Così mi pare/Cosette/Il magico cerchio
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Il magico cerchio
Il dono dei doni.
Qualche anno fa, moriva a Parigi una donna che aveva riempito il mondo della sua fama di bellezza per circa tre lustri e che il mondo, da mezzo secolo, aveva ormai dimenticata. Moriva in una solitudine che aveva qualcosa di tragico, assistita soltanto da una vecchia domestica fedele, in un appartamento che ancora serbava vivo il ricordo degli antichi splendori ma che da quaranta anni restava avvolto in una penombra continua — contesa la luce del sole dalle griglie delle finestre sempre accostate, dalle doppie cortine calate; conteso il riflesso delle cose intorno e delle due creature che fra quelle cose si aggiravano come ombre silenziose agli specchi sempre velati con una cura e una gelosia che erano diventate mania pietosa. Quella donna era la famosa contessa di Castiglioue, fiorentina di nascita, trapiantata a Parigi sull’inizio del secondo Impero, bella così da emergere fra tutte le donne delle Tuileries che pure avevano accolto tante meravigliose creature rivestite di tutte le grazie.
Dopo aver brillato e dominato a Corte e fuori dalla Corte col fascino indicibile della sua bellezza onnipotente che le cronache destinate ad essere materia per la storia di domani dicono fosse anche adoperata da Cavour come strumento politico, la contessa di Castiglione scompariva a un tratto, in pieno meriggio di vita, ancora in tutto il fulgore della sua bellezza, e la mondanità parigina non la vide più brillare astro fra gli astri suoi fulgidi — conquistatrice di cuori, suscitatrice di entusiasmi senza nome.
La bellissima s’era condannata volontariamente alla reclusione terribile durata poi più di quaranta anni, per non far assistere il mondo al crepuscolo della propria bellezza.
A trentasette anni, in piena giovinezza ancora e in piena forza, la contessa di Castiglione scompariva perchè nessuno potesse seguire sul suo viso l’alterarsi di quella perfezione prodigiosa di grazie che era parsa miracolo e che era stata la sua sola ragione di vivere. Anzi, per non vederla nemmeno coi propri occhi, la decadenza inevitabile, Virginia di Castiglione volle che tutti gli specchi della casa dove ella si murava viva, ormai, colla sola compagnia d'una fedele domestica devota e delle sconsolate sue nostalgie, venissero velati. E velati rimasero sino al suo ultimo giorno e mai più il volto divino, sul quale il tempo inesorabile andava segnando la sua impronta, riflettè la trama di rughe lievi che forse l'artifìzio avrebbe potuto celare ancora per parecchi anni agli occhi del pubblico se la contessa di Castiglione non avesse sempre sdegnato superbamente l'artifìcio — lo spegnersi lento e inavvertibile ma altrettanto ineluttabile della luce prodigiosa onde pareva materiata la sua carne — l'impallidire del fuoco dei suoi occhi stellati che avevano saputo riflettere mille anime.
La contessa di Castiglione aveva vissuto. Per nove lustri ancora si prolungò la sua esistenza e fu tutta un lungo, lento, triste vegetare sostenuto, dapprima, dai ricordi, mutato poi in malinconia profonda che a sua volta divenne infine mania.
Fin che non venne la morte.
Questo tramonto singolarissimo, d’una tragicità silente che ha nascosto forse chissà quale disperazione inconfessata, mi ha sempre fatto una profonda impressione.
Esso dice, meglio di qualsiasi commento, cosa sia e che possa diventare in una vita di donna il dono grande di una grande bellezza — dono tragico, che nessun destino d’eccezione può salvare dalla caducità inesorabile, che si muta perciò quasi sempre — e il quasi mi sembra anche superfluo — in una fatalità di sofferenza.
Una donna bella — veramente bella — di quella bellezza che trionfa di ogni discassione perchè s'impone a tutti e tutti piega in un omaggio d’ammirazione unica — è una stella fulgida che attraversa il cielo in una calda notte estiva vincendo col suo solco luminoso il tremulo brillare lieve delle pallide sorelle lontane, immote, ma per cadere poi e spegnersi con una inesorabilità che stringe il cuore.
