofo Lucio Anneo Seneca precettor di Nerone, e gli attribuivano questo passo delle suasoriœ «Alessandro s’imbarcherà egli sull’Oceano, essendo l’India in capo al Mondo laddove comincia la notte eterna? » Ora questa quistione non fu per niun modo trattata dal filosofo Seneca. Suo padre, il retore Mucio Anneo Seneca, che viveva sotto Augusto, fu desso che l’aveva collocata nelle sue suasoriœ: ma che cos’erano le suasoriœ? abbozzi di retorica, argomenti di amplificazione, che suscitavano dibattimenti finti, meri assalti di eloquenza: e con fantasie d’imaginazione, con temi di composizione oratoria si pretendeva confutare la teorica di Colombo!. . .
La discussione era troppo estesa, e toccava troppe quistioni incidenti perchè la si potesse terminare prontamente. Dopo ciascuna ragione esposta da Colombo, tenevasi una riunione segreta della Giunta, affine di verificare la forza degli argomenti, le autorità allegate, e preparare risposte od obbiezioni per la seguente sessione. Queste conferenze richiesero un certo tempo, durante il quale Colombo fu ospite del convento di Santo Stefano. I Domenicani provvidero a tutti i suoi bisogni generosamente, e gli rimborsarono le spese del viaggio. Anche oggi la loro Comunità trae onore da questa ospitalità così degnamente esercitata verso il messaggero della Provvidenza, allora sconosciuto.
Sentendo molto bene che in questa Giunta, ove il numero de’ teologi vinceva d’assai quello degli uomini di mare e de’ cosmografi, le induzioni puramente scientifiche non basterebbero a’ suoi giudici, Colombo si decise, non ostante il pericoloso sospetto di eresia, a discutere finalmente i testi medesimi delle Scritture, e l’opinione dei commentatori.
L’ardore del suo apostolato parve allora trasfigurarlo agli occhi del suo uditorio. La maestà della persona, il lampeggiare del guardo, il lume della fronte, la penetrante sonorità della voce davano all’autorità della sua parola una persuasione irresistibile per ogni anima elevata. La poesia e la maestà de’ Libri Santi elettrizzavano il suo cuore: la gagliardia del suo parlare si nobilitava per la grandezza dell’argomento; ei ritorceva contra i suoi avversari, sviluppandoli con magnificenza, que’ medesimi testi sacri, ne’ quali avevano creduto di mostrargli la sua condanna.
Dura la memoria della sua nobile attitudine davansi la Giunta. Molti degli astanti ne furono conquisi; fra questi il primo professore di teologia di Santo Stefano, il domenicano Diego de Deza, pigliò le sue difese, e guadagnò alla sua causa i primi maestri dell’Università.
Colombo aveva dunque in suo favore la qualità, se non la quantità de’ suffragi. Ma gli spiriti meticolosi, gli scolastici ostinati trovavano singolarmente prosontuoso che un uom di mare avesse a contraddire l’opinione di sant’Agostino e di Nicola di Lyra: e correva altresì una certa qual vaga voce, che diventava pericolosa in paese, dove l’inquisizione, stabilita da poco, spiegava l’operosità della sua nuova giurisdizione. Per buona ventura il nunzio, monsignore Scandiano, non ignorava nulla di quanto avveniva. Anche l’antico nunzio della Santa Sede era là. ll suo giovane fratello Alessandro Geraldini, prevedendo il pericolo, ottenne incontanente un’udienza dal Cardinale di Spagna. Poche parole bastarono per dimostrargli che l’opinione di Nicola di Lyra, quantunque fosse un eccellente commentatore, o del medesimo sant’Agostino, così eminente per filosofia e santità, non potevano fare autorità in fatto di cosmografia e di navigazione, scienze stranie ai loro studi. L’Opinione del nunzio apostolico, del Cardinale, dell’ex nunzio Antonio Geraldini, di suo fratello Alessandro, e le vive simpatie del primo professore di teologia di Santo Stefano, Diego de Deza, sostenuto da alcune notevoli persone di Salamanca, arrestarono l’effetto di queste perfide insinuazioni, mercè cui il sant’Officio era già entrato in sospetto.
