Cristoforo Colombo (de Lorgues)/Libro I/Capitolo IV
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Traduzione di Tullio Dandolo (1857)
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CAPITOLO QUARTO.
§ I.
Ad una mezza lega da Palos, in vista dell’Oceano, sorge un promontorio scosceso attorniato da vigneti e fichi, e la cui vetta era coronata da un bosco di pini ombrelliferi. Simile a nido di colomba, un monastero ascoso dalla foresta innalzava il suo campanile sopra la cima degli alberi, esalanti un odore, il cui aroma salutare si maritava al profumo del timo e della lavanda che lor fiorivano appiedi.
Questo monastero, abitato allora dai Religiosi di san Francesco, era dedicato alla Vergine, e si chiamava Santa Maria della Rabida: fu costrutto sui ruderi d’uno di quei templi che il paganesimo piacevasi rizzare ne’ sacri boschi e ne’ luoghi alti. L’edifizio, intonacato di calce alla foggia araba, non presentava unità di stile: appariva ingrandito in diversi tempi, secondo i bisogni, senza simmetria e architettura: il ricinto racchiudeva due chiostri interni, una cappella e un giardino, in cui i gelsomini si allungavano fra’ pampani del pergolato, che formava il passeggio estivo, fiancheggiato da cedri e rosmarini.
Dalla sommità del Convento, la cui cupola, circondata da una balustrata di mattoni, aveva già servito come osservatorio, lo sguardo abbracciava dal lato di terra un largo orizzonte, dalle pianure che il Guadalquivir inaffia, sino alle montagne del Portogallo; si potevano noverare i molti corsi d’acqua e i borghi della provincia di Huelva, poi, verso il mare, la vista si perde per la immensità dell’azzurro,
Nel luglio del 1485 era preposto a questo Convento, qual Padre guardiano, un uomo verso il quale i suoi contemporanei furono colpevoli d’ingratitudine, ma che non potrebbe andar dimenticato nella nostra storia.
Devoto di cuore alla regola del suo istituto, questo Religioso offiriva alla comunità l’esempio di un perfetto discepolo di san Francesco: la fama della sua pietà si era distesa lungi dal chiostro della Rabida: era stato improvvisamente chiamato alla corte. La regina Isabella lo aveva a più riprese chiesto de’ suoi consigli, e faceva di lui tanta stima, che avealo scelto a proprio confessore; ma l’umile Francescano non potè sopportare il romore della corte: aspirava unicamente alla calma del suo chiostro, e le sue istanze gli ottennero finalmente di rientrarvi. La Regina non l’onorava solamente qual uomo di una santa vita, ottima guida spirituale e gran teologo, ma eziandio teneva in sommo pregio la sua modestia, la quale non poteva però nascondere interamente la sua scienza; e lo aveva in conto di un valente astronomo, e di un altrettanto eccellente cosmografo. La testimonianza ch’ella rese contemporaneamente alla sua scienza ed alla mansuetudine del suo carattere è giunta sino a noi.
Questo Francescano si chiamava frate Juan Perez de Marchena.
Fervorosa pietà non aveva spenta in lui la inclinazione alle matematiche; e l’addentrarsi che faceva nelle scienze esatte non pregiudicava punto al suo amore per le lettere. Non si può mettere in dubbio la moltiplicità del suo sapere. L’arcicronografo imperiale Oviedo dice che «questo religioso era gran cosmografo;» lo storiografo reale don Antonio de Herrera aggiunge, che egli era «grande umanista,» vale a dire erudito e letterato. Lo storico delle Indie, Lopez de Gomara, mentova anch’esso la sua letteratura e la sua specialità nelle scienze. Rispetto all’eccellenza della sua virtù, essa fu accertata al sommo pontefice Leone X dal primo vescovo delle Antille: Monsignore.Alessandro Geraldini parla «della sua vita pia e della sua santità conosciuta ovunque.»
Indicata la superiorità intellettuale e ascetica di questo Francescano, lo si può seguire coll’imaginazione sul tetto, ove nella sua qualità di astronomo, egli aveva costrutto un osservatorio: non usava delle sue prerogative di superiore che per ampliare il campo delle sue meditazioni e prolungare l’ore de’ suoi studi.