Eppure, questa caducità non diminuisce certo la grandezza di quel dono divino che è la bellezza; forse, anzi, lo rende più prezioso e più intenso. Può, a una certa ora, mutarsi in malinconia, in tristezza, in disperazione, magari, per la stella che ha descritto tutto il solco e rientra ormai nel silenzio e nell'ombra, ma, in sé, non cessa d’essere il più grande di tutti i doni che possan venir largiti a una donna.
Ne siamo tutti convinti, e non è certo l'elogio della bellezza che io intendo di tessere. Anzi, poiché questo dono è altrettanto raro quanto grande, io vorrei trovare, per le mie consorelle in Eva, qualche ragione di conforto nelle considerazioni suggeritemi dai rapporti che possono esistere tra la bellezza assoluta che è la parte di pochissime privilegiate e la felicità che è l’aspirazione naturale di tutte le donne.
Io credo di non ingannarmi asserendo che felicità si traduce per tutte, o quasi, le donne, in un’aspirazione unica; essere amate. Ora, il destino d’amore di una donna, è forse in proporzione diretta della sua bellezza? Assolutamente no. Anzi, io non esito a formulare una dichiarazione che è la deduzione di lunghe osservazioni raccolte: questa, che la bellezza è la qualità meno necessaria per essere amate. Intendo parlare, s’intende, della bellezza assoluta. Certo, una relativa leggiadria che può essere ugualmente grazia, simpatia, armonia è necessaria per suscitare quell’attrazione che è il primo principio dell’amore. Ma questa relatività è molto lata e non ha nulla a che vedere colla bellezza.
Un asserto comune e notissimo dice che le grandi passioni furono sempre ispirate da donne che, se non erano assolutamente brutte, non potevano però certo annoverare tra i loro fascini quello della bellezza. Certo sta il fatto che le donne più ardentemente amate non furono mai le più belle. Ogni uomo ha per se una piccola o grande esperienza personale che è la conferma di questa verità. Ogni uomo, se vuole essere schietto, vi dirà che la donna che egli ha amato fra tutte, nella vita, non è mai stata la più bella fra quante gli sono appartenute.
Un esempio. All'età in cui la bellissima Castiglione si appartava dal mondo per nascondere il lento declinare della sua bellezza e rinunciava perciò all’ammirazione, all’adorazione, all’amore, un’altra donna, brutta ma affascinante come l’altra non era stata mai, Giorgio Sand, ispirava a Federico Chopin una passione che doveva sopravvivere alla morte e diventare materia d’immortalità.
Giorgio Sand aveva 37 anni quando innamorava di sè Federico Chopin e aveva passato i 30 da quattro quando legava al suo cuore il cuore vagabondo di Alfred de Musset.
Di che cosa è dunque costituito il fascino che più sicuramente della bellezza può assicurare alla donna la felicità unica dell'amore?
Nel caso di Giorgio Sand era costituito sopratutto dall’ingegno, che certo è la più grande di tutte le forze e che può diventare anche arma di conquista formidabile, quando però vada unito a un temperamento veramente femminile, perchè in caso contrario diventa forza negativa. Ma c’è una intelligenza dell'amore che non ha niente a che fare coll'ingegno e che è largita da natura a tutte le donne: un’intelligenza estetica fatta d’intuito e di finezza, di desiderio di piacere e di visione dei mezzi che più direttamente possono portare alla realizzazione di questo desiderio.
È questa intelligenza particolare che insegna alla donna ad affilare le armi per la conquista, a mettere in risalto quella speciale bellezza rivelata o latente che a nessuna è negata e che, ben conosciuta e bene impiegata, può diventare arma possente e formidabile.
La bellezza vera e quell'altra.
Succede della bellezza femminile quello che succede un po’ dell'anima della donna: se non c'è, si può sempre fabbricare. A suscitare un’ anima nei magnifici involucri vuoti pensa l'amore; a fabbricare la bellezza provvede l'eleganza.
Vero è che n'est pas élégant qui veut, come pochi sono gli eletti a quel privilegiato amore che ha il dono magico di suscitare le anime, ma quando l'eleganza c'è, si può quasi giurare che la bellezza artificiale che essa crea è superiore a quell’altra largita da madre natura.
