Cristoforo Colombo (de Lorgues)/Libro I/Capitolo VI
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Traduzione di Tullio Dandolo (1857)
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CAPITOLO SESTO
Colombo assiste alla resa di Granata. — Isabella accetta finalmente il suo progetto; — ma i suoi consiglieri la dissuadono dall’impresa. — Colombo parte per la Francia. — La Regina spedisce un corriere che lo riconduce — Ella approva tutte le sue dimande, e dà gli ordini al porto di Palos per la spedizione. — Spavento de’ marinai all’idea di un viaggio nel mare tenebroso. — Predicazione nautica del padre Juan Perez de Marchena. — Questo zelante Francescano amica a Colombo i tre fratelli Pinzon, ricchi e sperimentati. — Particolarità precise sull’armamento di questa spedizione, e suo carattere religioso. — Partenza di Colombo colle tre navi.
§ I.
Quando Colombo entrò nelle vie recentemente costrutte DI Santa Fè, occuparsi della sua proposizione era affatto impossibile. La Regina diello ospite al virtuoso Alonzo di Quintanilla, suo intendente generale delle finanze, il quale si teneva felice di nuovamente possederlo.
La lotta fra ’l Cristianesimo e la mezza-luna era giunta al suo fine. Si parlava di prossima capitolazione, di sollevazioni e combattimenti nell’interno della città: in breve, Diffiatto, si trattò della dedizione di Granata.
Il venerdì, 50 dicembre, il Governatore Moro consegnò le fortezze e l’Alhambra ai commissari di Ferdinando ed Isabella. ll secondo giorno di gennaio 1492, il re Boabdil el Chica presentò le chiavi della città ai Re Cattolici.
Non essendo questa guerra nel concetto della Regina che una spedizione religiosa, i Sovrani non entrarono immediatamente in Granata: vollero primieramente fare omaggio del loro conquisto a Gesù Cristo.
Fernando di Talavera, assunto all’archiepiscopato di Granata, il solo che egli avesse dichiarato di voler accettare, scortato da grosse squadre, prese signoria dell’Alhambra, facendo rizzar la Croce d’argento, e il grande stendardo della Crociata, sulla torre di Camares, destinata ai segnali.
Posto che fu sulla vetta della città l’emblema della Redenzione, vi si spiegò altresì la bandiera reale. Vedendo la Croce dominare la Città Musulmana, il Re, la corte, l’esercito si posero in ginocchio, e i cappellani coi coristi della Regina intonarono l’inno della vittoria con una indicibile allegrezza. Subitamente dopo, tutta la nobiltà scompartita secondo il rigoroso cerimoniale di Castiglia, venne a rendere omaggio ad Isabella qual regina di Granata.
ll venerdì, 6 gennaio, giorno dell’Epifania, festa dei re, i Sovrani fecero la loro entrata solenne nell’Alhambra, alla cui porta l’arcivescovo di Granata, assistito da numeroso clero, venne a riceverli processionalmente.
Dopo una lotta di 778 anni, la Mezza-luna era finalmente atterrata. Questo trionfo degli Spagnuoli allegrò tutta quanta la Cristianità. Giovanni di Strada fu mandato subito a Roma quale ambasciatore straordinario, e viaggio sì spedito che vi recò egli stesso la prima notizia del grande evento: il Sommo Pontefice Innocenzo VIII, ringraziando Dio con tutta l’anima, comando pubbliche azioni di grazie, ed una procession solenne alla chiesa di San Giacomo degli Spagnuoli: Sua Santità v’intervenne in persona con tutto il Sacro Collegio; officiò pontificalmente, e nel sermone pronunziato alla sua presenza, il predicatore lodò altamente il carattere cristiano dei Re e del popolo di Spagna.
A quel tempo, in mezzo ai favori che riservava alla Spagna, la Provvidenza gettava uno sguardo di compiacenza sopra «Genova la superba,» città dai palazzi di marmo, dalle chiese dorate, dove la carità pubblica, uguagliandosi alla ricchezza, scacciava la indigenza da’ suoi vicoli tenebrosi. Genova pareva benedetta. Mentre uno de’ suoi figli, uscito dalle file del popolo, meditava l’opera più colossale del genio umano, un altro, eletto fra’ patrizi illustri, sedeva sul trono dell’infallibilità apostolica.
Giovanni Battista Cibo, cittadino di Genova, promosso alla tiara sotto il nome di Innocenzo VIII, era veramente il principe della pace, il mediatore delle controversie dei re e lo zelatore della guerra contra l’Islamismo. Nessuno partecipava con animo più sincero alle vittorie d’lsabella, ed alle speranze del suo concittadino Cristoforo Colombo.
Non erano peranco terminate le allegrie trionfali del conquisto, che la Regina dava udienza a Colombo.
Il solo aspetto di questo nobile straniero, a cui l’approssimava, senza saperlo, una segreta comunanza di fede e di genio, assecurò la Regina contro le obbiezioni della Giunta di Salamanca. In quella conferenza non sorse alcun dibattimento intorno al progetto perchè non sussistevano più dubbi sul porlo in opera: la Regina lo approvava per istinto; ella indovinava in Colombo una comprensione superiore delle cose, e lo teneva qual persona eccezionale: la presenza di lui, infatti, palesava la sua grandezza interiore, la vera fede.
Accettato, pertanto, il progetto senza più ricorrere ad esame o giudizio altrui, senza restrizione, e come l’ispirazione lo aveva concepito, non restava che determinare i vantaggi che si attribuirebbero al suo autore dopo il felice riuscimento. Una commissione, presieduta anch’essa dal prudente Fernando di Talavera, fu incaricata di regolar questo punto. Colombo conferì con essa, e le fece conoscere le sue pretensioni: dovette esporle categoricamente.
Allora quest’Uomo, il cui pensiero era più vasto del mondo, lasciò presagire la grandezza, delle sue speranze dal premio che stabiliva, ove si avverassero: i Commissari dovettero stupirne; ecco, infatti, le principali condizioni poste da Colombo alle corone di Aragona e di Castiglia. Egli sarebbe
Vice Re,
Governatore generale delle Isole, e della Terra-ferma da scoprire,
Grande ammiraglio del mare Oceano:
Le sue dignità si trasmetterebbero ereditariamente nella sua famiglia per diritto di primogenitura.
Egli lucrerebbe la decima di tutte le ricchezze, perle, diamanti, oro, argento, profumi, spezierie, frutti e produzioni di qualunque sorta scoperte nelle regioni soggette alla sua autorità e asportate di là.
Udendo simili pretensioni, i Commissari sdegnaronsi del suo ardimento: sbuffavano d’ira all’idea che un Italiano, stato così spesso messo in ridicolo o avuto in compassione, mentre gettava il suo tempo per le anticamere, implorando udienza, osasse stipulare titoli e cariche che lo solleverebbero al disopra de’ più nobili casati della Spagna: quindi la conferenza fu sospesa.
Nondimeno agli occhi di Colombo pareva molto semplice ciò che dimandava. Egli giudicava naturalissimo, dappoich’era sul fare dono ai Re di regni più grandi di quelli ch’essi già possedevano, fissare tale rimunerazione, la cui importanza indicasse quella della sua inudita donazione. La ricompensa dev’essere in proporzione del servizio; e colui che accetta meno di quanto gli è dovuto concorre alla propria umiliazione. D’altronde Colombo non esigeva che il premio dimandato nove anni prima alla corona di Portogallo. Pe’ suoi disegni bisognavagli un alto stato, una grande autorità, e sopratutto grandi ricchezze.
Si vuol egli sapere d’un tratto il segreto di quest’ambizion gigantesca? è secreto commovente, che gli sfuggì dalle labbra alcuni giorni dopo in una conversazion familiare coi Re, e che, dice egli, «li fece sorridere;» eccolo.