La Corte non aspettò il fine delle conferenze, e partì da Salamanca il 26 gennaio 1487 alla vôlta dell’Andalusia.
La Giunta si separò avanti la primavera senza aver nulla conchiuso. A voci unanimi ella condannò il progetto, sia come immaginario, sia come impraticabile: nondimeno il processo verbale delle sue operazioni non fu redatto e consegnato alla Corte. La guerra contra Malaga fece per allora abbandonare il pensiero di Colombo: Fernando di Talavera non potè occuparsene: da un lato egli non vi prendeva alcun interesse, non avendo fede nella possibilità dell’impresa; dall’altro, obbligato ad accompagnare la Corte qual confessore della Regina, non ostante la sua recente promozione all’episcopato d’Avila, sarebbegli stato assai difficile di poter continuare questo affare, dispersi com’erano i membri della Giunta.
Tuttavia, nonostante il loro sterile riuscimento, le conferenze di Salamanca avevano palesata al mondo l’erudizione, la scienza, i pensieri giganteschi di Cristoforo Colombo. Il suo progetto aveva acquistata un’immensa pubblicità, e il suo nome correva sulle labbra di tutti. La Corte cominciò ad usargli risguardo. Quantunque non si volesse venire allora ad alcuna conchiusione, ed obbligarsi con lui, pur si aveva piacere di favellargli ne’ momenti d’ozio e d’intrattenersi con lui intorno al suo progetto. Sebbene il re fosse risoluto di non avventurare in ciò neppure uno scudo, nondimeno careggiava come un sogno d’oro quella idea di terre sconosciute all’estremità delle Indie, paesi di spezierie, di pietre preziose e di diamanti.
Colombo venne diverse volte chiamato alla Corte; ed ogni volta gli era pagato il viaggio: lo provano i conti del tesorier reale Francesco Gonzales di Siviglia, ove, in data del 5 maggio 1487, si legge: «pagati a Cristoforo Colombo, straniero, tre mila maravedis per cose fatte in servizio delle loro Altezze.» Il tre del seguente luglio gli fu sborsata una simile somma dal medesimo tesoriere. Le operazioni militari che stornavano l’attenzione de’ Sovrani fecero sospendere, ma non respingere la proposizione di Colombo; certe date ne fanno fede. La resa di Malaga avvenne il 18 agosto 1487; e soli nove giorni dopo Colombo riscuoteva dal tesoro reale un mandato di quattro mila maravedis, affine di andare alla Corte per ordine delle loro Altezze: con lui erano ripigliate le conferenze sulla spedizione dell’Oceano per l’Ovest: ma avvenimenti improvvisi di guerra facevano sopraseder sempre l’esecuzione del progetto. Oltre la guerra vi avevano altre vicende dolorose. In quell’anno Cordova fu travagliata dalla peste: quindi la Corte andò in Aragona, a Saragoza, per ivi passare il verno. Anche a Saragoza i Principi si occuparono alcun poco di Colombo: fu colà. chiamato, e una nota del 15 ottobre 1487 indica che riscosse altri quattro mila maravedis.
Inutili istanze, e un’aspettazione sempre fallita occuparono quasi tutti i giorni di Colombo durante il seguente anno.
Nondimeno non dipendeva che da lui di mettere finalmente ad esecuzione il suo disegno. Il re Giovanni II, il solo portoghese che abbia saputo indovinare il suo genio, aveva fatto accortamente ripigliare i negoziati con lui. Avendo Colombo nella sua risposta espresso, per dar ragione del suo rifiuto, il timore, che, ove fosse in potere del monarca, i consiglieri potrebbero pigliar qualche pretesto per attentare alla sua libertà, il re gli mandò un dispaccio, in data 20 marzo, contenente un salvacondotto. La soprascritta della lettera era questa: «a A Cristoforo Colombo, nostro amico particolare, a Siviglia.» Ma Colombo, non ostante le sue strettezze, la sua impazienza e il correre degli anni, rimase fermo nel suo rifiuto.