Molte fiate nelle notti serene, e mentre i suoi Religiosi dormivano, il padre Juan Perez di Marchena, sollevando l’anima verso il Creatore dei mondi, seguiva attento il corso armonioso degli astri. Ardente come un faro, il suo pensiero brillava solitario su quell’informe osservatorio. Quando lungo il giorno coglieva qualche breve tempo sciolto da cure, ritraevasi lassù, e vi studiava gli spazi del cielo, e quelle onde che si andavano a perdere in una lontananza cui nessuno sapeva misurare, verso l’occidente: egli dimandava allora a se stesso, se oltre cotesti spazi, a cui non era giunta mai alcuna vela, si stendeva realmente l’impero del mar tenebroso, quel formidabile oceano, così nominato a cagione delle tenebre e dell’oscurità che velavano la sua natura, la sua profondità, i suoi confini.
Questo dubbio indicava già un progresso.
La credenza de’ cosmografi era singolarmente confusa intorno al mar tenebroso. Gli uni assicuravano, che, continuando a viaggiar all’ovest in linea diritta per ben tre anni, non si giungerebbe ancora alla riva. Altri dicevano, che i flutti del mar tenebroso continuavano all’infinito, e che non aveva sponde. Secondo le divergenze di opinione sulla forma della terra, ogni maestro di geografia variava sistema intorno al mar tenebroso; ma il padre Juan Perez de Marchena, non lasciandosi imporre dai geografi arabi e dai piloti rinomati, chiedeva a sè stesso se oltre queste onde non v’erano terre sconosciute. La sua sollecitudine per la salute de’ popoli che ignoravano Cristo, il desiderio di vedere il santo nome di Gesù benedetto da tutto le nazioni, lo richiamavano di continuo a questo quesito — non vi ha nulla al di la di questo mare?
E sempre i suoi presentimenti gli davano una risposta affermativa. Oltre le conoscenze teoriche, il Guardiano della Rabida, per le sue frequenti relazioni co’ marinai di Palos, piccola città oggidì abbandonata, ma a quel tempo centro di traffici lontani, era al corrente delle spedizioni de’ Portoghesi sulla costa occidentale dell’Africa, e istrutto delle scoperte avvenute alle Azzorre, e al Capo Verde.
Mentre un giorno egli passava accosto alla cella del frate portinaio, vide nel parlatorio esteriore Garcia Hernandez, medico della Comunità, venuto da Palos, il qual guardava con sorpresa un viaggiatore, che, giunto pedone, accompagnato da un fanciullo, in quel luogo così fuor della strada, dimandava al frate portinaio un po’ di acqua e del pane per suo figlio. ll Guardiano notò l’aspetto nobile di quell’uomo, che contrastava forte colla sua povertà. Conoscendo al suo parlare ch’era straniero, si sentì preso da una curiosità mista ad interesse, e gli dimandò donde veniva, ove andava. ll viaggiatore rispose semplicemente che veniva d’Italia, e andava alla Corte, affine di comunicare ai re un progetto importante. ll Guardiano indusse lo straniero ad entrare nel chiostro per riposarvisi; invito accettato.
Lo straniero era Cristoforo Colombo.
ln qual modo si trovava egli giunto colà? questo è ciò che nessuno potrebbe dire.
Qualunque fosse il luogo in cui Colombo avesse preso terra, sia al Porto Santa Maria, sia a San Lucar di Barrameda, sia alla Higuerra, o allo stesso Palos, non v’aveva ragione o motivo di trovarlo al monastero della Rabida. Questo convento, interamente nascosto fra i pini, e visibile solo dal lato del mare, giaceva fuor della via retta che doveva correre Colombo per giune gere ad Huelva: egli non potè arrivarvi se non isbagliando strada: eravi stato addotto da uno di quei casi calcolati ammirabilmente, i quali ci mostrano l’opera di una volontà superiore, dinanzi alla quale noi ci prostriamo.
Colombo non andava allora, come si è tante volte ripetuto, a Huetra a visitare suo cognato Pedro Correa, l’antico governatore di Porto Santo; ma sì ad Huelva, a cercarvi d’uno Spagnuolo oscuro chiamato Muliar, il quale aveva sposato la più giovane sorella di sua moglie, per affidargli suo figlio, mentre dava corso alle sue istanze presso la Corte di Castiglia.