Cristoforo Colombo teneva come già recata ad effetto la sua scoperta di terre ignorate, alle quali avrebbe la fortuna di annunziare Cristo Redentore: prevedeva pericoli sopra ogni numero, terribili ostacoli, fatiche incessanti: qual contraccambio di tante fatiche, aspirava ad una ricompensa magnifica, la sola che credesse degna delle opere sue: aveva risoluto, col mezzo de’ tesori che ritrarrebbe dalle sue scoperte, di liberare il Santo Sepolcro dal giogo de’ Musulmani: voleva, a bella prima, trattare del suo riscatto all’amichevole, e, se non vi riusciva, levare a’ propri stipendii cinquantamila fanti, e cinque mila cavalli, per istrappare alle profanazioni di Maometto il sepolcro di Gesù Cristo: avrebbe incontanente rimesso il governo di Gerusalemme alla Santa Sede, limitandosi, quanto a lui, all’onore di essere la sentinella della Chiesa sulla soglia di quella terra miracolosa, in cui compissi la nostra Redenzione.
Non potendo indovinare l’intimo pensiero di lui, i commissari della Corte non videro nelle sue pretensioni che una oltracotanza temeraria.
Fernando di Talavera, sempre avverso al Cosmografo genovese, rappresentò alla Regina che sarebbe un grave inconveniente per le loro Altezze, se scendessero ad un trattato, intorno ad un riuscimento stato giudicato imaginario; che se l’impresa falliva, elle si esporrebhero alle beffe delle Corti straniere, e scemerebbe nei loro Stati il rispetto portato alla loro sapienza; che, ammettendo anche il caso di un felice esito, concedere privilegi così esorbitanti ad uno sconosciuto, sopra tutto ad uno straniero, sarebbe inevitabilmente diminuire nell’opinione il prestigio della maestà reale. Sotto l’influenza delle osservazioni del suo confessore, la Regina esitò, e fe’ proporre a Colombo condizioni alquanto diverse, quantunque ancora vantaggiosissime. Certamente gli vennero offerti, come in Portogallo, titoli, rendite, prerogative capaci di soddisfare qualunque altro cuore, non quello di Colombo: egli non accettò quelle condizioni, e non decampò per nulla dalle sue: conferendo con Monarchi soleva improntare il proprio dire d’un suggello di dignità familiare, quasi trattasse con pari suoi; ed ora che si approssimava l’ora di adempiere la sua missione, operava come aveva parlato.
Nè la sua povertà, nè i sei anni sprecati alla corte di Spagna in istanze infruttuose, nè il trascorrere del tempo che minacciava di rendere inutile il suo disegno, poterono smuoverlo. Egli aveva consumati più di diciott’anni in tentativi, e nondimeno preferiva ricominciare da capo tai difficili negoziati con altro Stato, piuttostochè derogare a ciò che pensava essere richiesto dalla dignità de’ suoi diritti.
Gli amici di Colombo procurarono rattenerlo, e pare, che, pregato dal suo fedele amico Juan Perez, si ponesse di nuovo in relazione col gran Cardinale di Spagna. Nell’alta idea ch’ei si era fatta di Colombo, questo principe della Chiesa non trovava punto eccessive le condizioni da lui poste qual premio de’ suoi servigi, e di cui si offendeva l’orgoglio de’ cortigiani: ma considerazioni personali lo impedivano d’intervenire.
Tuttavia, anche fuori della Commissione, l’enormità delle fatte domande preoccupava i consiglieri dei monarchi. Siccome si obbiettava motteggevolmente a Colombo che la sua abilita era rara, perocchè senz’arrischiare dal canto suo spesa alcuna, checchè avvenisse, avrebbe sempre avuto l’onore di un comando, egli offerse di contribuire alle spese per l’ottava parte. Questa offerta generosa, fatta in un momento d’indegnazione, fu avidamente accettata. Non ostante questo sacrificio, non gli venne conceduto quanto dimandava. Il Re appalesava già di essere alieno da tale disegno. L’influenza che l’arcivescovo di Granata esercitava sulla Regina paralizzava la di lei volontà: le parve di fatto che la dignità quasi regia chiesta da Colombo fosse per essere un premio troppo oneroso, per grandi che venissero a riuscire le scoperte sperate.
La conferenza era già rotta: il negoziato fu abbandonato. Non ottenendo ciò che aveva chiesto, e non cedendo nulla di quanto esigeva, inflessibile nella sua risoluzione, Colombo gettò gli occhi sulla Francia, il cui re avevagli data risposta. Correva il fine di gennaio, nè volle perdere neppure un giorno di più in trattative inutili cogli Spagnuoli, dappoichè immutabile era la sua determinazione: salutò tristamente i pochi suoi amici, e salito il suo mulo si addrizzò a Cordova, ove lo chiamavano alcune faccende domestiche prima di abbandonare forse per sempre, la Spagna, diventata al suo cuore una seconda patria.
§ II.
Intorno ad Isabella, astro dei nuovi destini della Spagna, gravitavano alcuni spiriti eletti, che riflettevano le chiarezze della ispirazione di lei. Teneri della verità, osservatori della giustizia, desiderosi della gloria di Dio, preoccupati della grandezza della loro Sovrana e della nazione spagnuola, la partenza di Colombo parve loro una perdita immensa, irreparabile, che preparava forse una vergogna e un pentimento eterno alla loro patria. Uno di questi uomini, Luiz de Santangel, ricevitore dei diritti ecclesiastici nell’Aragona, ottenne un’udienza dalla Regina. lnquieto per la gloria della Sovrana adorata, trasportato dal suo zelo, egli espresse a lei amaramente, e in guisa di rimprovero e di lamentanza, la sua sorpresa in veder trascorrere a debolezza lei, il cui coraggio si era sempre mostrato invitto: le mostrò come una tale impresa meritasse la sua protezione, poichè poteva avere i maggiori risultamenti per la gloria di Gesù Cristo, pel trionfo della Chiesa, per la prosperità de’suoi regni: le richiamò al pensiero il dolore che proverebbe se qualche altro monarca attuasse un tale disegno: le ricordò che la persona stessa di Colombo, la sua purezza, la sua fede, la sua scienza, la sua superiorità sui cosmografi che lo condannavano, meritavano credenza; con tanto maggior ragione, perch’egli non dimandava nulla prima di aver dato; premiato, se riuscente; e d’altronde non avventurava egli la sua vita e l’ottava parte delle spese? e ammettendo, eziandio, che non iscoprisse nulla, non ne conseguiterebbe perciò alcun biasimo alle loro Altezze; per lo contrario, tutto il Mondo saprebbe ad esse grado di aver tentato cosa, il cui riuscimento poteva essere tanto glorioso. lnsistette sull’obbligo morale che hanno i monarchi di ampliare il dominio delle scienze, di acquistare la conoscenza delle cose lontane, di penetrare, per quanto e possibile, ne’segreti di questo mondo.
