Commedia (Buti)/Paradiso/Canto XXIX
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(Commento di Francesco Da Buti) (XIV secolo)
Canto ventinovesimo
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C A N T O XXIX.
1Quando ambedu’ li filli di Latona,1
Coverti del Montone e della Libra,
Fanno dell’ orizonte insieme zona,
4Quant’è dal punto, che cenit illibra,2
Infin che l’uno e l’altro da quel cinto,
Cambiando l’emisperio, si dilibra,
7Tanto, col volto di riso dipinto
Si tacque Beatrice, ragguardando
Fiso nel punto che m’ avea vinto,
10Poi cominciò: Io dico, e non dimando3
Quel che tu vuoli udir, perch’io l’ ò visto
Ove s’ appunta ogni ubi et ogni quando.
13Non per aver a sè di bene acquisto,
Ch’ esser non può; ma perchè suo splendore
Potesse rispondendo dir: Sussisto,
16In sua eternità di tempo fore,
Fuor d’ogni altro comprender, come i piacque,
S’aperse in nuovi Amor l’eterno Amore.
19Nè prima quasi torpente si iacque:4
Chè nè prima, nè possa procedette
Lo discorrer d’ Iddio sopra queste acque.
22Forma, e materia coniunte e purette
Uscir ad esser che non a via fallo,5
Come d’ arco tricorde tre saette:6
25E come in vetro, in ambra et in cristallo
Raggio risplende sì, che dal venire
All’esser tutto non è intervallo;
28Così ’l triforme aspetto dal suo Sire7
Nell’esser suo raggiò insieme tutto
Senza distinzion nello esordire.8
31Concreato fu ordine e costrutto
A le sustanzie, e quelle furon cima
Del mondo, in che puro atto fu produtto.9
34Pura potenzia tenne la parte ima;
Del mezzo strinse potenzia con atto
Tal vime, che giammai non si disvima.10
37Ieronimo ne scrisse lungo tratto11
Dei seculi de li Agnoli creati,
Anzi che l’ altro mondo fusse fatto.
40Ma questo vero è scritto in molti lati
Da li Scrittor de lo Spirito Santo,
E tu te n’ avvedrai, se bene agguati;12
43Et anco la ragione il vede alquanto,13
Che non concederebbe che i motori
Senza sua perfezion fosser cotanto.
46Or sai tu dove, e quando questi Amori
Furon creati, e come; sicchè spenti14
Nel tuo disio già son li tre ardori.
49Non iungeriesi, numerando, al venti15 16
Sì tosto, come de li Agnoli parte17
Mutò ’l subietto dei vostri elementi.18
52L’ altra rimase, e cominciò questa arte,
Che tu decerni, con tanto diletto,19
Che mai dal circuir non si diparte.
55Principio del cader fu ’l maladetto
Superbir di colui, che tu vedesti
Da tutti i pesi del mondo costretto.
58Quelli, che vedi qui, furon modesti
A ricognoscer sè da la bontà te,
Che li avea fatti a tanto intender presti;
61Per che le viste lor fur esaltate
Con grazia illuminante, e col lor merto,20
Sì ch’ànno ferma e piena voluntate.21
64E non vollio che dubbi; ma sia certo
Che ’l ricever la grazia è meritorio,
Segondo che l’ affetto li è aperto.22
67Omai dintorno a questo consistorio23
Puoi contemplar assai, se le parole
Mie son ricolte, senz’altro aiutorio.
70Ma perchè ’n terra, per le vostre scuole,
Si leggie che l’ angelica natura
È tal, che ’ntende, e si ricorda, e vuole;
73Ancor dirò, perche tu veggi pura
La verità, che laggiù si confonde,
Equivocando in sì fatta lettura.
76Queste sustanzie, poi che fur ioconde
De la faccia d’ Iddio, non volser viso
Da essa, da cui nulla si nasconde.
79Però non anno vedere interciso
Da nuovo obietto, e però non bisogna
Rimemorar per concetto diviso.
82Sicchè laggiù non dormendo si sogna,
Credendo e non credendo dicer vero;
Ma nell’ uno è più colpa e più vergogna.24
85Voi non andate giù per un sentero,
Filosofando: tanto vi trasporta
L’amor dell’apparenza e ’l suo pensero.25
88Et ancor questo quassù si comporta
Con men disdegno, che quando è posposta
La divina Scrittura, e quando è torta.
91Non vi si pensa quanto sangue gosta26
Seminarla nel mondo, e quanto piace
Chi umilmente con essa s’accosta.
94Per apparer, ciascun s’ingegna e face
Sue invenzion, e quelle son trascorse
Dai predicanti, e ’l Vangelio si tace.