Se la maniera con cui Cristoforo Colombo sbarcò in Portogallo fu poetica e romanzesca, il modo con cui la Provvidenza lo assisteva al suo sbarco in Ispagna, non era certamente meno maraviglioso. Egli vi giunge senza protezione, senza alcuna commendatizia, privo d’ogni appoggio in paese di cui non sa per anco la lingua; e la bontà divina lo indirizza all’uomo meglio preparato alle sue idee, ed il più degno di comprenderle e confermarlo nella sua missione.
Sotto le rustiche lane che gli coprivano il petto, Juan Perez de Marchena nascondeva un generoso amor patrio. Niente avevagli impicciolito il cuore: non l’età, non la scienza, non le austerità. La sua anima espansiva conservava impressioni fresche e vivaci: ella si risentiva della permanente giovinezza della virtù, che il tempo non può affievolire: accolse fraternamente lo straniero, verso il quale si sentì subitamente attirato: una specie d’intimità si fermò incontanente fra loro, perocchè preesisteva già al loro incontro la più stretta associazione di idee che possa riunire due intelletti.
Dopo le prime confidenze di Colombo, il padre Guardiano lo stimolò a dimorar seco, non correndo il tempo propizio per sottoporre immediatamente il suo disegno alla Corte.
Alcuni pretesero, che, diffidando del suo proprio giudizio, il padre Juan Perez avesse mandato a cercare un dotto suo amico, quel medesimo Garcia Hernandez, medico della Comunità, che stanziava a Palos, molto versato nelle matematiche; che il disegno di Colombo fu discusso tra loro in diverse conferenze; che dopo di averlo riconosciuto ragionevole, si decise che sarebbe eseguito. Questo è un errore smentito autenticamente dalla testimonianza del medico Garcia Hernandez in una deposizione giudiziaria.
Fra Colombo e il suo ospite non fu alcuno che intervenisse.
La confidenza del padre Juan Perez fu spontanea e intera, perchè la dimostrazione era perentoria, perchè a lui si rivelava la gran missione di questo Straniero, perchè il Francescano possedeva quel raro lume del cuore, che illumina le grandi quistioni, e senza discuterle le decide: a lui bastavano le sue conoscenze cosmografiche per apprezzare il sistema cosmico di quest’Uomo, che la Provvidenza a lui mandava.
Egli ascoltò, comprese, e credette.
Cosi, in quel pacifico convento di Francescani, il concetto più largo e decisivo fu sviluppato dal genio, accolto dall’entusiasmo. In quel convento fu creduto, con una fede implicita e improvvisa, alla sfericità della terra, all’esistenza d’isole e di continenti, ignorati, ed alla possibilità di arrivarvi, allora che tutte le accademie, i collegi, le università, tenevano queste idee in conto di sogni di un infermo.
Diventate ospite de’ Francescani, sciolto dalle cure della vita materiale, non essendo più obbligato a guadagnarsi il pane quotidiano, Colombo pote impiegare tutto il suo tempo agli affari dell’anima, alla contemplazione delle cose divine. Quivi egli dava opera al suo perfezionamento interiore: voleva colla preghiera e colla purità diventar meno indegno di adempiere l’opera immensa di cui sentivasi incaricato. Avendo libera entrata nella biblioteca del Convento, potè iniziarvisi alle Sante Scritture, svolgere gli autori ecclesiastici, lor parafrasi e commentarii. È noto che aveva studiato san Girolamo, sant’Agostino, sant’Ambrogio, sant’Isidoro, e che conosceva Scotto, Nicola di Lira, ecc. Quivi, senza alcun dubbio, acquistò la svariata conoscenza delle opere teologiche di cui fece prova in appresso. Noi siam fondati a dire che le fatiche dell’Angelo della scuola e del Dottore Serafico, le quistioni nobilmente specolative della metafisica e della morale, non poterono stornare il suo spirito da una ricerca meno alta e più pratica, lo studio della vita de’ Santi. Egli si applicava a considerare gli esempi di questi uomini che avevano diversamente servito Dio; gli uni con un’umile costanza ed un eroismo oscuro; gli altri collo splendore del genio e dell’illustrazione, tutti egualmente preziosi agli occhi del Signore, e onorati nella sua Chiesa. Quantunque non iniziato agli Ordini Sacri, egli aspirava dal fondo del cuore a celebrar la gloria di Gesù Cristo: compenetrandosi delle chiarezze divine, onde le Sante Scritture illuminano l’intelletto del Fedele sinceramente sottomesso, Colombo non si restrinse a frugar solamente nella biblioteca: visse la vita cenobitica, associato agli uffici ed ai posti della Comunità; conobbe lo spirito di san Francesco, e ne affezionò l’Ordine, la regola e l’abito.