Non che offendersi della vivezza e de’ consigli di Luiz de Santangel, Isabella, che ne pregiava i motivi, lo ringraziò della sua sincerità. In quella sopraggiunse Alonzo di Quintanilla, che riconosceva dalla propria virtù il fondamento del credito di cui godeva: associossi alle supplicazìoni di Santangel; e intanto, pochi passi discosto, nella cappella della Regina, il padre Juan Perez, prostrato dinanzi al tabernacolo, supplicava il Signore, pei meriti della Passione del suo divino Figliuolo, d’illuminare colla sua grazia, lo spirito d’Isabella: Dio l’esaudi.
improvvisamente la Regina si mutò affatto. Un movimento misterioso operavasi nell’anima sua; Dio le apriva l’intelletto. Gli occhi della sua mente si dischiusero; ella comprese interamente Colombo, e vide qual uomo le avesse mandato la Provvidenza. Allora, non ascoltando altro più che la voce interna, la qual parlava al suo cuore, ringraziò que’ due fedeli servi della loro insistenza e per la gloria di lei, e coll’accento di una risoluzione immutabile, dichiarò che accettava l’impresa per suo conto, qual regina di Castiglia; aggiunse che sarebbe, non pertanto, necessario differirla qualche tempo, a motivo della povertà del tesoro, conseguenza della guerra; che però se tal ritardo spiacea loro, ell’aveva le sue gioie, e le avrebbe messe in pegno per le occorrenze dell’armamento.
Nella effusione della loro riconoscenza, Alonzo di Quintanilla de Luiz de Santangel le baciarono, come a santa, le mani con rispetto. Luiz de Santangel assicurò la Regina che non le bisognerebbe fare il pegno delle gioie; imperocch’egli si assumeva l’incarico di anticipare la somma occorrente sul danaro dell’Aragona: ottenne dal Re l’autorizzazione di fare una tale prestanza alla Corona di Castiglia; il tesoro aragonese fu ristorato poscia esattamente del prestito fatto, sendochè il Re, troppo prudente, non volle entrar in questa impresa, nel cui riuscimento non aveva fede.
Immantinente, per ordine della Regina, fu spedito di tutta fretta un ufficiale delle guardie perchè riconducesse indietro Colombo: lo raggiunse a due leghe da Granata, verso il Ponte di Pinoso, famoso pei combattimenti, che vi erano stati dati. Andò voce, che, dopo tanti disgusti ed inganni, colle labbra contratte dall’amarezza ch’empievagli il cuore, il grand’Uomo esitasse a tornarsene indietro. Ma quando gli fu racconto tutto quello ch’er’avvenuto, e la ferma risoluzione della Regina, obbedì con una sommissione affettuosa, indovinando già qual parte la Provvidenza riserbava nell’opera sua a quella Donna, la sola che fosse degna di associarglisi.
La Regina aveva presa, diffatti, appunto allora una determinazione eroica. Nonostante la Giunta de’ cosmografi, il parere del suo consiglio privato, le rappresentazioni del suo confessore, a cui ella aveva mostrato sempre la più grande condiscendenza; nonostante l’opinione del suo real consorte, a cui ella si recava a dovere di compiacere in ogni cosa, ed i cui desiderii erano per lei altrettante leggi; nonostante il disfavore delle apparenze, e l’opposizione di quanti le stavano intorno, Isabella aveva obbligata la sua parola allo Straniero.
Chi prende ad esaminare questa fiducia, non meno improvvisa che inconcussa della Regina, vi nota alcunchè di sublime e di misterioso, come l’impresa stessa di cui ella diventava l’anima e la protettrice.
Il padre Juan Perez, che, superando la sua avversione per la Corte, eravi rimasto a difendere la gloria della Regina e quella della Chiesa, proteggendo il suo amico, assicurato finalmente dell’esito della cosa, si affrettò di tornare alla sua pacifica cella.
§ III.
In giungendo Colombo fu accolto a Corte con onori straordinari. La Regina lo accolse con tali segni di soddisfazione e di benevolenza, ch’egli pote, per un istante, dimenticare i sofferti affanni. Questo momento segna il primo lineamento della missione di Colombo. Oggimai la sola Regina è l’anima e il mezzo dell’impresa. L’astuto e diffidente re d’Aragona rimane stranio alla spedizione: dà nome e firma agli atti della Regina, secondo le convenzioni stabilite tra loro: ma restò ben inteso che l’impresa era fatta esclusivamente dalla Regina di Castiglia, a suo rischio e pericolo. Perciò, finchè ella visse, i soli Castigliani ebbero il diritto di stabilirsi ne’ paesi scoperti.
Quanto aveva dimandato Colombo, gli venne consentito, senza levarvi la menoma cosa.
Tuttavia le formalità. necessarie per le scritture fra l’Aragona e la Castiglia intorno al prestito contratto, e le incessanti occupazioni richieste dal nuovo ordinamento dell’antico regno di Granata, non permisero ai Re di firmare altro che il l7 aprile 1492, nella città di Santa Fè, gli articoli del trattato stesi sotto il nome di capitolazione, dal segretario di gabinetto, Juan de Coloma.
Il 30 aprile, fu spedito il titolo dei privilegi di Colombo. Queste lettere patenti portavano, ch’egli sarebbe grande Ammiraglio dell’Oceano, colle stesse prerogative che godeva l’ammiraglio di Castiglia, vicerè, governatore generale di tutte le Isole e della Terra-Ferma che scoprirebbe; che le sue dignità sarebbero trasmissibili in perpetuità nella sua Famiglia.
ll dì 8 maggio, a queste ricompense eventuali, la Regina aggiunse un favore, pieno di squisita bontà, nominando il piccolo Diego, primogenito di Colombo, paggio del principe reale, con una pensione annua di nove mila quattro cento maravedis. Quest’onore era riservato ai soli figli delle più illustri case del regno.
Per l’armamento della spedizione motivi di economia fecero scegliere il modesto porto di Palos: siccome i suoi abitatori erano costretti, in commutazione di ammenda, a fornire gratuitamente alla corona, per un anno, due caravelle armate e provvedute dei loro equipaggi, così fu loro ingiunto di doverle mettere, nello spazio di dieci giorni, agli ordini di Cristoforo Colombo: le merci e provigioni destinate a questo armamento furono esentuate da ogni diritto di fisco e di dogana; e venne dato ordine di sospendere ogni azione di giustizia a pro di quelli che farebbero parte della spedizione.
Il 12 maggio, avendo Colombo avuto la sua udienza di congedo, partì subito per Cordova, ove lo chiamavano alcune cure relative all’educazione de’ suoi figli. Probabilmente fu allora che un nipote germano di sua moglie, «onesto gentiluomo di Cordova» Diego de Arana, si determinò a tentare con lui lo spaventevole viaggio del mar tenebroso.
Pochi giorni appresso, Colombo arrivava a Palos.
§ IV.
Il padre Juan Perez de Marchena, che aveva aperto il suo convento allo straniero povero e sconosciuto, ricevette nelle sue braccia l’amico ricolmo d’onori, e pieno di speranza. Colombo diventò da capo l’ospite della Comunità di San Francesco: e, come si vedrà, l’assistenza del padre Guardiano non gli fu allora meno utile che ne’ primi giorni del suo arrivo alla Rabida.
ll mercoledì 23 maggio, prima di mezzodì, il padre Guardiano discese dal Convento con Colombo, e l’accompagnò alla chiesa parrocchiale di Palos, collocata sotto il patronato di san Giorgio. Quivi, in mezzo a quella popolazione di marinai, alla presenza de’ primi sindaci, Diego Rodriguez Prieto e Alvaro Alonzo Cosio, a richiesta di Cristoforo Colombo, sempre assistito dal francescano Juan Perez de Marchena, il notaio pubblico Francesco Hernandez fece solennemente lettura della lettera delle loro Altezze, la quale ingiungeva di consegnare a lui due caravelle armate e montate.
Quantunque il porto di Palos dovesse fornire a proprie spese gli uomini degli equipaggi, sotto pena di un’ammenda di dieci mila maravedis a profitto della Camera reale, pure i Sovrani degnavano conceder loro la medesima paga che sui navigli di guerra, e fare ad essi sborsare quattro mesi anticipati salendo a bordo. Inoltre al ritorno dalla spedizione, se potevano produrre un certificato di buona condotta, rilasciato dal loro capo, sarebbero francati dal rimanente della condanna. Le autorità di Palos, inchinatesi, risposero che obbedirebbero a questo comando colla sommissione dovuta agli ordini dei Re. E di questo fu steso atto dal notaro pubblico, sotto gli occhi di Fernando del Salto, procuratore del Consiglio di Palos, assistito da due testimoni, il sindaco Lorenzo de Ecarrana e Garcia Fernandez Carnero. Una simile pubblicazione venne fatta del paro a Moguer.