97L’un dice che la Luna si ritorse27
Ne la passion di Cristo, e s’interpuose,
Per che ’l lume del Sol giù non si porse.
100Et altri, che la luce si nascose28
Da sè; e però a l’Ispani et a l’Indi,
Come ai Iudei, tale eclissi rispuose.
103Non à Firenze tanti Lapi e Bindi,29
Quante sì fatte favole per anno
In pergamo si gridan quinci e quindi:
106Sì che le pecorelle, che non sanno,
Tornan dal pasco pasciute di vento,
E non le scusa non veder lo danno.30
109Non disse Cristo al suo primo convento:
Andate, e predicate al mondo giancie;31
Ma diede lor verace fondamento.
112El qual tanto sonò nelle sue guancie,32
Sì ch’ a pugnar, per accender la Fede,
De l’Evangelio fero scudi e lancie.
115Ora si va con motti e con iscede
A predicare, e pur che ben si rida,
Gonfia ’l cappuccio, e più non si richiede.
118Ma tal uccel nel becchetto s’annida,
Che se ’l vulgo il vedesse, vederebbe33
La perdonanza, di ch’ ei si confida;
121Per cui tanta stultizia in terra crebbe,
Che senza prova d’alcun testimonio
Ad ogni promission si correrebbe.34
124Di questo ingrassa ’l porco santo Antonio,
Et altri assai che son peggio che porci,35
Pagando di moneta senza conio.
127Ma perchè sian digressi assai, ritorci36
Li occhi oramai verso la dritta strada37 38
Sì, che la via e ’l tempo si raccorci.
130Questa Natura sì oltre s ingrada
In numero, che mai non fu loquela,
Nè concetto mortal che tanto vada.
133E se tu guardi quel che si rivela
Per Daniel, vedrai che ’n suo’ milliaia39
Determinata numero si cela.
136La prima luce, che tutta la raia,40
Per tanti modi in essa si ricepe,
Quanti son li splendori, a che s’appaia.
139Unde: però che all’atto, che concepe,
Segue l’ affetto, d’ amar la dolcezza41
Diversamente in essa ferve e tepe.
142Vedi l’eccesso omai e la larghezza
De l’ eterno valor, possa che tanti
Speculi fatti s’à, in che si spezza,
145Uno manendo in sè, come d’ avanti.42 43
- ↑ v. 1. C. A. ambodue li figli
- ↑ v. 4. C. A. zenit inlibra,
- ↑ v. 10. C. A. dico, non
- ↑ v. 19. C. A. quasi prima .... giacque:
- ↑ v. 23. C. A. avien ad esser
- ↑ v. 24. C. A. tricordo
- ↑ v. 28. C. A. del suo
- ↑ v. 30. C. A.distinzione in
- ↑ v. 33. C. M. Nel modo
- ↑ v. 36. C. A. divima.
- ↑ v. 37. C. A. Geronimo vi
- ↑ v. 42. C. A. se ben ci guati;
- ↑ v. 43. C. A. Ed anche la ragion lo
- ↑ v. 47. C. A. Furon eletti,
- ↑ v. 49. C. M. giungeriasi - C. A. Nè giungneriesi
- ↑ v. 49. Iungeriesi; si iungerie, ridotte alla cadenza in e le voci pur singulari del modo congiuntivo E.
- ↑ v. 50. C. M. dalli Angeli
- ↑ v. 51. C. A. il suggetto de’
- ↑ v. 53. C. M. C. A. discerni,
- ↑ v. 62. C. M. C. A. con lor
- ↑ v. 63. C. A. piena e ferma
- ↑ v. 66. C. M. C. A. l’effetto gli è
- ↑ v. 67. C. M. concistoro
- ↑ v. 84. C. A. Ma l’ultimo è più colpa che
- ↑ v. 87. C. A. apparenzia e il suo pensiero.
- ↑ v. 91. C. A. costa
- ↑ v. 97. C. A. Un dice
- ↑ v. 100. C. A. E mentre che la luna si
- ↑ v. 103. C. A. o Bindi,
- ↑ v. 108. C. A. lor danno,
- ↑ v. 110. C. M. C. A. ciance;
- ↑ v. 112. C. A. Cotal molto sonò
- ↑ v. 119. C. A. il vedesse, non torrebbe
- ↑ v. 123. C. A. promession si converrebbe.
- ↑ v. 125. C. A. che sono ancor più porci,
- ↑ v. 127. C. M. C. A. siam
- ↑ v. 128. C. M. ditta strada
- ↑ v. 128. C. A. che la vista col tempo s’accorci.