I Sovrani avevano abbandonato Saragozza nella primavera per tentare un assalto improvviso sul territorio de’ Mori. Correndo la state, chiamarono Colombo a Corte, come si prova dall’ordine del 16 giugno 1488 di pagargli tre mila maravedis: fermarono il loro quartiere d’inverno a Valladolid, donde partirono nel febbraio per la città di Medina del Campo, ove volevano ricevere l’ambasceria che mandava loro il re Enrico VII, desideroso di stringere alleanza con loro: sul cominciar di maggio, andarono a Cordova, ove avvisarono che il progetto di Colombo avesse ad essere alla fine seriamente esaminato.
Un ordine del 12 maggio 1489 in data di Cordova, incarico il Municipio di Siviglia di allestire un alloggio gratuito per Cristoforo Colombo, che il servizio dei Re chiamava a Corte.
Sopraggiunse un nuovo impedimento.
Era stato deciso di assediar Baza. Bisognava, senza perdere un giorno della buona stagione, conquistare questa piazza, una delle più forti che possedesser i Mori; onde il progetto di Colombo fu lasciato di bel nuovo in sospeso. La rassegnazione del Valentuomo pareggiava la persistenza quasi fatale delle cause che ritardavano continuamente la sua impresa. Non si vede, che, in mezzo a tali contrarietà, gli sia mai sfuggita una querela, o ’l minimo atto d’impazienza.
§ III.
L’assedio di Baza non era una semplice combinazione strategica, sibbene la penultima scena del dramma della Crociata. La sorte de’ Mori in Ispagna dipendeva da questo assedio. Colombo cinse la spada e andò al campo.
Quivi, oscuro volontario, servì la causa della Croce con prodezza e umiltà pari. Sembra, altresì, che abbia dato eccellenti consigli intorno alle operazioni dell’assedio: ma la sua povertà, la sua qualità di straniero e di uom di mare impedirono il Consiglio del re di profittarne. Diverse piccole rotte patite sul cominciare di quella stagione campale, e le piogge che cadevano a torrenti, unite colle malattie cagionate e moltiplicate dalla penuria delle vettovaglie, fecero cader d’animo i principali guerrieri. ll re bramava levar l’assedio per la tema di un qualche maggior disastro. Ma prima di decidere consultò la Regina, che a que’ dì stanziava a Jaen: Isabella lo rincuorò promettendogli uomini, danaro, vettovaglie, munizioni; diede incontanente in pegno alle città di Barcellona e di Valenza, le sue gioie, il suo vasellame d’oro e d’argento, e si fece provveditrice generale dell’esercito, perocchè nessuno volle esserlo, così a motivo dello stato infelice delle strade, come pel continuo pericolo delle imboscate dei Mori. Ella raccolse sei mila manuali per riparare le strade sfondate, per costruire ponti, e farvi passare le grosse artiglierie; appigionò quattordicimila muli, e organizzò un servizio regolare di trasporto, che rifocillò e rincuorò il campo. Affine poi di stimolar l’ardore cristiano, mandò all’esercito assediante due Francescani venuti da Terra-Santa, recanti un messaggio minaccioso del Soldano di Egitto.