Anche il padre Juan Perez amò in Cristoforo Colombo l’uomo, come già ammirava il cosmografo, il poeta, il genio superiore. Noi non istiamo in forse a dirlo: egli lo amò tanto più, perché, essendo suo confessore, pote vedere a nudo la sua fede rimasta pura e candida, nonostante gli ardimenti dell’erudizione, e le curiosità dello spirito: potè contemplare, dirò così, faccia a faccia quel suo pensiero più vasto che il Mondo, umilmente inchinato appiè del giudice, che ha la potestà di legare e di assolvere. Avendo qual sacerdote letto chiaramente nelle profondità di quell’anima, che, senza saperlo, manifestava la sua bellezza nel palesare i suoi falli al tribunale della penitenza, ammirò sì gran mente unita a così grande umiltà: stupì della grandezza di quest’Uomo ignOrato, in cui le doti sublimi si erano associate con tale armonia che sembrava non ne formassero che una sola per eccellenza, quella che noi chiamiamo la virtù. Il Francescano riconobbe in Cristoforo Colombo i segni di una elezione provvidenziale; perciò s’interessò al suo destino, ed ebbe per lui tale affezione, che non finì che colla vita.
Lorchè Colombo dovette abbandonare il convento della Rabida, il padre Juan Perez gli procurò qualche danaro, e gli diede una calda commendatizia per un personaggio importante alla Corte, il priore di Prado, confessore della regina, la cui benevola mediazione gli procaccerebbe, diceva egli, un facile accesso ed una favorevole accoglienza. Siccome il padre Juan Perez de Marchena giudicava, che, non ostante la sua nobile origine, la cognata di Colombo, moglie del povero Muliar, non potrebbe ad Huelva dare una educazione conveniente al giovane Diego suo nipote, volle egli medesimo incaricarsi della sua istruzione; e pertanto sotto il tetto, e col pane, l’abito, i libri e la carità della Famiglia Francescana, il figlio di Colombo fu nodrito, vestito e allevato nella sua adolescenza.
Contento nel suo cuore, l’Ospite della Rabida, e sicuro della protezione e della vita del figlio, prese congedo dal venerabile Guardiano, e, accompagnato dalle sue preghiere, entrò in via alla vôlta di Cordova.
§ II.
L’ospitalità generosamente data a Colombo in questo monastero, l’affetto e la protezione che vi trovò, hanno reso tal luogo importante nella storia, e caro alla memoria dei discepoli di san Francesco. l nostri lettori ci sapranno grado dei pochi particolari precisi e descrittivi che siamo per comunicar loro sul convento della Rabida.
A que’ giorni il monastero si componeva di due chiostri interiori, e di tre piccoli edifizi, annessi alla costruzion principale. La Chiesa di Santa Maria della Rabida era cinta da un muro circoscrivente una corte interna. La Chiesa, costrutta in forma di croce, aveva tre cappelle. Al di sopra dell’altar maggiore ergevasi una cupola rotonda, con in cima, al di fuori, una specie di terrazzo, che pareva destinato a servire di osservatorio. Questa cupola, coperta d’un intonaco di calce lucida, presentavasi da lungi in vista a’ navigli che veleggiavano lungo le coste e serviva di punto di riconoscimento alle navi. L’alta foresta di pini che circondava il convento dal lato di terra, non permetteva di scoprire l’eremo che dal lato di mare.