- ↑ v. 134 C. A. che in su migliaia
- ↑ v. 136.C. A.recepe,
- ↑ v. 140. C. A. l’effetto,
- ↑ v. 145. Manendo; restando, usato alla guisa latina, come eziandio presso Frate Iacopone «Poria fare tanto io, Che a lui fosse in piacere Che con voi qui manere Potessi con dimora?» E.
- ↑ v. 145. C. A. davanti.
C O M M E N T O
Quando ambedu’ ec. Questo è lo canto xxix della terza cantica de la comedia di Dante, nel quale lo nostro autore tratta della creazione delli Angeli, e di tutta la creatura; e, ritornando pure a parlare delli Angeli, dichiara di loro alquante belle conclusioni, riprendendo a l’ultimo li predicatori che esceno de la materia de la santa Scrittura per mostrarsi, e poi ritorna anco a parlare delli Angeli. E dividesi questo canto principalmente in due parti: imperò che prima finge che Beatrice, ragguardando in Dio, vidde li dubbi che Dante avea ne la mente, e quelli l’incominciò a dichiarare; nella seconda finge come Beatrice riprese, facendo disgressione, li Teologi che erano allora nel mondo, dello uscire fuora de la santa Scrittura quando leggono 1, o quando predicano, e poi ritorna anco a parlare della natura angelica, et incominciasi quine la seconda parte che sarà la seconda lezione: Ma perchè ’n terra ec. La prima, che sarà la prima lezione, si divide in parti cinque: imperò che prima tocca alcuna cosa d’Astrologia, per dichiarare lo spazio che Beatrice tenne li suoi occhi fermi a la Divinità; nella seconda finge com’ella, veduto li dubbi che Dante aveva, ragguardando in Dio, lieli cominciò a dichiarare, et incominciasi quine: Non per aver ec.; nella terza parte finge come Beatrice, seguendo la sua dichiaragione, incominciò in particulare a narrare a Dante la creazione dell’universo, et incominciasi quine: Forma e materia ec.; nella quarta parte finge come Beatrice discese a narrare la creazione delli Angnoli, et incominciasi quine: Ieronimo ne scrisse ec.; nella quinta parte finge come Beatrice narrolli lo cadere del Lucifero coi suoi seguaci, et incominciasi quine: Principio del cader ec. Divisa la lezione, ora è da vedere 2 la lettera coll’esposizione testuale et allegoriche e morali.
C. XXIX — v. 1-12. In questi quattro ternari lo nostro autore finge che Beatrice, ragguardando nel punto della Deità 3, vidde li suoi dubbi; e come veduti incominciò a rispondere ad essi, manifestando quanto fu lo suo ragguardamento con uno esemplo d’Astrologia, dicendo cosi: Quando ambedu’ li filli di Latona; cioè quando lo Sole e la Luna, li quali secondo i Poeti si chiamano Febo e Diana, figliuoli di Latona e di Iove, come fu detto nel xx canto del Purgatorio, Coverti del Montone e della Libra; cioè quando l’uno è in Ariete, e l’altro in Libra, che sono segni oppositi nel zodiaco, Fanno dell’orizonte; cioè del cerchio che divide l’uno emisperio dall’altro; come già è stato detto più volte, emisperio è la metà della spera tonda del cielo, e l’uno è emisperio nostro nel quale e sotto ’l quale noi siamo, et è terminato dall’orizonte che è cerchio terminato della nostra vista, sicchè da indi in su veggiamo e da indi in giù non possiamo vedere, e l’altro emisperio è da l’orizonte in giù lo quale noi non veggiamo se non la notte quando gira di sopra noi, e lo nostro, che è stato detto, gira di sotto, insieme zona; cioè cingulo che cinga l’uno e l’altro, et allora è quando lo Sole è in Ariete, e la Luna sia in Libra, o vero che sia lo contrario; e quando l’uno surge a noi e l’altro tramonta, allora fanno cingulo dell’orizonte: imperò che l’uno e l’altro è in su l’orizonte; l’uno per andare giù, e l’altro per venire su, Quant’è; cioè quanto spazio di tempo è, dal punto; cioè che è nell’orizonte, dalla parte dell’oriente e da la parte dell’occidente, che; cioè lo qual punto, l’altezza del nostro emisperio, cioè lo punto quine dove è lo nostro emisperio più alto, che viene in mezzo tra lo punto dell’orizonte che è nell’oriente e tra quello che è nell’occidente; e questo così fatto punto più alto, che è in mezzo, si chiama cenit; cioè del cielo maggiore altezza