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C A N T O     V.

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1Io era già da quelle ombre partito,
     E seguitava l’orme del mio Duca,
     Quando dirieto a me, drizzando il dito,
4Una gridò: Ve’, che non par che luca1
     Lo raggio da sinistra a quel di sotto,
     E come vivo par che si conduca.
7Li occhi rivolsi al suon di questo motto,2
     E viddili guardar per meravillia
     Pur me, pur me, e lume ch’era rotto.3
10Perchè l’animo tuo tanto s’impillia,
     Disse il Maestro, che l’andar allenti?
     Che ti fa ciò che quivi si pispillia?
13Vien dietro a me, e lassa dir le genti:
     Sta come torre ferma, che non crolla
     Giammai la cima per soffiar de’ venti:
16Chè sempre l’omo, in cui pensier rampolla
     Sovra pensier, da sè dilunga il segno,
     Perchè la foga l’un dell’altro insolla.
19Che poteva io dir, se non: Io vegno?4
     Dissilo, alquanto del color cosperso,5
     Che fa l’om di perdon tal volta degno.

  1. v. 4. Ve’; vedi, è un accorciamento di vei da veere o veire. E.
  2. v. 7. C. A. drizzai
  3. v. 9. C. A. e il lume
  4. v. 19. C. A. io più dir,
  5. v. 20. C. A. di dolor