Nondimeno, allorchè seppesi che si trattava di navigare all’occidente, nel mar tenebroso, si diffuse costernazione in ogni casa. Il mar tenebroso! bastava il nome ad agghiacciare di terrore i più intrepidi.
Oggidì saremmo ingiusti a deridere quei terrori: essi erano allora naturali, e quasi logici, poiché si fondavano sul raziocinio. Il telescopio non esisteva peranco a misurare lo spazio, scrutare le miriadi di soli della via lattea, noverare i satelliti di Giove e di Urano, decomporre il triplice anello di Saturno, pesare le diverse masse, calcolare le differenti velocità dei mondi, che gravitano intorno al nostro sole, e via via: la composizione, il volume e il peso della terra non erano per anco chiariti; la forma ne rimaneva indeterminata.
Gli uni la dicevano piana e lunga, continuata indefinitamente dall’Oceano incommensurabile; gli altri la pretendevano quadrata, ma attorniata da ghiacci e mare senza confini. Si ammettevano «zone inabitabili,» e per le imperfezioni della nautica, gl’insegnamenti de’ cosmografi, capricciosi e contraddittorii, somigliavano a caos. Non deve, dunque, recare sorpresa che questa confusione reagisse sulle menti. Nell’intelletto, lo sconosciuto tocca il tenebroso, e le tenebre sono sempre formidabili. Si pensava che il Caos, l’Erebo nascondevansi nelle profondità estreme di quel mare che tutti i cosmografi designavano col nome di tenebroso, porche secondo il geografo di Nubia, lo sceriffo Edressi, e al dire de’ navigatori arabi, approssimandosi a que’ luoghi, si trovano «correnti d’acque oscure, e poca chiarezza nell’atmosfera.» L’incertezza e l’oscurità della scienza, intorno a quel mare, parevano giustificarne la paurosa denominazione. Nel mar tenebroso si davano di cozzo i torrenti pelasgici, e si aggiravano vortici in seno ai quali trastullavansi Behemoth, e il gran Leviatano, scortati da mostri subalterni.
Tutte le opere di geografia accreditavano la trista denominazione, poichè sulle carte de’ cosmografi si vedevano disegnate. intorno alle terribili parole mare tenebrosum, figure spaventevoli, a petto delle quali i ciclopi, i lestrigoni, i grifoni, gli ippocentauri non avevano che benigne fisonomie. I geografi arabi, impediti dal Corano di riprodurre imagini di animali, si limitavano a caratterizzare quel mare col mezzo di un segno, la cui cupa unità, se non ispaventava a prima giunta, percuoteva vivamente l’imaginazione; una mano uncinata, la mano di Satana, che sporgeva dall’abisso, pronta a trarre sotto i vortici i navigatori che fossero tanto temerari da inoltrarsi nelle acque del Bahr-al-Jalmet.
Nè questi pericoli sotto-marini erano i soli che corressero gli esploratori: giganteschi avversari potevano improvvisamente piombare dal sommo dell’aere: in quelle latitudini si librava sovr’ale immense l’uccellaccio rock, che col suo rostro sollevava, non un uomo ed una barca, ma un naviglio carico di tutto il suo equipaggio, lo portava nella regione delle nubi, e da tale altezza si trastullava a fracassarlo fra’ suoi artigli, per lasciarlo cadere a brano a brano, uomini e cose, nelle onde spaventevoli del mar tenebroso. Certi passi di autori gravi fanno fede che a quel tempo essi medesimi condividevano la credenza volgare. Appunto in quell’anno, nella prefazione di un libro proibito, il giureconsulto Fernando de Rojas parlava seriamente dell’uccello rock. Più di un secolo dopo scoperta l’America, il duca d’Arion, vicerè del Messico, credeva che nella parte sconosciuta della Nuova Spagna vivessero aquile a due teste.
l lettori renderannosi facilmente ragione di queste credenze e di questi spaventi, se ricorderanno che allora non esisteva mappamondo, il qual non indicasse mai colla imagine di mostri spaventevoli, i gradi vicini alla linea equinoziale. Or, come i marinai avrebbero potuto sottrarsi all’errore comune, universale? Andare nel mar tenebroso era un affrontare l’incendio pei fuochi del sole, un ingolfarsi nell’oscurità del caos, un esporsi ad essere distrutti nell’aere, o sepolti sotto l’abisso eterno del negro Oceano. E gl’intrepidi piloti che avevano frequentato Lisbona, o navigato alle Canarie ed alle Azzorre, quantunque scemassero assai cotali Spaventi, erano però sempre convinti della impossibilità di traversare il mar tenebroso, lo spaventevole Bahr-al-Jalmet degli Arabi.
Intanto il tempo scorreva. Non ostante l’ordine reale, e la fatta promessa di obbedienza, le autorità di Palos non avevano per anco fornita alcuna caravella: la spiaggia era interamente deserta: tutti i proprietari delle navi le andavano a nascondere o le conducevano in altri porti per sottrarle alla requisizione.
lnformata di tale ostacolo, la Regina spedì il 20 giugno a Palos la guardia del Corpo Juan de Penasola, uomo energico, con potestà di imporre l’ammenda di duecento maravedis per ogni giorno di ritardo a coloro che si rifiutassero all’esecuzione de’ suoi ordini. Ed era, altresì, autorizzato a far prendere sulla costa dell’Andalusia qualunque nave e marinaio che giudicasse acconcio a questo nuovo servizio.
Questa fu una gran desolazione pei proprietari delle navi, e per gli uomini di mare: contrastavano, gridavano, alle suppliche aggiungevano le promesse: l’armamento non progrediva. Tuttavia Juan di Penasola s’impadronì d’una caravella, buona veliera, chiamata la Pinta, che apparteneva in comune a due abitatori di Palos, Gomez Rascon, e Christoval Quintero: costoro si risguardarono come perduti, essi, la nave e tutto il loro avere: maledivano la venuta del Genovese millantatore e instigatore. il quale aveva carpito per sorpresa alla sapienza dei Re l’ordine di sì disastrosa navigazione.
I legnaiuoli, i racconciatori delle navi si dicevano malati, o si nascondevano per non essere costretti a riparare la caravella. Non si trovavano nè legname, nè stoppa, nè catrame, nè gomene. ll rigore della missione data a Juan de Penasola non riusciva meglio de’ ragionamenti di Colombo. Bisognavano tre navi, e non se ne aveva che una: già una cupa esasperazione agitava gli spiriti.
In tale infelice stato di cose, lo zelo del padre Juan Perez venne in aiuto del suo amico e della smarrita popolazione.
ll Francescano è naturalmente simpatico al popolo a motivo della povertà della sua vita e dell’umiltà del suo vestire: n’è amato, perchè visibilmente esso lo ama: la sua modesta familiarità piace, e il suo attaccamento conquide. Inoltre il Guardiano della Rabida godeva di una stima personale fra le genti di mare: si frammetteva ai marinai, scherzando sui loro terrori; assecurava le loro famiglie e arrolava all’impresa colle sue parole e colle sue dimostrazioni anco nei porti vicini. ll zelante Francescano si riprometteva dalla spedizione di Colombo l’ampliazione del regno di Gesù Cristo, una grande gloria per la Chiesa, ed un benefizio per tutta quanta la civiltà: come aveva così giustamente detto la Regina, egli era conscio che Colombo andava in a «quegli spazi dell’Oceano a compiere cose importantissime in servizio di Dio.» Nel difendere il suo ospite, sosteneva altresì le sue proprie idee, e cattolicamente pigliando parte attiva all’opera di lui, si onorava di cooperare al suo apostolato, e di contribuire a recare ad effetto il desiderio del beato Fondatore dell’Ordine Serafico, il cui ardore avrebbe voluto predicar Gesù Cristo, la sua Croce, e la sua povertà in tutto l’universo. Così il padre Juan Perez affaccendavasi col cuore e coll’anima a convertire i poltroni, ed a far risolvere gl’irresoluti.