Ma non ostante i commoventi racconti di quei Religiosi, l’assedio andava per le lunghe. Vi aveva indecisione, esitazione nell’attacco, incoerenza negli ordini: mancavano assieme e vigoria. Isabella allora venne al campo, assumendo, senza neppur dirlo, il comando supremo dell’esercito. La presenza di questo gran condottiero mutò aspetto alla guerra ed all’assedio. Una improvvisa riforma si operò nelle abitudini degli assedianti; quindi non più controversie tra l’un capitano e l’altro, non più lungherie e discrepanza negli ordini. Si moltiplicarono le strade coperte, si procedette innanzi colle parallele; la guardia delle trincee fu vigile, tutta occhi ed orecchi, e gli attacchi diventarono regolari e continui. Non passò giorno, notte, anzi ora senza che le artiglierie battessero le mura della fortezza e impedissero i lavori di riparazione; sicchè, scoraggiati da tanta operosità, sin allora sconosciuta negli assedi, sentendo i Mori l’inutilità di un più lungo resistere, chiesero di capitolare.
Questa vittoria, dovuta unicamente alla tattica della Regina, conquise di ammirazione tutti gli uomini di guerra. Nel riferire questa influenza d’Isabella, tanto maravigliosa da sembrare una poetica esagerazione, il prode Hernando del Pulgar, il quale aveva combattuto in quell’assedio, dice che ne parla qual testimonio di veduta; chiama Dio in testimonio della sua veracità, e se ne appella alla memoria de’ suoi compagni d’arme.
La presa di Baza empiè d’allegrezza la Spagna cristiana, e diffuse lo spavento in tutto l’islamismo. Siviglia preparò un magnifico ricevimento ai due re, i quali fecero una trionfale entrata nelle sue mura. Colombo vide succedere una festa all’altra, ma dolorato, perchè quelle allegrie allontanavano da capo l’opportunità che da oltre due anni aspettava, di ripigliare le conferenze intorno al suo progetto.
Appena i Sovrani si furono riavuti dalla stanchezza di quelle lunghe feste, il negoziato di matrimonio della loro primogenita, l’infanta Isabella, coll’infante don Alonzo, erede presuntivo della corona di Portogallo, occupò tutta la loro attenzione.
Nuove feste precedettero l’unione dei due Principi, la quale avvenne nell’aprile del 1491. Nuovi splendori accompagnarono e seguirono questa cerimonia. Il corso dei piaceri e delle solennità pareva interminabile. I banchetti, i caroselli, le danze, le passeggiate notturne allo splendore di mille faci respingevano l’intempestiva gravità delle discussioni scientifiche. Di qual pazienza non dovett’essere dotato Cristoforo Colombo!
Prima che tornasse il verno, fu impossibile rimettere in campo ciò ch’era stato discusso a Salamanca. Intanto la relazione che la Giunta doveva consegnare ai re non era peranco stata compilata. Sapendo Colombo che la Regina non poserebbe prima che Granata non fosse ridotta sotto la signoria della Croce, raccolse gli sforzi di quelli che lo amavano, e ottenne che Ia Giunta sentenzierebbe definitivamente intorno al suo progetto.
Il vescovo d’Avila, Fernando di Talavera, presiedette nuovamente quella riunione. La sua opinione non era mutata. Tutti i membri della Giunta dichiararono ad una voce che questo progetto posava sopra una base falsa e immaginaria, perocchè il suo autore affermava essere una verità ciò che risultava impossibile.
Non ostante queste avverse conclusioni, la Regina non metteva punto in abbandono quel progetto. Tuttavia, siccome la guerra che stava per muovere a Granata, la costringeva aspese enormi, Fernando di Talavera fu incaricato di dire a Colombo, che la penuria estrema del tesoro pubblico impediva la Regina di pensare allora alla sua impresa; ma, compiuta appena la guerra, l’esame della sua proposta sarebbe ripigliato.