Intanto è una bellezza intelligente che sa sempre trarre il maggior vantaggio possibile da tutte le risorse largita da natura prima di aggiungervi quelle innumerevoli dell'arte. E natura non è così avara come la generalizzazione dell'apparente bruttezza potrebbe far credere. Se è difficile incontrare una donna tutta bella, rispondente in tutto all'ideal tipo di perfezione estetica, è quasi altrettanto raro trovare una donna che sia tutta brutta. Qualche risorsa, natura benigna l'ha largita a tutte: dove manca la perfezione dei lineamenti può esistere un'intensità d’espressione anche più efficace della bellezza; una brutta bocca può essere riscattata da due begli occhi, da una chiostra di magnifici denti, da un sorriso pieno d’incanto; una carnagione avvizzita o sciupata può avvantaggiarsi dell'ombra d’una chioma ricchissima; un povero visetto insignificante può offrire l’orgoglio di un bel corpo.
E la voce? avete mai pensato quale magnifico, mirabile, possente strumento di seduzione sia una bella voce capace di piegarsi a tutte le sfumature del pensiero, di vibrare colla irruenza della passione, di fremere collo sdegno, di piangere colle lagrime, di squillare in una risata trillante?
Che più? persino una imperfezione, un difetto fisico possono diventare un fascino attraverso l’abilità sapiente d’una intelligentissima che conosca l’arte della bellezza.
Un volto scavato da una vita troppo intensamente vissuta, animato dalla fiamma della passione, divorato dalla sofferenza, può diventare un viso tragico se appena la donna sappia illuminarlo dell’espressione relativa. Esagerando una curva povera, si arriva al preraffaellismo — un genere apprezzatissimo in estetica; sottolineando una linea troppo snella, si crea il fascino bizzarro e ambiguo della figura efebica.
Tutto serve, anche il difetto, per creare la bellezza artificiale. Senza contare che questa ultima ha sulla bellezza autentica, naturale, immutabile, il vantaggio enorme della varietà. C’è una moda della bellezza come c’è la moda del vestire; ora, quest’ultima forma di bellezza che è fatta tutta di artifìcio non appartiene che alla donna elegante. Non solo ella sa in che cosa consista precisamente il pregio che l'attimo vuol rilevare e far valere, ma ha abituato il proprio corpo a quella direi malleabilità che è indispensabile per facilmente plasmare il tipo della bellezza nuova. Una donna idealmente bella è sempre un poco maestosa cioè fredda e rigida, chiusa in una linea immutabile come in una immutabile formula: una elegantissima ha piegato il suo corico a tutte le forme e tutte le linee: sul suo corpo quasi sempre un po scarso, un po’ manchevole, il busto facilissimamente si modella disegnando la linea dritta cui è affidato il successo della moda nuova, oppure sviluppando con una finzione di libertà assoluta il busto magro e snello dalla breve fascia avvincente, o alzandosi sino a offrire in una appariscente formosità mendicata la curva esile e preziosa d un seno efebico. Sul pallore interessante d un visetto come materiato di sentimento di passione, divorato tutto da due grandi occhi che una sapiente sfumatura di kohl rende immensi e languidi e ardenti e profondi, suggestivamente stanchi, l'elegantissima può, secondo vuole la moda o l’occasione suggerisce, distendere lo incarnato lieve che sostituisce le rose negate a una giovinezza triste o appassita da una troppo ardente estate, disegnare la linea vivida di una sinuosa bocca sanguigna, mettere il riflesso di fuoco di un colore, di una stoffa, di una gemma. Arte che la bellezza autentica e maestosa e immutabile un poco ignora e molto disdegna, che l’uomo o non vede o non analizza o non comprende, ma della quale subisce il fascino profondo e bizzarro senza cercare di spiegarselo, senza tentare di sottrarvisi.
Un altro vantaggio di codesta speciale bellezza, fatta di elementi infiniti e complessi che vanno dall’intelligenza alla grazia e dall’artifizio all’eleganza, è quello di prolungare indefinitamente la sua primavera.
Una donna bella... a questo modo, invecchia molto più tardi della veramente bella nel significato semplicemente estetico della parola.
L’ora del crepuscolo.
A questo proposito osserviamo che anche indipendentemente da quel bizzarro fenomeno letterario e sociale che ha prolungato d’assai — rispetto al limite che le era concesso un tempo, la durata della giovinezza della donna — l'ora del crepuscolo femminile non ha una cifra, non viene a scadenza fìssa, non a data determinata.