Egli andava ora solo, ed ora accompagnato dal suo amico; dovunque movea Colombo, ivi er’altresì il Guardiano della Rabida. L’operosità del suo ardore fece gran senso in paese: più di venti anni dopo i testimoni del suo zelo ne conservavano la memoria.
Tuttavia, non ostante l’assistenza del padre Juan Perez, sovente lo spavento, un racconto falso od errato distruggevano in poche ore gli effetti della sua predicazione nautica di più giorni: sulla costa dell’Andalusia non si parlava d’altro che di quella spedizione: tutti gli uomini di mare tenevano quasi sogno l’idea di una scoperta di terre oltre il mar tenebroso; perciò non era piloto che volesse imbarcarsi.
Allora il guardiano della Rabida prese un partito decisivo.§ V.
Era a quel tempo a Palos una famiglia ricca e stimata, la cui casa, che sussisteva non ha guari, era la maggiorente in città: componevasi dei tre fratelli Pinzon, tutti uomini di mare di grande sperienza. Juan Perez de Marchena fece conoscere a Colombo il primogenito Martin Alonzo Pinzon uomo di teorica e di pratica in marineria.
L’idea di un viaggio attraverso il mar tenebroso, che atterriva tutti i marinai dell’Andalusia, non ispaventò Martin Alonzo Pinzon: era giunto testè da Roma, ov’era stato più fiate pel suo commercio. Da quest’ultimo viaggio recava seco alcune idee che lo avevano preparato naturalmente ai gran disegni di Colombo.
Martin Alonzo Pinzon conosceva particolarmente uno de’ bibliotecari di Papa Innocenzo VIII, che avea fama di molto versato in geografia. Questo dotto gli aveva mostrato un mappamondo, su cui si trovava indicata nel mare Oceano una terra senza nome, vers’occidente. Come il Guardiano della Rabida aveva avuto il presentimento delle terre sconosciute, il cosmografo della biblioteca papale si era forse elevato alle medesime comprensioni. D’altronde l’idea di Colombo non poteva essere ignorata a Roma: sappiamo che al tempo del suo carteggio con Toscanelli, questo Fiorentino frequentava la corte pontificia. Dalla capitale del mondo cristiano, Toscanelli scrisse la sua seconda lettera al navigatore genovese: non è pertanto credibile che Toscanelli, il quale stanziava a Roma, avesse a lui tenuto segreto l’ardito disegno comunicatogli da Colombo di scoprire l’estrema Asia per la via dell’Occidente.
Questo disegno, che doveva produrre sì gran risultamenti per la Chiesa, non poteva essere indifferente al successore del Principe degli Apostoli. Da più anni la Santa Sede trovavasi informata delle idee di Colombo. Le relazioni ulteriori di Cristoforo Colombo colla Santa Sede mostrano ch’egli aveva dovuto primieramente comunicare la sua risoluzione al Capo della Chiesa, e invocare la sua benedizione sullo scopo delle sue fatiche: una tradizione costante a Roma lo conferma; Roma anche a’ dì nostri ricorda un tal fatto. La famiglia di papa Innocenzo VIII sapeva quale interesse prendeva l’illustre Pontefice al progetto del suo concittadino; perciò fece scolpire sulla sua tomba la sua partecipazione alla scoperta, comechè non abbia avuta la gioia di vederne la riuscita.
Noi siam fondati ad affermare la esistenza di quel mappamondo che notava una terra da scoprire: una tale indicazione poteva esistere, o per effetto di quella misteriosa iniziativa delle grandi cose ch’è propria della Chiesa Romana, o come conseguenza e testimonianza della comunicazione precedente delle idee di Colombo, direttamente da lui sottoposte al Sommo Pontefice.
Il giovane Arias Perez Pinzon, che accompagnava suo padre in quel viaggio, assiste alle sue confabulazionï cosmografiche col bibliotecario; videlo consegnare a suo padre la copia di quella mappa, che questi conservò preziosamente, forse coll’intenzione di tentare un giorno la scoperta. Un abitante d’Huelva, Antonio Hernandez Colmenero, familiare di casa Pinzon, aveva udito leggere la descrizione di tal mappa a Roma, ove accompagnava il suo patrono Martin Alonzo. I cugini e gli amici di Pinzon, fra gli altri il pilota Juan de Ungria, Luis del Valle, e Martin Munnez avevano avuta da lui cognizione di quel documento.
Checchesia di ciò, appena Martin Alonzo Pinzon, che veniva da Roma, e Cristoforo Colombo che vi aveva relazioni, s’intesero fra loro, tutte le difficoltà scomparvero.
La notizia della comunicazione geografica fatta dal bibliotecario del Papa, venne ad afforzare l’approvazione che il Nunzio apostolico, il gran Cardinale di Spagna, il primo professore di Teologia a Salamanca e il francescano cosmografo Juan Perez di Marchena davano alle idee di Colombo. Evidentemente il patronato del clero pareva fornir guarentigia allo Straniero: la diffidenza contra lui diventò meno generale.
In breve andò intorno la voce che al primogenito dei tre Pinzon, comunemente chiamato il signor Martin Alonzo, and’ava molto a grado il disegno del Genovese. Si aggiungeva, altresì, che egli si proponeva di tentar l’avventura sulla Nina, bella picciola caravella appartenente a Vincenzo Yannes Pinzon, il più giovane dei tre fratelli, destinato ad essere annoverato fra le grandi celebrità di mare. Di fatto, i tre Pinzon avevano stretta una convenzione coll’amico del padre Juan Perez. Il loro esempio secondò maravigliosamente le influenze del Guardiano della Rabida, e la maggior parte dei marinai cominciò a rassicurarsi.
Il credito dei Pinzon era grande a Palos. ll signor Martin Alonzo faceva il commercio degli arredi e delle munizioni per le navi; era il principale provveditore della marineria in quel porto: le sue ricchezze, le sue cognizioni, l’antichità della sua famiglia lo ponevano capo ai più notevoli della città. Da quel punto, senza che Juan de Pennasola avesse motivo di esercitare nuovi rigori, Palos offrì in esecuzione del suo obbligo, come seconda caravella, una certa nave, invecchiata sul mare, chiamata «la Gallega» grossa, pesante, solidissima. Quantunque impropria al servizio a cui la si destinava, pur nè Colombo, nè Juan Perez, suo consigliere, ardirono rifiutarla, per la tema di allungare così i ritardi già tanto incresciosi alla loro impazienza. La Gallega fu dunque accettata qual caravella, e si cominciò ad equipaggiarla. Colombo la scelse per inalberarvi la sua bandiera di comandante; solo ne mutò il nome, per cristianizzarla; ponendola sotto la protezione speciale della Santa Vergine, la fece benedire e chiamare Santa Maria.