che sia sopra noi nel nostro emisperio, e così è anco per opposito nell’altro emisperio l’altro cenit, e questi due punti medesimi sono le sue estremitadi equali e le sue bilance, illibra; cioè fa pari a l’altro punto, come fa l’ago della bilancia che sta in mezzo della pertica delle bilancie, e dimostra stando fermo in mezzo quando le bilancie sono pari, e così questo cenit, distante equalmente da questi due punti oppositi dimostra loro essere pari, e questo è illibrare; cioè fare pari come fa lisame le bilance; e così lo punto s’intende lo mezzo dell’orizonte, Infin che l’uno e l’altro; cioè infine che lo Sole e la Luua, da quel cinto; cioè da quell’orizonte che elli chiama cinto: imperò che cinge tutto intorno, quanto la nostra vista può vedere, si dilibra; cioè si dilibera, escendo fuora di quello, Cambiando l’emisperio: imperò che o vero lo Sole viene suso al nostro emisperio e la Luna va giuso a l’altro, o è l’opposito; e qualunqua si sia, in poco tempo passano questo punto et escono suso o giuso. Tanto, col volto di riso dipinto; cioè quanto penano a passare li delli pianeti lo detto punto ad uscire fuora ne l’emisperio, che è breve spazio, stette cheta Beatrice che non parlò, col volto dipinto di riso; cioè allegro: allora è lo volto allegro, quando ride, Si tacque Beatrice; cioè si stette cheta, ragguardando Fiso nel punto; cioè fisamente nel punto della Divinità, che; cioè lo quale puuto, m’avea vinto; cioè avea vinto me Daute: imperò che Dante non avea potuto patire a vedere quel punto: imperò che ’l suo fulgore l’avea vinto. Poi cominciò; cioè Beatrice a parlare, dicendo così: Io dico; cioè io Beatrice dico a te Dante, e non dimando Quel che tu; cioè Dante, vuoli 4 udir; cioè da me, perch’io; cioè imperò che io Beatrice, l’ò visto; cioè l’òe veduto, cioè quello che tu vuoi udire, Ove s’appunta; cioè si vede come segnato nel punto, ogni ubi 5; cioè ogni luogo, et ogni quando; cioè ogni tempo: imperò che in Dio riluce ogni luogo et ogni tempo, siccome in prima cagione unde procedono li luoghi e li tempi, bench’elli sia senza luogo e tempo: però che Iddio è eterno, e così in lui non è tempo che contraria a l’eternità, et è immenso, e così in lui non è luogo che contraria a la immensità. E debbiamo sapere, come appare per lo testo, che li dubbi di Dante erano tre; cioè prima se tempo precedè la creazione: lo secondo dubbio dove fu fatta la creazione; lo terzo dubbio come fu fatta, cioè se fu fatta in istante, o successivamente. Seguita.
C. XXIX — v. 13-21. In questi tre ternari finge lo nostro autore come Beatrice incominciò a dichiarare li dubbi, che àe detto di sopra, che aveva veduto in Dio che Dante avea nella sua mente; cioè in prima che mosse Iddio a creare l’universo, e come tempo non fu ne la creazione de l’universo che ene lo primo dubbio 6, e senza luogo che è lo secondo dubbio, dicendo: Non per aver a sè; cioè a la Divinità, di bene acquisto; cioè accrescimento di bene, Ch’esser non può; cioè imperò che non può essere che Iddio cresca; imperò che sarebbe mancamento della sua perfezione: sempre Iddio fu quello che è e sarà, cioè perfetissimo, sicchè non può nè crescere nè mancare, ma perchè suo splendore; cioè ma perchè la sua bontà si mostrasse nelle creature, Potesse risplendendo dir: Sussisto; cioè potesse dire: Io sono ne la natura creata, et in essa appaio come effetto produtto da la prima cagione, e sono forma sustanziale d’ogni bene che si truova, e che si vede ne la natura creata: imperò che ve’ ogni cosa buona, siccome dice la santa Scrittura: Viditque Deus cuncta quae fecerat, et erant valde bona. E che Iddio si movesse, per sua bontà a componere questa creatura, lo dice Boezio nel iii della Filosofica Consolazione, dicendo: Quem non externœ pepulerunt fingere causae Materiae fluitantis opus, verum insita summi Forma boni livore carens. E qui è da notare che, come detto è, Iddio mosso dalla sua bontà a creare la creatura, per comunicare quella co le cose create per uno modo di simulazione possibile ad essere al suo infinito