Dopo tanti anni di rassegnata aspettazione, di perseveranti tentativi, di speranze svanite, una tale risposta avrebbe avvilito qualunque altro; ma non Colombo: indurato alle privazioni. alle beffe ed ai dispregi della superba ignoranza, egli sostenne con fermezza questo nuovo inciampo. Volendo assolutamente che la Spagna, il cui zelo religioso e il cui carattere cavalleresco interessavano le sue più intime simpatie, profittasse della sua scoperta, ne propose l’impresa ad uno de’ più gran signori di Castiglia, il duca di Medina-Sidonia, che aveva in proprio una flotta, porti, e perfino eserciti. Alcuni anni prima per isciogliere dal blocco Alhama stretta dai Mori, il Duca aveva levato sulle sue terre quarantamila fanti e cinquemila cavalli. La Casa de’ Medina-Sidonia teneva realmente sembianze di sovrana. La sua potenza cresceva mercè del parentado colle famiglie più antiche della Spagna, fra le altre con quella di madamigella Eugenia di Montijo, contessa di Teba, ora imperatrice de’ Francesi.
Un’accoglienza onorevole, e l’offerta di raccomandarlo alla Regina. fu tutto quello ch’egli ottenne da questo gran Gentiluomo, allora anch’egli affaccendato per gli apparecchi della prossima guerra. La vastità medesima dei progetti di Colombo gli fece considerare la sua impresa come un’illusione, forse un’insidia tesa alle sue ricchezze: entrò in diffidenza di lui, sopratutto perch’era straniero.
ln questo mentre, un gentiluomo chiamato Morales, intendente del duca di Medina-Celi, il quale possedeva anch’esso una flotta potente, stimolo il suo Signore a tentare l’impresa: quindi Colombo fu pregato di andare a Porto Santa Maria, città appartenente al Duca. Una nobile ospitalità ve lo aspettava. ll duca di Medina-Celi, colpito dalla grandezza del suo carattere, e conquiso dal suo conversare, pose tale fiducia in lui, che fece costruire incontanente alcune navi acconce ad un viaggio di scoperte: indi, nel punto di mettere la cosa ad esecuzione, ravvedendosi e temendo che una tale impresa, fatta in suo nome, potesse offendere la Regina, pensò di doverne chiedere l’autorizzazione, e a tale effetto le scrisse.
La Regina seppe grado al duca di Medina-Celi dell’atto ossequioso e lo pregò di cedere le navi allestite alla Corona, mediante intero pagamento dello speso, da effettuarsi dopo la guerra: dicevagli non avere interissima fede nel felice riuscimento di quel progetto, pur essere decisa di farne l’esperimento. Isabella invitò dunque il duca di Medina-Celi, a mandarle Colombo; e tosto ch’esso fu giunto, lo confidò alle cure di Alonzo di Quintanilla, la cui nobiltà di spirito, la vastità de’ pensieri e lo zelo cattolico meritavano l’onore di una missione siffatta. Più volte allora la Regina chiamò a sè Colombo, s’intrattenne con lui del suo progetto, e lo assicurò, che, dopo la guerra, lo si eseguirebbe. Ma chi poteva sicurare quando finirebbe la guerra? Tutti i Mori di Spagna vedevano in Granata l’ultimo loro baluardo: la lor difesa, preparata da lungo tempo, appariva dover essere disperata: rimettere l’impresa alla fine della guerra, non era sospenderla indefinitamente?
Riandando seco stesso le dilazioni, i rifiuti, le beffe, gli affronti, i viaggi, le umiliazioni nelle anticamere da lui patite in silenzio; vedendo la sua vita logorarsi penosamente, e indarno temendo che la Spagna, cieca e sorda a’ suoi propri interessi, ingrata verso la costanza del suo attaccamento, non fosse per una tale ostinazione diseredata dalla Provvidenza delle grandezze che le destinava, Colombo cessò di insistere. Col petto pieno d’indegnazione, col cuore gonfio di amarezza, e scuotendosi la polvere dai piedi, si allontanò da quella Corte, in cui la sua pazienza aveva sofferto tanti e sì diversi dolori, risoluto di andarne difilato in Francia, affine di trattarvi col re, al quale aveva diretta una proposta.