In mezzo agli apparecchi dell’armamento, Cristoforo Colombo continuava a menar la vita di un discepolo dell’Ordine Serafico: non usciva dal convento che per necessità, occupandosi della cura dell’anima sua, e avanzando nella perfezione cristiana. Allora si fu certamente che egli si obbligò, come membro del terz’ordine, alla regola di San Francesco: passava i suoi giorni nell’orazione e nella contemplazione de’ Misteri: procurava di diventare sempre meno indegno della bontà di Dio, che si era piaciuto eleggerlo per un’opera senza pari. Egli non si lasciò menomamente impassionare dai ritardi, dagli spaventi, dal mal volere della città, quantunque insorgessero alla sua partenza ostacoli così serii che la stessa autorità reale non poteva vincerli da sola.
La storia ha conservato memoria dei generosi sforzi del Guardiano della Rabida per sicurare gli animi e stimolare il coraggio; di Colombo non accenna: ei, che ne’ suoi viaggi posteriori mostrò sì grande operosità, e si occupò delle menome particolarità, non pare questa volta aver fatto cosa ricordevole.
Comprendendo che la sua qualità di straniero, di genovese rendeva sterile la sua eloquenza, che non si aveva in lui alcuna credenza, ch’egli non poteva formare a proprio grado il suo stato maggiore e la maestranza, che gli bisognava prendere ciò che la piccola Palos metterebbe alla sua portata, accettò con una intera annegazione della sua persona ciò che piaceva alla Provvidenza. Era ne’ suoi principii di non tentar Dio, di non far violenza alle circostanze, ma di soffrirle con rassegnazione, aspirando però con ostinata fermezza al conseguimento di ciò che reputava possibile ad opera d’uomo: sentiva come una fiducia ineffabile in cuore, non si spaventava in alcun modo delle difficoltà, non si preoccupava del di fuori, e rimaneva nel suo caro chiostro, culla del suo destino, ove aveva trovato un amico incomparabile, il più intimo, il più amoroso che egli abbia avuto sulla terra. Sicuro oggimai che la sua missione doveva compiersi, egli non abbandonava il suo lavoro interno, e si limitava a gettare di quando in quando il suo sguardo esercitato sulle particolarità dell’armamento, a cui i Pinzon vegliavano colla maggiore assiduità, perch’erano interessati al buon riuscimento della spedizione, avendo i tre fratelli, e particolarmente il più giovane, Vincenzo Yannez Pinzon, sulle istanze del padre Juan Perez anticipato a Colombo l’ottava parte della spesa totale che toccava a lui di fornire.
In una delle sue improvvise apparizioni in mezzo agli operai, Colombo sorprese uno spediente imaginato da Gomes Rascon e Cristobal Luintero per sottrarsi a quella navigazione che gli spaventava. Essi avevano disposto in tal guisa il timone della Pinta, che i pezzi, in apparenza perfettamente collegati, si sarebbero disuniti alla prima ondata: volle costringerli a rifare il lavoro, ma fuggirono, e gli altri legnaiuoli si nascosero.
Allora fu che l’infaticabile Francescano rese a Colombo nuovi servigi, riconducendo gli operai al lavoro, e stimolandoli colle sue salutari esortazioni. Grazie a lui, ben più che ai tre fratelli Pinzon ed alla guardia del corpo Juan de Pennasola, rimasto a Palos per affrettare la partenza, verso il cadere del luglio, le tre navi della spedizione furono in istato di navigare.
§ VI.
Niuno storico ha particolarizzati gli apparecchi di quel viaggio, e indicata la natura precisa de’ suoi mezzi di esecuzione: tutti si restrinsero a congetture. Si è creduto di rendere più interessante questa spedizione pretendendo fosse eseguita con tre navi, una sola delle quali aveva un ponte. La maggior parte degli scrittori ci mostrano Colombo premuroso di partire, avventurandosi su barche che Robertson paragona a grandi sciaIuppe; che Washington Irving chiama barche leggere; che La Martine denomina le tre barche; e che il signor Achille Jubinal appella barche costerecce; miseri navigli che la prima tempesta avrebbe sommersi. Credere ad una tale imprudenza è conoscere poco la sapienza dell’Uomo che Dio suscitò per simile opera.
Colombo, che non commetteva mai nulla al caso, sicuramente non sarebbe incorso in sì fatta temerità; e neppur avrebbe salpato, se avesse ottenuto due sole navi: ne chiedeva almen tre; e l’avvenimento giustificò le sue previsioni, provando, che, se non avesse avuto seco che due navi, l’Europa non avrebbe conosciuto mai la sua scoperta. I pericoli ch’egli andava ad affrontare erano abbastanza terribili senza aggiungervi i torti dell’imprevidenza.
A noi pare importante di arricchire la storia, dopo un lasso di trecento sessanta tre anni, di alcune precise particolarità sulle disposizioni materiali di questa spedizione, la più importante che mai sia stata.
Ciò che Colombo aveva espressamente chiesto erano tre caravelle: diffatto, per approssimarsi alle coste, navi più grandi sarebbero state un pericolo ed un impaccio.
Alcuni dotti hanno tessuto lunghe dissertazioni sull’etimologia, greca secondo gli uni, araba secondo gli altri, italiana a senno d’altri, della parola caravella; sostenendo ch’erano navi di non grande capacità, anzi di poca. Noi non temiamo di emettere una opinione assolutamente contraria alla generalmente adottata intorno alla mole delle caravelle. I fatti hanno una logica più calzante dell’etimologie, e dell’erudite definizioni.
Diciam, dunque, che le caravelle non erano così piccole come si suppone. La loro destinazione voleva, certo, che la loro dimensione fosse proporzionata al loro impiego. Or bene, esse adempievano nel tempo stesso all’ufficio de’ nostri brick e delle nostre navi da trasporto; servivano a trasferire soldati, viveri, artiglierie, ed a combattere in alto mare. Le caravelle furono le sole navi mandate dall’infante don Enrico in iscoperta nell’Oceano, e sulle coste dell’Africa occidentale. Quando il re Giovanni Il tentò, a’ danni di Colombo, la sua spedizione clandestina, fece partire una sola caravella, sotto il pretesto di andare a vettovagliare la colonia del Capo Verde. E in questo tempo, appunto, udendo gli apparecchi della Castiglia, volendo il Portogallo impedire colla violenza l’impresa di Colombo, mandava contra di lui tre caravelle.
Dunque le caravelle non erano navi dal legger carico che si crede comunemente.
Quelle ch’erano state armate a Palos per quel viaggio, bastavano rigorosamente al loro oggetto. Una circostanza di questa medesima navigazione stabilisce positivamente la cosa. La più piccola delle tre caravelle, il cui nome indicava esiguità, la Nina, provveduta solo di vele latine, come i batelli pescherecci di Marsiglia, si trovò nel corso di questa spedizione, in seguito ad un accidente di mare, portare cinquantasei persone, un sopraccarico di artiglieria, ed una parte degli arredi della Santa Maria, senza che questo peso facesse abbassare sensibilmente la sua linea a fior d’acqua. Secondo la testimonianza di Colombo, essa poteva portare cento uomini di più.
Senza esser sempre pontate dalla poppa alla prora, le caravelle portavano avanti e indietro, solidi castelli di legno, disposti per l’attacco e per la difesa. A cagione della loro grande elevazione al di sopra dell’acqua le caravelle si classificavano fra le navi di alto bordo: le mediane erano munite di sei ancore e di quattro alberi; il primo, vicino alla prora, portava una vela quadrata sormontata da un trinchetto: gli altri alberi portavano vele latine. Con tempo buono le caravelle potevano correre due leghe e mezzo all’ora.