essere; e però volendo che l’universo fusse perfetto, si fe a perfezione distinzione ne le creature: imperò che, se tutte fusseno in uno grado, non si potrebbe in quello solo dimostrare sua perfezione, e però tutte le creature sono distinte in tre gradi; cioè lo primo, creature intellettuali simplicimente, e queste sono sopra li cieli, cioè li Angeli; lo secondo, corporali simplicimente, e queste sono circa lo centro del mondo, cioè nelle regioni basse, e queste sono li elementi; lo terzo, corporali et intellettuali coniunte, e queste sono in quel mezzo, cioè li omini e li cieli. E sì come è detto di sopra, delli Angeli in ciascuna gerarcia è maggiore, mezzano e minore, e così questi tre gradi sono tre ordini, e così si può dare maggiore, mezzano e minore. Delle intellettuali creature è stato detto che sono tre gerarcie; maggiore, mezzana e minore, et in ciascheduna gerarcia, maggiore ordine, mezzano e minore. Le corporali similmente sono distinte per tre gradi: imperò che nel supremo grado sono li animali sensitivi simplicimente, cioè li bruti; nel mezzano sono li animali vegetativi simplicimente, cioè li arbori e l’erbe; ne l’infimo grado sono li elementi che simplicimente ànno essere. Le intellettuali e corporali coniunte ànno due gradi: imperò che alcune sono coniunte con corpi incorruttibili, e queste sono li motori che muoveno li cieli; alcune sono coniunte con corpi corruttibili, e queste sono l’anime umane che, come forma, sono coniunte coi corpi, li quali per le diverse qualità, di che sono composti, sono corrutibili. E li cieli anco si distingueno: imperò che alcuno cielo è che tutto splende, et àe in ogni sua parte simile virtù, e questo è la nona spera; alcuno è che è organato, che àe le sue parti dissimili in natura et essere, e però non tanto splende, et àe nelle sue parti diverse virtù, e questo è l’ottavo cielo che àe diverse stelle; alcuno n’è, che àe solo uno organo, cioè una stella, e però in esso è sua virtù, e questi sono li cieli delle pianete. Similmente è diversità ne’ suoi movimenti, cioè dei cieli: imperò che uno n’è, che àe solo uno movimento sopra li suoi poli, siccome la nona spera; alcuno n’è, che n’à tre, cioè l’uno sopra li poli de la nona spera, l’altro sopra li propi poli, l’altro si è per accesso e recesso di 10 gradi, e questo è l’ottavo cielo; e tutti li predetti movimenti sono equidistanti dal centro del mondo. Li cieli dei pianeti, che tutti ànno movimento, n’ànno ciascuno più: imperò che alcuno n’ànno de la nona spera, e questo si chiama diurno; alcuno de l’ottava spera, e questo è lo movimento de la loro auge 7; et alcuno n’ànno da’ suoi deferenti; et alcuno n’ànno per li suoi epicicli, dei quali alcuno è equidistante dal centro del mondo, et alcuno varia: imperò che alcuna volta li è più vicino, et alcuna volta più rimosso; per le quali varietadi è la varietà de la generazione e corruzione ne li elementi; e tutti questi gradi sono vari per sua natura. E per questi movimenti è necessario di venire ad uno primo immobile che cagiona essi movimenti, e questo è Iddio; ma ne li omini non si può dare diversità di gradi per li suoi naturali: imperò che tutti sono simili e 8 riceveno dissimile forma, suo essere; ma puovisi bene dare gradi secondo li graditi che procedeno dalle loro complessioni, e secondo la loro voluntà che procede dallo libero arbitrio: imperò che alcuni sono atti a speculazione e scienzia, siccome quelli che ànno carne molle; alcuni sono abituati a delettazioni sensitive, siccome quelli che ànno dura carne, e questi sono li carnali e lussuriosi, solamente seguitanti lo senso, e questi passano in bestialità; alcuni sono che participano della speculativa e sensitiva, sicchè sono in mezzo grado tra’ detti due estremi, sicchè sanno ragionevilmente tali abiti reducere in atto, e questi sono diritti uomini dati a policia. E come sono queste tre diflerenzie, secondo le complessioni corporali; così sono, secondo la voluntà tre gradi che procedono dal libero arbitrio: imperò che alcuni sono volenti pure