Poche felicissime sanno protrarla lontano lontano, proprio verso la sera; altre l'incontrano nel punto che ragionevolmente dovrebbe esser quello del meriggio; altre ancora — e son parecchie — vi cadono subito, appena uscite dal periodo breve di gioventti beata. Decadenza precoce, che suppone sempre un passato avvizzito dalle lagrime o bruciato dalla passione, sovente sciupato da questa e da quelle insieme: fiamme e brina gelide: ma arsura sempre.
E così — tanto per quelle che hanno troppo pianto come per quelle che hanno troppo amato è la fine precoce — il principio della fine, almeno: le guance senza rose, ormai, gli occhi stanchi, come velati dalla luce troppo intensa dei ricordi fulgidi, le labbra pallide un pò vizze, e all'angolo delle labbra, e all'angolo degli occhi, verso le tempia delicate, le brevi, sottilissime rughe percettibili appena ancora ma presenti e inesorabili.
Questi tramonti precoci hanno qualcosa di tragico ma non è detto che essi rileghino implacabilmente una donna oltre le soglie del passato. Un giovane viso appassito e distrutto dalla fiamma o dal pianto ha sempre un intensità di espressione che, per alcuni, costituisce un fascino anche superiore a quello della fresca bellezza della maschera di raso liscio e senz’anima. I visi tormentati, lavorati dal sentimento, dal pensiero, dal dolore, dalla irrequietezza; i pallidi visi di sfinge sbocciati già stanchi, materiati di spirito e di fiamma, sono quelli che suscitano le passioni più violente e gli amori pili duraturi. Non è possibile giudicarli alla stregua del criterio di bellezza comune perchè essi si staccano da codesto criterio di quanto lo spirito distanzia la materia.
L’antitesi di codeste creature nate vecchie, come avessero sul viso la maschera di esistenze anteriori e scavate in volto precocemente dalla passione o dal pianto, è costituita da tutte le privilegiate per le quali gli anni sono passati e passano impunemente; dalle donne di cinquanta anni che ne dimostrano trenta, dalle sessagenarie che sembrano appena quarantenni e che quasi sempre debbono questa resistenza prodigiosa a una... impermeabilità sentimentale che le ha salvate sempre dalle traccie della vita vissuta. La conservazione fisica sta sempre in ragione inversa della sensibilità; l' indifferenza, l'aridità, l'egoismo sono le più miracolose fra les eaux de Jouvence.
Ma fra questi due eccessi, fra la categoria delle donne aride che attraverso le fiamme e i rovi sono passate vestite d’amianto cosicché ancora possono, assai oltre le soglie d autunno, portare intatto il dono di bellezza e di freschezza ottenuto da natura — e le altre, le passionali, le sensitive, le tormentate che questo dono perdono troppo precocemente, sta tutta la lunga teoria delle donne equilibrate e sane, che al sentimento hanno pagato e pagano il loro tributo ragionevole, ma anche sanno godere della vita le oneste gioie serene, che conoscono e conobbero il pianto ma non lo cercarono con voluttà, che la passionalità istintiva temperarono colla forza, e giunsero al meriggio della vita armoniosamente.
Queste sono le donne che ragionevolmente possono chiedere all'arte, all'igiene, alla filosofia il segreto di prolungare il loro meriggio oltre quel limite che normalmente è fissato dagli anni.
⁂
Certo, la giovinezza è la giovinezza. Negare la superiorità del suo fascino sarebbe assurdo; ma precisamente perchè codesto fascino è di sua natura così passeggero e costituito — oltre che dalla freschezza fisica — da un infinità di elementi fisici, spirituali e morali inimitabili, sarebbe puerile il volerlo prolungare artificialmente. Siate una bella donna di trent’anni, ma non abbiate la pretesa di dimostrarne venti. Già, nessuno vi crederebbe. Non basta il viso e non basta la gracilità della figura pour donner le change. I vent'anni hanno... un dinamismo tutto particolare che la compostezza sobria dei trenta ha scordato ormai per sempre; è una particolare leggerezza nel camminare, nel muoversi, nel gestire; una grazia inimitabile in tutti gli atti; è l'istintivo sorriso degli occhi e delle labbra, la luminosità trasparente da tutto il viso; è la cara impressione di stupore che ancora la vita produce colle sue rivelazioni tutte nuove e tutte belle; è insomma, la divina febbre che si vive una volta sola e che sarebbe follia vana voler produrre artificialmente.