Già, al suo partire da Lisbona, prevedendo il caso che la Spagna fosse per rigettare le sue offerte, onde guadagnar tempo, Colombo aveva mandato suo fratello, il piloto Bartolomeo, a proporre in suo nome l’impresa al re d’lnghilterra: non avea peranco ricevuta notizia del di lui viaggio: eppertanto era deciso di non affrettare il negoziato, che credeva già cominciato a Londra, se non in caso d’un rifiuto formale per parte del Re Cristianissimo.
Prima di abbandonare la Spagna, forse per sempre, voleva condurre in Cordova a sua moglie dona Beatrice Enriquez il giovane Diego, figlio del primo letto, rimasto al monastero della Rabida in mano del degno Juan Perez de Marchena, il quale attendeva caritatevolmente alla sua educazione.
Giunse pertanto al convento della Rabida.
§ IV.
Una tristezza inesprimibile strinse il cuore del Padre Guardiano lorchè vide entrare dalla porta del monastero l’antico ospite, l’amico, recando impresse su tutta la persona le tracce degli affanni sostenuti durante quest’assenza di quasi sei anni. Quando seppe che il grande Uomo, stanco di lottare col dispregio dei dotti e il temporeggiar della Corte, era determinato di abbandonare la Spagna e dotare delle sue idee un’altra nazione, il suo amor patrio tanto se ne commosse quanto la sua amicizia: tremò pel suo paese; temette di vederlo irremissibilmente privato della gloria e della prosperità che gli acquisterebbe quella impresa; e supplicò Colombo di sospendere la sua partenza, e di trattenersi qualche tempo con lui.
.luan Perez pregava l’amico, il condiscepolo in san Francesco; non poteva essere rifiutato. D’altronde la pace del Chiostro era salutare a Colombo; egli aveva bisogno di raccogliere lo spirito, di riposarsi in Dio delle fatiche del mondo; di ringiovanire le sue speranze, di raffermarsi vieppiù nella sua vocazione eccezionale; di attingere a questa sorgente misteriosa nuove forze contro i dispregi e le lotte che gli rimanevano da sostenere.
Fin allora il padre Guardiano della Rabida aveva accettato per simpatia spontanea, e per convinzione preesistente il progetto di Colombo: lo aveva giudicato intuitivamente fuor d’ogni straniera influenza: nondimeno, considerando, che, per ben due volte, la Giunta de’ cosmografi aveva respinto le idee del suo ospite, la modestia gli fece pensare ch’egli poteva forse essersi ingannato, scambiando i suoi desiderii in ragionamenti, e i suoi ragionamenti nella verità stessa. Affine di sciogliersi dal dubbio, volle sentire un altro parere sul sistema di Colombo, e mandò a Palos pel medico Garcia Hernandez, matematico assai versato in cosmografia. Tutti e tre conferirono su quel progetto, scopo di tanti dibattimenti. L’opinione di Garcia Hernandez fu assolutamente conforme a quella del dotto Francescano. Il progetto parve fondato.
Da quel punto il Guardiano della Rabida cessò di pregare e di discutere, sibbene operò. ll padre Juan Perez decise che scriverebbe direttamente alla Regina. Ma, per evitare che la sua lettera avesse la sorte troppo comune de’ carteggi fidati alle mani de’ segretari, risolvette di farla consegnare alla Regina medesima da persona sicura e a lei affezionata. L’ascendente del padre Juan Perez sugli uomini di mare del littorale gli permise, di buon accordo con Garcia Hernandez, di scegliere tal messaggero, che potesse, bisognando, far officio eziandio di gagliardo difensore: fidarono la lettera ad uno de’ notevoli di Lepe, il pilota Sebastiano Rodriguez, che, per la sua pratica degli affari, e per una certa abilita nel correre le anticamere, aveva saputo acquistarsi relazioni alla Corte.