speculazione e scienzia; alcuni intendenti pure a le cose sensitive; alcuni tegnano la via del mezzo. Or quanto l’omo à più resislenzia contra la viziosa complessione e voluntà 9, tanto più è nobile e più è da lodare; e per opposito quanto meno n’à, meno è nobile, anco è più basso e meno da lodare, anco da biasimare più; e così in questa diversità delle cose create appare la infinita bontà d’Iddio creatore. Seguita poi: l’eterno Amore; cioè Iddio: benchè l’amore si dà a la persona dello Spirito Santo; niente di meno tre persone sono uno Iddio, S’aperse; cioè si manifestò, in nuovi Amor; cioè in spiriti angelici creati da lui di nuovo, li quali amorno lo suo creatore, se non quelli che caddono, et in tutte le altre cose create le quali tutte amano lo suo creatore, pigliando l’amore largamente per la inclinazione, che ciascuna cosa creata àe naturalmente in Dio: imperò che, come si contiene nel Genesi, disse Iddio: Fiat lux, et facta est lux; e sotto questo vocabolo luce s’intese la natura angelica; e poi seguita dell’altre cose 10, quando fu questo: In sua eternità; cioè nel suo essere eterno, al quale ogni cosa è presente 11, fore di tempo: imperò che in Dio non può essere tempo: imperò che tempo contradice a l’eternità, Fuor d’ogni altro comprender; cioè fuora d’ogni altra apprensione, che la sua: imperò che Iddio è innanzi ad ogni cosa creata: imperò che elli è eterno: ecco lo quando, come i piacque; cioè non necessitato; ma di sua libera voluntà, Nè prima; cioè innanzi a la creazione, si iacque; cioè l’eterno amore, del quale è detto, quasi torpente, cioè non si stette quasi torpente, cioè quasi pigro, che questa creazione non li fusse presente: imperò che bene che la santa Scrittura dica: In principio creavit Deus caelum et terram. Terra autem erat inanis et vacua, et tenebrae erant super faciem abyssi, et Spiritus Dei ferebatur super aquas, siccome appare nel principio del Genesi, questo principio s’intende quando a Dio piacque di dare principio a le cose create: imperò che a Dio non è principio nè fine, anco elli è principio e fine di tutte le cose create, sicchè non si può dare nè priorità, nè posterità: imperò che in Dio non è tempo nè luogo, e l’ordine presuppone tempo e luogo; sicchè, considerato che Iddio è eterno, et a la eternità ogni cosa è presente, non si può dire che Iddio innanzi a la creazione stesse senza fare, nè poi: imperò che la creazione della natura creata sempre fu presente a Dio, e sempre sarà presente a Dio; sicchè ’l parlare della santa Scrittura è secondo l’uso umano, non secondo la verità della natura divina; e però quando dice: Spiritus Dei ferebatur super aquas; cioè che lo spirito d’Iddio era menato sopra l’acque, che si può intendere tutta la natura creata per l’acqua, non si debbe intendere se non per effetto; che Iddio, stando in sè fermo e stabile, induceva l’effetto ch’elli voleva sopra la creatura; e questo producere, benchè a noi e quanto a la natural considerazione sia in tempo, a lui. cioè a Dio, fu sempre presente; et ogni operazione divina, che a noi pare nuova, debbiamo pensare che a Dio presente è sempre, come dice santo Augustino: Nihil est novum in tempore apud eum qui condidit tempora, et sine tempore habet omnia simul qui in temporibus non simul fuit quam tempora non simul currunt; e però seguita: Chè; cioè imperò che, nè prima, nè possa procedette; cioè in Dio, benchè quanto al nostro intendere sì, perchè non siamo capaci de l’eternità; ma veramente in Dio nè fu innanzi nè poi; ma sempre è presente, Lo discorrer d’Iddio; cioè lo discorrere de li effetti produtti da la prima cagione che è Iddio, sopra queste acque; cioè sopra questa creatura dell’universo, li quali effetti discorrino di singulo in singulo per tutte le parti de la natura creata. E questo finge l’autore che dicesse Beatrice, perchè la santa Teologia così parla et intende d’Iddio; cioè che Iddio è eterno e che ogni cosa è a lui presente, benchè a noi siano in tempo successivamente, perchè de l’eternità lo nostro intelletto non è capace.