Accontentatevi d essere una bella donna di trent’anni. Credete forse sia debole il fascino della €lonna di trentanni? Chiunque ha vissuto sa che questa è l'età femminile perfetta quella che porta la pienezza della bellezza e la pienezza della passione insieme. La donna è uscita dal suo tirocinio di vita ed entra nella vita vera armata di tutte le sue seduzioni, di tutti i suoi fascini, addestrati dalla consapevolezza acquisita ad armi formidabili di conquista. Se un sentimento ella susciterà, adesso, sarà non più la tenerezza ma la passione; se una fiamma accenderà, sarà non quella che riscalda ma quella che consuma.
Dai trenta ai quarant’anni non è ancora possibile parlare di crepuscolo; la donna è nella pienezza del suo meriggio e questo meriggio può prolungarsi fin oltre il capo della quarantina senza nulla perdere del suo fascino. Il consiglio dato prima serve anche qui; accontentatevi d'essere, in questo caso, una piacentissima donna di quarant’anni senza pretendere di dimostrarne trenta. Al più, sorvegliate il vostro corpo per metterlo in condizione di lottare il più a lungo e il più vantaggiosamente possibile contro le stimmate della decadenza che i quarant’anni imprimono quasi sempre.
Le norme estetiche, qui, si fondono con quelle igieniche: un regime severo; molto esercizio di moto per combattere la tendenza a ingrassare; una reazione costante contro quell’istintiva stanchezza che degenererebbe facilmente in trascuratezza, in abbandono, in laisser aller.
Queste semplicissime norme, applicate con costanza, possono benissimo ringiovanire ogni donna di almeno cinque o sei anni.
Poi... poi, quando ogni onesta lotta sia diventata inutile e la vecchiaia definitiva sia giunta, un bell’atto di rassegnazione coraggiosa e avanti.
Forse, fra tutte le ore della vita, quella che accenna al declinare non è la peggiore: passa l’amore torbido, ma restano gli affetti dolcissimi, e delle tempeste passate rimane il ricordo così dolce a pensarsi! Gli occhi perdono il lampo vivo della passione ma serbano, dentro, tutta la sapienza del dolore e la punta nostalgica d’un rimpianto che se è sereno è soavissimo. Colpiscono meno, ma commuovono assai più: sono gli occhi buoni che danno il riposo e promettono la pace.
Le mani bianche, un po’ meno ardenti perchè la febbre è cessata, han pur sempre le carezze dolci, le carezze che fanno bene senza far male che danno ancora il piacere senza darne lo spasimo — e la bocca ha baci, e la voce ha suoni che la giovinezza non sa: baci e accenti di amica vera, di amica preziosa e cara... C’è una forma di tenerezza che nasce soltanto dopo morto l’amore e che fa di qualche antica mica la più devota e la più fida fra le persone care: questo per le anime ammalate di bisogno d’amore che non saprebbero più come vivere, di che vivere, per chi vivere dopo fatta la grande rinunzia.
Ma quando l’ora è suonata, bisogna avere il coraggio simpatico di cedere le armi col buon sorriso schietto di un evento accettato con filosofìa serena.
Sopratutto, niente resistenze inutili. Ah, le vecchie giovani restaurate come gli affreschi umidi e stinti delle chiese antiche! le signore mature ostinate sui quaranta da una quindicina di primavere e ricorrenti per P inganno a tutte le risorse della toeletta e dell’artifizio!
Anche Musset ne inorridiva:
Je deteste avant tonte chose
Ces vieilles femmes teintes de rose
Qui font peur à voir...
Ma perchè l’inganno — che d’altronde non inganna nessuno? Poiché è legge di natura che dopo l’aurora e il meriggio arrivi il crepuscolo, che all'estate carica di tempeste subentri la calma dell'autunno tiepido e soave, perchè voler sottrarsi all'inevitabile?
Le benemerenze dell’artificio.
Un amico mi osservava l'altro giorno contemplando da un poggiuolo una deliziosa teoria di belle passeggiatrici elegantissime giù nella strada:
— Come la moda ha abbellito la donna! guardate laggiù: come sono tutte snelle, tutte flessuose, tutte plasticamente belle quelle signore! non è più possibile trovare una donna veramente elegante che sia brutta: avrà un viso irregolare, magari inespressivo, sciupato: in cambio offre sempre la seduzione di una linea così impeccabile che riscatta anche la bruttezza del viso.