Questa er’allora al campo, il quale per un accidente sopraggiunto, aveva assunto forma di città. Nella notte del 18 luglio il fuoco si era appiccato al padiglione della Regina, e di là a a tutte le tende della soldatesca, con somma gioia de’ Mori, che mettevano grandi speranze in tale infortunio. Per provare la sua immutabile risoluzione di non levare l’assedio se non dopo soggiogata Granata, la Regina comandò che fosse rifatto il campo in pietra e legno. Diretto da un tale architetto, l’esercito rizzò in alcune settimane una vera citta in formadi Croce, la più regolare certamente di tutta la Spagna. l cavalieri vollero decorare col nome d’Isabella questo improvvisato monumento della sua audacia: ma la modestia della Regina la distolse dall’accettare un tale omaggio: desiderando che la nuova città portasse il nome della sua origine, la denominò città della Santa Fede, o «Santa Fè.»
ll piloto ottenne con astuzia il favore di consegnare alla sua Sovrana la lettera del Guardiano della Rabida: il Francescano faceavi bella mostra del suo zelo per la gloria del Redentore, del suo amor patrio, e del suo attaccamento alla Regina.
ln capo a quattordici giorni, il piloto ricomparve alla Rabida portatore di un messaggio reale. Ringraziando delle sue intenzioni il suo antico confessore, Isabella lo invitava, al ricevere della sua lettera, di andare a lei; e da quel momento l’autorizzava a ravvivare le speranze di Colombo. Queste parole della Regina ricolmarono di gioia la piccola Comunità. e il suo Ospite.
Colombo corse immantinente a Moguer, per pregare un eccellente uomo, Juan Rodriguez Cabezudo, che volesse prestare la sua mula al padre Guardiano della Rabida, chiamato improvvisamente al campo di Granata da Sua Altezza. Cabezudo, ch’era in molto buona relazione coll’abate Martino Sanchez, amico di Colombo, gli rese volentieri questo servigio. ll padre Juan Perez de Marchena partì in segreto dal convento, senza lanterna, un po’ avanti la mezzanotte, non ostante il pericolo di cadere in qualche imboscata e in qualche masnada di predoni; traversò coraggiosamente le terre nemiche, fidando in Dio; ed affrettandosi, giunse felicemente alla città di Santa Fè.
Perchè la Regina ascoltasse in questo tempo la proposta di Colombo, e da sè sola approvasse un progetto condannato dalla Giunta scientifica, bisognava ch’ella fosse potentemente inclinata a sì fatta impresa. In mezzo alle penurie del tesoro ed alle incertezze sul finir della guerra, occuparsi ancora di questo affare era una prova significativa dell’adesione che il suo cuore istintivamente gli dava.
Nessuno meglio del Guardiano della Rabida era in istato di esporre all’intelligente Isabella la sublimità di Colombo: nè solamente del suo progetto poteva parlare; a lui solo erano note la predestinazione e le intenzioni dell’uomo che la Provvidenza mandava alla Regina qual guiderdone della sua vita, per eternarne la gloria.
Perciò il Francescano riuscì interamente nel suo proposto.
Non ricordando più la Giunta di Salamanca, ma solamente gli elogi dati a Colombo dai due Geraldini, dal gran Cardinale di Spagna, dal professor Diego de Deza, da Alonzo di Quintanilla, e da Luiz di Santangel, e confidando sopratutto nelle sue prime impressioni, la Regina incarico il padre Guardiano di mandarle incontanente Colombo. Siccome nella sua ingegnosa previdenza Isabella indovinava la di lui povertà, volendo ch’ei potesse vestir meglio, acquistarsi una cavalcatura, e apparir degnamente alla Corte, gli fece pagare ventimila maravedis in fiorini d’oro col mezzo del sensale marittimo di Palos, l’alcalde Diego Prieto, il quale dielli colla lettera di Juan Perez al medico Garcia Hernandez, acciò li consegnasse a Colombo.