C. XXIX — v. 22-36. In questi cinque ternari lo nostro autore finge come Beatrice, dichiarato lo primo dubbio, cioè dove fu creata la natura angelica; e lo secondo, cioè quando fu creata, dichiara ora lo terzo dubbio, com’ella fu creata, cioè in istanti, e così tutta la natura creata, dicendo così: Forma; cioè forma pura senza materia, come sono li Angnoli e l’anime umane, quando sono seperate dal corpo; et è Forma quello che dà essere a la cosa, e materia; cioè pura senza 12 quella forma, che ebbe la materia coniunta co la natura angelica, o co l’anima umana, coniunte; cioè la natura angelica come motori dei cieli con essi cieli, e l’anime umane coi corpi, e li animali e le cose composte dei quattro elementi 13, e purette; cioè forma per sè, come li Agnoli che non sono motori dei cieli, e l’anime umane separate dai corpi, e materia per sè, come li elementi, li quali benchè in sè abbiano forma per la quale sono nel suo essere, niente di meno per rispetto delle cose elementate, sono materia pura, Uscir; cioè forma pura, materia pura, e forma coniunta con materia, queste tre cose che sono tutta la natura creata, Uscir ad esser; cioè per divina Voluntà, che le produsse di niente; e questo è propriamente creare, cioè di nulla fare alcuna cosa, che; cioè lo quale essere, non avia fallo: imperò che l’essere d’Iddio, dato prima a la natura creata, fu perfetto, Come d’arco tricorda tre saette; ecco che fa una similitudine, per mostrare che in uno istante Iddio creasse ogni cosa, dicendo che così in uno istante furno produtte le cose create da Dio 14 in esser perfetto, come si gitterebbeno da uno arco, che avesse tre corde, tre saette ad una ora quando si saettasse. E ben si conviene questa similitudine: imperò che l’arco figura la Divinità; le tre corde, le tre persone, Padre, Figliuolo, Spirito Santo; le tre saette, le tre spezie generali dette di sopra, cioè forma, materia e coniunto: imperò che in essa creazione fue 15 concreante la potenzia del Padre, la sapienzia del Figliuolo e la benivolenzia dello Spirito Santo. Et a mostrare come fussono produtte in atto con esser perfetto, adduce la similitudine dicendo: E come in vetro; che è corpo lucido, trasparente, fatto di cenere, in ambra; che è similmente corpo lucido, trasparente: lo vetro si fa per Alchimia 16; l’ambra nasce di gomma di certi arbori, e riluce come il vetro, et in cristallo; questo si genera sotto la nieve in su le pietre de’ monti, et alquanti diceno che si genera della ghiaccia indurata, et alquanti diceno che si genera della pietra clarificata per lo liquore e freddo della nieve, Raggio; cioè di corpo luminoso come è lo Sole, risplende: però che traluce in essi, sì; cioè per sì fatto modo, che dal venire All’esser tutto; cioè lo detto raggio nel vetro, o nell’ambra, o nel cristallo, non è intervallo; cioè non v’è spazio: imperò che, iunto nei detti corpi lo raggio, tutto v’è, e non prima una parte e poi l’altra, e così appare che Iddio in uno istante creò ogni cosa. Ecco che adatta la similitudine, dicendo: Così ’l triforme aspetto; cioè pura forma, pura materia e forma coniunta con materia, dal suo Sire; cioè dal suo Signore 17, Nell’esser suo raggiò insieme tutto; cioè venne tutto insieme ad essere, Senza distinzion nello esordire; cioè senza differenzia nello incominciare: imperò che ogni cosa venne ad essere co la sua perfezione. Concreato fu ordine; cioè insieme creato, cioè altresì tosto come furno create, fu dato loro l’ordine, e costrutto; cioè insieme ordinato, A le sustanzie; cioè intellettuali tanto, corporali tanto, intellettuali e corporali coniunte, e quelle; cioè sustanzie, furon cima Del mondo; cioè furno in sommo grado dell’essere, in che; cioè ne’ quali, puro atto; cioè sola azione, fu produtto 18; cioè fu nella produzione loro dato la forma. Pura potenzia; cioè quelle sustanzie, in che fu pura potenzia, e non atto, tenne la parte ima; cioè l’infimo grado dell’essere: imperò che sola materia è più vile grado che sia, e chiamasi potenzia: imperò che di quella si può fare varie cose, secondo che si muta la forma, e però si chiama potenzia, perchè può ricevere molte forme; e le forme si chiamano atto, perchè mutano, et aoperano mutando la materia in varia forma. Nel mezzo; cioè grado, strinse potenzia con atto; cioè coniunta, cioè forma con materia, Tal vime; cioè tale legame, che giammai; cioè lo quale legame mai, non si disvima; cioè non si disciolge: imperò che li cieli sempre staranno coniunti coi suoi motori, e l’anirne umane co li suoi corpi; e benchè a tempo si dissolvano, anco poi si rigiungeranno insieme e staranno coniunte in perpetuo: imperò che a l’iudicio universale Iddio farà consummare col fuoco ogni cosa e poi rimarranno li cieli purificati colle sue intelligenzie, che li muoveno senza più muoversi, e l’anime umane torneranno ai corpi, e li buoni andranno in vita eterna, e li rei nel fuoco eterno, e nel mondo staranno li parvoli morti senza ’l battismo, secondo che dice il Psalmista: Initio tu, Domine, terram fundasti: et opera manuum tuarum sunt caeli. Ipsi peribunt, tu autem permanes: et omnes sicut vestimentum veterascent. Et sicut opertorium mutabis eos et mutabuntur, tu autem idem ipse es, et anni tui non deficient. Filii servorum tuorum habitabunt: et semen eorum in saeculum dirigetur; sicchè l’autore finge che Beatrice li dichiarasse li gradi delle tre spezie generali, produtte nella prima creazione, secondo la nobilità dell’essere, dicendo che la forma è in sommo grado, la materia in infimo, la materia e la forma coniunta in mezzano grado di nobilità, come è stato mostrato di sopra. Seguita.