Anche la nudità dei muri, l’assenza di statue, di quadri, di affreschi, di lampade d’oro e d’argento rispondeva alla semplicità del chiostro ed alla povertà architettonica del tutto insieme. Questo monastero pareva non poter contenere che dodici celle, non comprese quella del Priore e la biblioteca. ll refettorio e la cucina occupavano un piccolo edifizio oblungo, aggiunto alla sinistra del maggior corpo. Una grossa muraglia, forse antico baluardo contra i Mori di Spagna e i predoni del Portogallo vicino, rinserrava, come in un triangolo, la collina scoscesa che serve di piedestallo al monastero, naturalmente arida, ed a’ cui piedi crescono magnifici aloe, e gagliarde palme. Nel salire, alcuni muri a secco sostenevano divisi in piani diversi il terreno, in cui fiorivano viti qua e là commiste a fichi. Il giardino inaffiato col mezzo di una macchina idraulica, alimentata dal fiumicello Tinto, aveva qualche bell’ombra, la mercè di un fitto pergolato e di alcuni cedri. Ma nessuna coltura, nessun monticello artificiale, nessun abbellimento d’orticoltura mascherava la povertà dei discepoli di san Francesco. Perfino il serbatoio d’acqua, che avrebbe potuto servire di rustico ornamento, era in un angolo degli edifizi accessorii. Non v’aveva, quindi, là di grande che la solitudine, la calma della natura, il raccoglimento dell’anima e il prospetto interminabile dell’Oceano.
Le memorie di Cristoforo Colombo conservate dall’amicizia del Padre Juan Perez de Marchena erano rimaste deposte ne’ modesti archivi di questo piccolo monastero. Tuttavia, a misura che gli abitatori di Palos si stabilirono a Moguer, e che Palos divenne una rovina deserta, i Religiosi si sono trovati in questo ritiro senza utilità per la popolazione troppo lontana, e senza facilità di poter avere i mezzi a mantenervisi. ll loro numero andò a grado a grado scemando; già al tempo della guerra contro la Francia non ve n’erano che quattro o cinque. La biblioteca del Convento fu posta a sacco, e gli archivi giacquero distrutti. Nel 1825 vi dimoravano ancora quattro Religiosi; ma la rovina degli edifici, non riparati mai da molti anni, e il deperimento del giardino, provavano l’obblio in cui languiva questo sacro e rurale edifizio: nondimeno il chiuso durava in piè, o almeno il diroccamento degli edifizi non era stato opera delle mani dell’uomo.
La rivoluzione religiosa del 1834 in Ispagna, sopprimendo i conventi, menò l’ultimo colpo al monastero della Rabida. Esso fu abbandonato interamente: pare però, che, per rispetto alla sua memoria, siasi conservato sulla carta, ove fu scritto e numerato qual proprietà nazionale: gli abitanti dei dintorni hanno pensato che ciò che è della nazione appartiene a tutti, quindi da venti anni in qua, quando la occasione si presenta, danno a poco a poco il guasto al monastero secondo la misura dei loro bisogni esportandone pietre, tegole, porte, imposte: il giardino rimasto incolto, diventato arido, è come scomparso. Oggi, nel 1855, la collina, spoglia fin de’ suoi pini, mostra vergognosamente la nudità. de’ fianchi vestiti di soli sassi: unica una palma ha resistito ai guasti del tempo, e continua ad elevare il suo tronco solitario, ultimo testimonio della vigorosa vegetazione mantenuta dianzi su questo scoglio dal lavoro paziente dei buoni Religiosi.
Ci vien ora partecipato che il convento della Rabida sarà t’elicemente conservato alla posterità, la mercè della munificenza del duca di Nemours.
Già il duca di Montpensier aveva incaricato il valente pittore Antonio Beierano di dipingere le principali scene del soggiorno di Colombo in questa ospitale dimora.
Il 15 aprile p. p. i duchi e le duchesse di Nemonrs e di Montpensier, facendo un pellegrinaggio cristiano e poetico alla Rabida, hanno inaugurato, in mezzo al concorso delle vicine popolazioni, la ristorazione dell’antico edifizio con una gran messa in musica, celebrata dal Decano del Capitolo di Siviglia.
Così, la mercè della liberalità dei due augusti Principi, questo monumento storico, il più commovente de’ tempi moderni, l’asilo di Colombo nell’abitazione del Francescano, che immortalò la sua amicizia, sarà trasmesso alla pia curiosità de’ nostri discendenti. In nome degli amici rimasi fedeli alla memoria di Cristoforo Colombo, noi ringraziamo cotesti Principi della loro nobile iniziativa. Prevenendo i voti delle anime generose, essi risparmiarono loro un eterno dolore, un’eterna vergogna. Ci congratuliamo co’ due Principi di avere così degnamente, per la Francia, pagato al culto delle grandi memorie il debito che la Spagna dimenticava di soddisfare.