La Santa Maria ch’era pontata, vale a dire provveduta di una tolda dalla poppa alla prora, aveva due alberi a vela quadrata, e due alberi a vele latine. L’albero maestro portava al di sopra della vela quadrata due piccole vele allacciate. Noi sappiamo che nel corso della navigazione s’impiegarono la mezzana, la civada, il trinchetto, ecc., il che implicava vele di gabbia, coffe, sarchie, un sistema di cordami e di girelle complicato. La dimensione della Santa Maria può esserci conosciuta molto approssimativamente: sappiamo che la sua grande scialuppa era lunga trenta piedi: ora, secondo le proporzioni allora stabilite nella costruzion navale, il rapporto della scialuppa alla caravella darebbe a questa una lunghezza di novanta piedi di chiglia, e una larghezza di ventisei piedi sul ponte, presso a poco la dimensione dei brick di guerra da dodici a venti cannoni. La Santa Maria aveva sul cassero un doppio ponte; sul davanti un piccolo castello. Il primo ponte e il castello erano forati per le bocche da fuoco. Nel primo ponte di dietro si allogavano pezzi di grosso calibro chiamati bombarde, e nel ponte superiore, cannoni di ottone, mentre sul davanti si trovavano spingarde e petriere. Otto áncore erano attaccate alla prora ed ai fianchi della pesante caravella.
Anzichè giudicare troppo piccola la Santa Maria, Colombo la trovava troppo grande. Ma siccome ne’ suoi terrori il comune di Palos non aveva voluto dare alcun’altra caravella, bisognò contentarsi di questa per evitare interminabili ritardi. Questa nave di bell’apparenza, e solidissima, quantunque già vecchia, era pesante, mediocre camminatrice, e poco adatta ad una spedizione di scoperta.
La seconda caravella, la Pinta, a vele quadre, e la terza, la Nina, a vele latine, avevano un ponte sul di dietro e sul davanti; ma lo spazio compreso fra ’l davanti e il di dietro non era coperto da un cassero: c’era semplicemente una ballatoia di tavole lungo il bordo della nave. Queste due caravelle, provvedute anch’esse di artiglierie, avevano cannoni di metallo sul di dietro e spingarde sul davanti. l viveri consistevano in bue affumicato, porco salato, biscotto, riso, piselli, ceci, fave, fagiuoli, aringhe, cipolle, vino, olio, aceto, sale, ecc., in tanta copia da poter bastare per un anno ad ogni caravella. Queste tre navi, che rappresentavano brick di dieci, sedici e venti cannoni, furono munite ciascuna di due pompe in legno per l’acqua. A’ dì nostri nessun ammiraglio si avventurerebbe a lontana esplorazione sopra simili navigli: ma siccome, eccettuata la Santa Maria, le due caravelle erano molto acconce per approssimarsi alle coste, e che gli equipaggi e i viveri v’erano sufficienti, così Colombo le trovò, diceva, molto addatte alla sua impresa, e passò a rassegna le persone della spedizione.
Sulla Santa Maria si imbarcarono secondo l’ordine di precedenza:
L’onorevole Diego de Arana, grande alguazile della flotta, nipote di Colombo; Pietro Guttierez, guardia nobile del Re addetto alla contabilità della corona; Rodrigo Sanchez di Segovia, eletto dai Sovrani veedor, controllore dell’armamento; Rodrigo di Escovedo, notaro reale, incaricato di stender gli atti e i processi verbali, secondo l’occorrenza; il bacelliere Bernardino di Tapia, storiografo della spedizione.
Dopo di essi venivano, quali luogotenenti di vascello, i piloti Per Alonzo Ninno, vero lupo di mare; Bartolomeo Roldan, marinaio specolatore, più mercante che militare; Fernando Perez Matheos, spirito inquieto e invidioso; Sancho Ruiz, zelante in adempiere al suo dovere; Ruy Fernandez, buon ufficiale; Juan de la Cosa, soprannominato il Biscaglino, abile nella teorica, e idrografo per istinto. Tenevano dietro l’interprete della spedizione, ebreo convertito, battezzato sotto il nome di Luiz de Jorrez, il quale sapeva il latino, l’ebraico, l’arabo, il cofto, l’armeno; ed il metallurgista officiale Castillo, orefice di Siviglia.
ll servizio di sanità si componeva di un certo maestro Alonzo, medico mediocre, e di un valente chirurgo, maestro Juan, compassionevole pei malati. Un uomo intrepido e modesto, il virtuoso Diego Mendez, Francesco Ximenos Roldan e Diego di Salcedo, attaccati al servizio della persona di Colombo quali scudieri, presero posto con due suoi amici, vaghi di arrischiate avventure, presso la gran camera ch’egli occupava sotto il cassero del castello di dietro.
Oltre Giacomo, mastro d’equipaggio ed il mastro delle manovre, ch’erano genovesi, trovavasi a bordo un mastro falegname, un mastro da racconciar le navi, un mastro armaiuolo, un bottaio, marinai e mozzi che ammontavano a quaranta, fra i quali un inglese Tallarte de Laiez, un irlandese William Ires, due portogliesi, e il majorchino Sebastiano; fra tutti colla giunta d’un servo e di due cuochi sommavano a sessantasei persone.
Cosa da notare: fra gli uomini dell’equipaggio della Santa Maria nessuno era di Palos; tutti venivano dal di fuori, la maggior parte da Siviglia o dalla provincia di Huelva. Ma tutto al contrario, sulla più grande delle due caravelle, la Pinta, ufficiali e marinai erano tutti abitanti di Palos, o parenti o amici, o vicini dei Pinzon. Perfin l’ammiratore di Colombo, il medico Garcia Hernandez, dominato dalle sue relazioni giornaliere di vicinato, non si era imbarcato a bordo della Santa Maria. Egli aveva seguito, come suo patrono naturale, il signor Martin Alonzo, di cui era amico da lunga pezza.
Il primogenito dei Pinzon montava la fina veliera Pinta, di cui esso era capitano: aveva quai luogotenenti suo fratello Francesco Martin Pinzon, suo cugino Juan de Ungria e Cristobal Garcia Xalmiento; come medico Garcia, Hernandez di Palos, l’amico del Guardiano della Rabida; e qual commesso ai viveri, un altro Garcia Hernandez, nativo di Huelva, che gli storici hanno ostinatamente confuso col precedente; quali aiutanti un Garcia Valleio, poi un Garcia Alonzo, poi un Garcia Diego; il mastro e il contro-mastro Gomez Rascon e Cristobal Quintero, proprietari della nave. A quest’ultimo aveva tenuto dietro il suo parente Juan Quintero, detto il danaroso. Finalmente venivano Diego Fernandez, Colmenero, Diego Bernudez, Bartolomeo Colin clienti e vicini di casa del signor Martin Alonzo. Eccettuato Juan Rodriguez Bermeio, nato a Molinos, il rimanente de’ marinai era di Palos, o di Moguer. L’equipaggio della Pinta ammontava a trenta uomini, compresi gli ufficiali.
La bella camminatrice Nina, comandata da Vincenzo Yanez Pinzon, con ventiquattro uomini, portava il rimanente de’ parenti, amici e vicini dei Pinzon.
Non si può dubitare che Colombo compiendo la revista degli equipaggi, non abbia loro, secondo le sue abitudini, fatto un discorso, e che cedendo al bisogno del suo cuore, non abbia parlato di Dio, nelle cui mani dovevano tutti fidare l’anima loro. Qualunque fosse la risoluzione di quegli uomini, approssimandosi il momento della partenza, una grande apprensione conquiseli. L’imminenza del pericolo in una simile spedizione rivolse i cuori verso il Padre delle misericordie. Tutti pensarano a riconciliarsi con Dio, a confessarsi e ad ottenere l’assoluzione delle loro colpe. Dopo di che, andarono insieme processionalmente al monastero della Rabida, avendo alla testa il loro comandante, per implorare l’assistenza divina, e porsi sotto la protezione speciale della Santa Vergine: udironvi la Messa, e ricevuta la santa Eucaristia dalla mano del padre Juan Perez de Marchena, tornarono in processione alle caravelle.