— Merito della combinazione e del busto! — ho osservato io sorridendo un poco.
— Merito di quello che volete, non cerchiamo, anzi, non cercate, non mi scoprite l’arcano. Lasciatemi l'illusione che invece la bellezza femminile ha subito un’evoluzione che l'ha perfezionata idealizzandola, temperando quello che c’era di sovrabbondante nella linea, attenuando, ammorbidendo, digrossando...
Ho interrotto con un’impertinenza:
— Dio, quanti gerundi per un volo lirico! Non è niente di tutto questo, caro amico. La vostra illusione sapete a che cosa è dovuta? proprio soltanto a un puntiglio del busto.
Così, come vi dico.
Erano anni che in nome dell'igiene e anche della bellezza, complici i medici, gli artisti, i dilettanti di sport, i pedagogisti e che so io, si faceva al busto un processo spietato che qua e là s era chiuso con una sentenza definitiva di condanna, e alla fine il busto s’è ribellato. Perseguitato, insidiato, offeso, calunniato, esso s’è vendicato a un tratto mostrando tutte le risorse che la bellezza femminile può ricavare da lui, alleandosi alla Moda per imporsi, inventando una foggia di vestito aderente come una guaina, attillato come un guanto, che rendesse indispensabile il suo sussidio per correggere e avvantaggiare la plastica sortita da madre natura. L’igiene e l’arte volevano affrancare il fianco della donna dalla schiavitù di quello che era stato definito uno strumento di tortura, e lo strumento di tortura, che in questi tempi era stato ridotto alle più. innocue proporzioni, nonché lasciar libero il fianco contesogli, è salito a costringere anche i seni, è disceso a comprimere i lombi, ha disteso il suo dominio sopra tutta la donna. Oggi, le elegantissime che sembrano snelle come la gazzella del Cantico dei Cantici e flessuose come la vetta di un palmizio orientale, sono quasi tutte imbustate da sotto le ascelle alle ginocchia. Qualcuna ha chiuse nel busto anche le spalle, precisamente. Dopo la quarantina, specialmente se la formosità è un po’ accentuata, le spalle si arrotondano in una pienezza che non è considerata precisamente fra gli attributi della bellezza. Impossibile, con quelle spalle, d’indossare la princesse-guaìna. E allora si prega il busto di salire a imprigionare anche le spalle. La persona rimane così chiusa tutta in una corazza che è solida senza essere rigida e sulla quale il vestito cade e si modella con quella morbidezza che vi fa credere che le donne siano tutte modellate come statue in questa anno di grazia 1912.
Erano anni che Parte del vestire andava cercando nelle reliquie delle eleganze passate una ispirazione simpatica: invano. Nessuna delle mode tramandate dalla storia si confaceva alla donna moderna, nessuna era atta a velare e a rivelare la creatura complessa e multanime che è il risultato di tutte le femminilità passate fuse nel crogiolo della vita moderna intensa e vibrante. Finalmente s’è trovato: è venuta una moda che ha rivoluzionato tutto, dall’indumento più intimo — che ha addirittura soppresso — alla sottogonna che s’è fusa in un unico indumento col busto diventato una guaina modellatrice, al vestito che s’è mutato in un’altra guaina ma rivelatrice, questa. Chiusa in questo triplice indumento: combinazione, busto e vestito — allungata dalla linea non più interrotta alla cintura ma profilantesi sinuosa e line in una indiscrezione deliziosa rivelatrice, la figura muliebre ha acquistato davvero l’espressione intonata alla sua psicologia; sfuggente, ambigua, felina, audace, strana, artifiziosa.
La cerchereste invano, questa espressione, nei paniers e nei poufs del 700, nelle crinolines del Secondo Impero tronfie e barocche, nei camargos voluminosi e nei volants innumerevoli di trent’anni fa.
A torto la parola moda è considerata, nel nostro tempo, sinonimo di frivolità.