Fu questa una mesta e commovente cerimonia. Tutta la città di Palos era intenerita come i marinai, e molte furono le lagrime versate nella cappella della Vergine.
Affine di profittare del primo vento d’est che si levasse, fu vietato agli equipaggi di allontanarsi dalle navi, e non fu permesso neppure agli ufficiali di dormire a terra. Dovea venire inalberata la bandiera a segnale della partenza. Avendo Colombo comandato che lo si avvertisse appena cominciasse a soffiare il vento desiderato, abbracciò il figlio Diego, restituitogli dal suo generoso istitutore Juan Perez; e avendo fidato al buon abate Martino Sanchez e a Rodriguez Cabezudo, accorsi da Moguer per ricevere il suo addio, la cura di condurre Diego a Cordova, asua moglie dona Beatrice ove doveva finire la propria educazione, egli fece ritorno alla sua cella della Rabida.
Da questo momento pare che non abbia comunicato altro che col venerabile Juan Perez de Marchena. Nulla preoccupavalo, ne il timore, ne l’idea del pericolo: non si dava più fastidio degli uomini; avviato a scoprire segreti forse formidabili, occultati alla curiosità degli uomini dacchè il mondo era creato, ei passava il suo tempo a consultar Dio, ad ascoltarlo, a purificare il cuore, per meritare di costituirlo tempio dello Spirito Santo. La propria conoscenza delle Sante Scritture ampliavagli la intelligenza: sentivasi destinato ad una missione sublime; andava a sostenere e compiere un apostolato inudito, a portar la croce per mezzo al mar tenebroso in regioni ignorate, ed a porre gli eredi della posterità di Sem in relazione coi loro fratelli, anticamente perduti, della famiglia di Jafet.
Sepolto in quel pacifico monastero, ove gli erano piovuti tanti insperati conforti, la sua fede semplice e ardente si sollevava a Dio; e la sublimità della sua sapienza, il cumulo della sua scienza non recavano alcun impedimento alle tenere espansioni della sua pietà ed al candore della sua devozione: meditando il suo libro favorito, il Vangelo di san Giovanni, s’ingolfava come l’Aquila di Patmos, nelle profondità del Verbo, da cui ogni cosa è stata fatta: l’anima sua amorosa passava nell’orazione e nella contemplazione tutto il tempo che aveva sciolto dagli uffici del coro, perocchè seguiva scrupolosamente la regola di san Francesco.
§ VII
Verso le tre ore della notte del 3 agosto, Colombo si risvegliò improvvisamente al dolce fremer dei pini, agitati sulla cima dal venticello di terra. Il sottile udito dell’uom di mare riconobbe incontanente il soffio aspettato.
Quel giorno era un venerdì.
ll venerdì, riputato di funesto augurio, e oggetto di una superstiziosa avversione fra le genti di mare, diventava invece per questo fervoroso cristiano un fortunato presagio, perocch’era il giorno della Redenzione, il giorno della liberazione del Santo Sepolcro, per opera di Goffredo Buglione, il giorno della resa di Granata, palladio del maomettismo nell’Occidente. ll venerdì parve, dunque, a Colombo un giorno provvidenzialmente eletto.
Uscendo incontanente dalla sua cella, Colombo andò a battere a quella del padre Guardiano, e in breve questo risvegliò il frate portinaio, che andò ad accendere le candele dell’altare, e preparare ogni cosa per la Messa: pochi momenti dopo le sentinelle di guardia sulle caravelle poterono vedere a quell’ora insolita brillare frammezzo ai pini le alte vetriate della Rabida. Mentre la Comunità Francescana dormiva un pacifico sonno, Colombo entrò solo a quieti passi nella cappella di Nostra Donna. ll padre Guardiano, vestito de’ suoi abiti sacerdotali, salì l’altare per offrire l’augusto Sagrificio con un’intenzione inudita sino allora, unica dacchè fu istituita l’Eucaristia. Nel punto della comunione, Colombo si accostò alla sacra mensa, e ricevette in viatico il Pane degli Angeli. Dopo il ringraziamento, uscì senza romore dal convento, sempre accompagnato dal padre Juan Perez de Marchena.
Durante l’effusione di queste sante emozioni, il raccoglimento diventa un bisogno, e il silenzio una dolcezza; la parola non potrebbe che sturbare la calma interna ch’è impotente di eprimere. È probabile che ambedue discendessero, assorti nei loro pensamenti e silenziosi, la china silvestre, per la quale si giunge a Palos. Le ultime stelle brillavano ancora nel firmamento, e poco mancava ad albeggiare. Il venticello del mattino spargeva per mezzo la foresta l’acre odore de’ pini, l’aroma del timo e delle levande, ultimi profumi che la terra di Europa tributava a Colombo.
l due amici appena giunsero a Palos, la scialuppa maggiore della Santa Maria si accostò alla riva per accogliere il suo comandante.
La voce de’ piloti di servizio, e il fischio de’ contro-mastri, che comandavano le manovre, risvegliarono gli abitanti delle case vicine. In un istante si aprirono le porte e le finestre; e il grido partono! partono! echeggiò in breve dall’una estremità all’altra del borgo. Le madri, le mogli, i figli correvano al mare piangendo; i parenti e gli amici si gettavano nelle barche per accostarsi alle caravelle e salutare coloro che pensavano di non aver più a vedersi. Colombo, stringendo al suo petto il Francescano commosso fino al piangerne, diegli un muto addio, e si gettò nella scialuppa, che tosto raggiunse la Santa Maria.
Ricevuto al suo bordo cogli onori prescritti dagli statuti dell’ammiragliato di Castiglia, il comandante salì sul cassero, ed esaminò con un girar d’occhio le prese disposizioni. Fu gridato alle barche concorse degli abitatori che si allontanassero. In breve tutte le navi furono preste, e le áncore tirate su. Al segnale di partenza dato dalla Santa Maria, s’inalberò il reale stendardo della spedizione. Fedele emblema de’ sentimenti di Cristoforo Colombo, d’Isabella, e dello scopo dell’impresa, quella bandiera era veramente il vessillo della Croce: portava l’imagine di Nostro Signore Gesù Cristo, inchiodato sull’albero della salute, mentre sull’antenna maggiore della Pinta, e della Nina sventolava solamente la bandiera dell’impresa, segnata d’una croce verde, fra le regie iniziali sormontate da una corona.
Allora Colombo salutando con volto sereno la calca del popolo stivato sulla riva, indi mandando colla mano l’ultimo addio all’amico Juan Perez, prese posto al suo banco di quarto; e tutto compenetrato del carattere della sua impresa, dominando colla voce il romor confuso dei tre equipaggi, comandò in nome di Gesù Cristo di spiegare le vele.
§ VIII.
Mezz’ora dopo, il disco del sole spuntava dalla scura cortina de’ pini della Rabida. Le tre navi, a vele gonfie per un vento fresco di Est, discendevano rapidamente portate verso Torré de Larenilla; e in breve la sinuosità dell’Odiel le occultava agli occhi della popolazione conquisa di tristezza: ma dal terrazzo del convento le tre navi, dopo valicato Saltes, furono palesi per più di tre ore. Que’ Francescani poterono vederle abbassarsi e scomparire al di sotto della linea azzurra che chiude l’orizzonte.
Non vanno sicuramente ingannati coloro i quali tengono per certo che il padre Juan Perez de Marchena, il qual primo in Ispagna accolse Cristoforo Colombo, porse egli il primo incoraggiamento e il primo appoggio, gli avrà dato dalla sommità del suo terrazzo l’ultimo sguardo, elevando per lui fervorosa preghiera.