Nulla serve quanto il costume a rivelare le tendenze, il gusto, la serietà d’un’epoca, il grado di comprensione raggiunto nel tempo. Nulla serve quanto il vestito per definire il carattere della femminilità in una data epoca. Che vi ispira la donna di quest’anno di grazia 1912, modellata come una statua, snella come una colonnina classica, sottile come un palmizio, audace come una provocazione, impacciata senz’affettazione, contradditoria, ambigua, bizzarra, complessa, seducente, preoccupante? Infinite cose certo, complesse come lei, come lei bizzarre e contradditorie, piacevoli e severe, audaci e timide, nuove e sempre antiche. Infinite cose che ella stessa vi ha suggerito non cogli occhi, non col sorriso, ma con quella particolare seduzione di bellezza che le ha suggerito l'artifizio.
Il quale artifizio non tutti gli uomini sanno vedere, nemmeno fra i più intelligenti, quantunque tutti lo subiscano.
Un dettaglio trascurabile.
Ne ho avuto una prova evidente e dimostrativa ancora poco tempo addietro. Una rivista femminile aveva lanciato un’inchiesta intorno alla jupe-culotte e tra le tante risposte riferite, una di Roberto Bracco suonava semplicemente così:
— Ho sempre considerato il vestito femminile un dettaglio trascurabile. —
Un’affermazione enorme, venuta da un artista, da un uomo, cioè, che pur non facendo professione estetica deve costantemente vivere ed essere vissuto sotto l'imperio della bellezza anche tradotta in fascino muliebre. Un’affermazione che classifica Roberto Bracco fra quella categoria di uomini che il vestito femminile subiscono e sentono senza vederlo, che non sanno distinguere in una ricevuta impressione di bellezza la parte dovuta alla natura e quella che l'artifizio può rivendicare — che il quadro e la cornice considerano un tutto armonico inseparabile senza soffermarsi a ricercare quanto prestigio aggiunga questa ultima al reale valore di quello.
Categoria numerosissima, che salvo poche eccezioni si potrebbe forse estendere a quasi tutti gli uomini, pochissimi essendo coloro che posseggono le speciali facoltà d’analisi e di osservazione necessarie per dettagliare una toeletta femminile, per degnamente apprezzarla, per comprendere tutta la parte di merito che le spetta nel rilievo d’una bellezza muliebre.
Eppure, non è per queste poche eccezioni che le donne vestono, sibbene per gli uomini tutti dell’altra innumere categoria, per quelli che non sanno distinguere, che ci damano bellezza anche il risultato sapiente d’un’arte di eleganza, che nella snellezza d’una linea non sanno vedere il merito del busto o la ricerca laboriosa d’una foggia speciale e non sanno quanto possa influire sull’incarnato luminoso d’un viso — maquillage a parte — il colore d’un abito e quanta ombra misteriosa, suggestiva, inquietante possa disegnare intorno a due grandi occhi la tesa ampia d’un cappellone piumato.
Per costoro, per costoro soltanto vestono le donne, perchè rispetto a costoro soltanto esse sanno di raggiungere, attraverso il vestito e Parte della toeletta, quell’effetto di bellezza che è lo scopo della cercata eleganza.
Per tutti gli altri, per i discernitori, per gli osservatori di eccezione, una donna bella rimane bella anche inquadrata in una modesta cornice e una donna elegante, se non è bella, rimane semplicemente una donna elegante, sempre. Troppo poco per soddisfare l’amor proprio femminile — troppo poco per compensare lo studio paziente del sapientissimo artifizio.
Al più, si desidera che questa sapienza di artifizio venga rilevata e apprezzata dalle donne, non dagli uomini. Alle donne chiede la donna l’ammirazione per la propria toeletta; dalle donne ella rivendica il riconoscimento — non mai apertamente concesso — del suo saper vestire; per le donne sono messi in rilievo certi dettagli che esse soltanto sono in grado di apprezzare silenziosamente e di segretamente invidiare.
Nulla di tutto questo vien chiesto all'uomo. Egli deve subire, come un incantesimo, l'effetto della sapiente arte femminile senza indagarne le cause o meglio, tutto il prestigio dell’incantesimo deve far risalire a una bellezza che forse non c’è ma che egli vede — che se non esisteva è stata certo creata poiché egli ne subisce il prestigio.
⁂
Così avviene. Ed è perchè avviene così che le donne hanno fatto del vestire l’occupazione massima e la più importante preoccupazione della loro vita — tutte le donne, le ricche e le povere; le belle, le non belle e le brutte; le intelligenti e le sciocche; le amate e le neglette; le corteggiate e le trascurate; le oneste e le frivole; le felici e le disgraziate.
E’ perchè avviene così che le donne di tutto il mondo, dai quindici a sessant’anni, mettono in cima alle loro aspirazioni, in capo ai loro desideri, sopra tutti i loro sogni, innanzi a tutti i loro sforzi, questo supremo: di poter vestir bene. Espressione vaga che secondo l’audacia del desiderio e la portata dello sforzo va dal vestitino tailleur fatto da un buon sarto ai gioielli nuovo stile — dagli scarpini americani o viennesi o francesi alla combinaison di seta e valenciennes — dal busto dritto che sopprime i fianchi, il ventre, i lombi quando la moda impone per la donna la figura efebica, alla cintura elastica breve vertebrata in plumetis quando, come ora incomincia, si permette alla donna di riprendere la sua anatomia normale, ventre compreso — dal cappello mousquetaire con venti centimetri di tesa e cinquecento franchi di piume alla cuffietta di velluto con nastro d’argento che rappresenta il valore di poche lire — dalla camicetta di falsa Irlanda che lasci trasparire il roseo della pelle e quello più intenso del nastro infilato nel tramezzo della camicia alla pelliccia morbida che faccia apparire più caldo il pallore del viso e più vellutata la pelle...
Così. Ma il sogno è in tutte e in tutte è la tensione del desiderio...
Tanto acuta, tanto possente, che quando v è contrasto fra la realizzazione di questo desiderio e le condizioni economiche della piccola creatura che vi anela, essa non esita, la piccola creatura, a superare il contrasto a prezzo di qualsiasi sacrifizio subito e imposto.
Le piccole mani demolitrici.
Questo dettaglio trascurabile è dunque la bellezza stessa, l'artificiale bellezza femminile che sostituisce la bellezza vera e la vince col fascino della sua audacia; è dunque, questo dettaglio trascurabile l’espressione più diretta della psiche femminile.
Ma esso è inoltre qualche cosa di più: l'idolo pel quale milioni di donne si perdono, il piccolo dio mostruoso e implacabile al quale milioni di donne sacrificano sentimento, cuore, dignità, onestà, il pudore proprio, l'onore altrui, le fatiche oneste, i disonesti profitti: il piccolo dio feroce che sa ogni sorta di lagrime e gli egoismi implacabili e le aridità disperanti e le incoscienze delittuose.
Ai piedi di questo idolo si svolge la lotta per la conquista di quella possente arma di dominio che è il lusso e la lotta diventa spesso dramma, diventa follia, diventa tragedia.
Tragedia e colpa.
Ma colpa che non è senza giustificazione. Perchè, in fondo, se le donne adorano le cose belle, le cose fragili, le cose squisite e preziose e costose che tanta parte sono della leggiadria, che possono da sole riuscire a creare una bellezza artificiale sostituente la bellezza autentica assente o sfiorita o perduta; se per ottenerle, queste magiche cose, esse passano coi loro piccoli piedi sui corpi e sulle anime, sui cuori e sui cervelli, sulle lagrime e sugli scrupoli, è unicamente perchè hanno appreso dall'uomo il valore incommensurabile, assoluto, unico della loro bellezza, perchè dall'uomo hanno saputo che essere belle è il loro solo dovere, la loro massima gloria, la scusa di tutte le loro debolezze, la condizione assoluta della loro felicità.
E fin che l'uomo considererà la donna alla stregua di codesto criterio unico, fin che egli dimostrerà di apprezzare in lei sovra ogni altra cosa la bellezza, la donna avrà perfettamente ragione di adorare il vestito, di adorare l'eleganza, di adorare il lusso e di tendere a conquistarlo attraverso tutti gli sforzi.
Fin che l'uomo vorrà che così sia — fin che egli non ci faccia l’onore di saper vedere dietro il nostro viso la nostra anima — fin che non ci renda la giustizia di saperci considerare qualcosa di più e di diverso della graziosa bambola creata per deliziare i suoi occhi. Quel giorno — se verrà — quando non la più bella ma la migliore, la più profonda, la più elevata sarà la più amata — le donne tutte — io mi sento di garantirlo — rinunzieranno all'artifizio, alla vanità, al lusso.
E con gratitudine.