C. XXIX — v. 37-54. In questi sei ternari lo nostro autore finge come Beatrice, seguendo lo suo ragionamento per dichiarare li tre dubbi di Dante, conchiuse la dichiarazione e discese a la natura angelica, della quale aveva detto di sopra, dicendo: Ieronimo; cioè santo Ieronimo dottore della santa Chiesa, ne scrisse lungo tratto; cioè lunga estensione, Dei seculi: seculo è proprio tempo di cento anni, sicchè dice che santo Ieronimo scrisse di grande tempo innanti a la creazione del mondo essere creati li Agnoli; e però dice: de li Agnoli creati; cioè li quali ebbono li Agnoli creati inanti che si creasse lo mondo; e però dice: Anzi che l’altro mondo fusse fatto; cioè, inanzi che disse, creasse poi l’altre cose del mondo. Ma questo vero; cioè che Iddio creasse ogni cosa insieme, è scritto in molti lati; cioè in molti libri et in molti luoghi della santa Scrittura, Da li Scrittor de, lo Spirito Santo; cioè dai santi Dottori che ànno scritto, secondo che lo Spirito Santo à dittato. E tu, cioè Dante, te n’avvedrai; che questo vero è scritto da’ Dottori, se bene agguati; cioè se bene poni mente a la santa Scrittura, che lo scrive, Et anco la ragione; cioè vera, il vede; cioè questo, che detto è, alquanto; cioè per alcuno modo, benchè non sia ragione demonstrativa, Che non concederebbe; cioè la quale non concedrebbe questo, cioè che i motori; cioè li Agnoli, che sono posti da Dio a muovere li cieli, Senza sua perfezion fosser cotanto; cioè tanti seculi, quanti scrisse Ieronimo; e la ragione si può formare in questo modo: Iddio produsse e creò la 19 natura ne la sua perfezione, et allora la cosa è perfetta, quando ella à la suo fine a che è fatta: l’angelica natura fu fatta a servire a Dio in muovere li cieli e governare e guardare li omini; e se li cieli non furno molti seculi, nè li omini, dunqua molti seculi sarebbe stata l’angelica natura invano, che sarebbe mancamento della sua perfezione. Et ora finge che Beatrice conchiudesse che dichiarati erano li dubbi, dicendo: Or sai tu; cioè Dante, dove: imperò che intra la eternità d’Iddio, e quando; cioè quando piacque a Dio fuora di tempo e d’ogni comprensione, questi Amori; cioè questi Agnoli, Furon creati; cioè di nulla fatti, e come; cioè et in che grado; imperò che in grado più nobile, sicchè; ecco che conchiude lo principale intendimento, cioè per la qual cosa seguita: spenti; cioè che siano spenti, già Nel tuo disio; cioè nel tuo desiderio, son li tre ardori; cioè le tre dubitazioni, che t’ardevano e facevano dubitare, dei quali è stato detto di sopra. Non iungeriesi numerando; cioè volendo alcuno numerare, dicendo: Uno, due e tre, al venti; cioè sicchè pervenisse al numero di venti, Sì tosto, come de li Agnoli parte; cioè quella, che fu ribella 20 a Dio, Mutò ’l subietto dei vostri elementi; cioè mutò e cambiò il subietto, cioè quello che sta di sotto de li elementi vostri, cioè di vuoi uomini che vivete nel mondo, e questa è la terra che sotto sta a tutti li elementi: imperò che prima era pura la terra, e poi fu infetta che Io Lucifero colla sua setta cadde e ruinò: imperò che riempiè la terra della sua malizia et infecela e guastolla, e parte ne rimase ne l’aire caliginoso e parte in su la terra, e parte andò infine al centro della terra, e quine è lo inferno: e però molti testi ànno Turbò, che si debbe esponere come detto è, et è più chiaro. L’altra; cioè parte delli Angnoli, rimase; cioè in cielo, e quella che cadde si tiene che fusse delle dieci parti l’una d’ogni ordine, e cominciò questa arte; cioè del circuire Iddio, Che; cioè la quale arte, Tu; cioè Dante, decerni; cioè vedi co lo intelletto, Con tanto diletto; che ànno in contemplare Iddio e pensare la sua infinita potenzia, sapienzia e bontà, Che mai dal circuir; cioè Iddio, non si diparte; cioè non si cessa: imperò che la beatitudine loro è contemplare Iddio, e però da questo non si parteno: imperò che sono confermati in grazia. E non debbiamo credere che lo circuire sia, se non co lo intelletto, che Iddio non è contenuto da luogo et è immenso, sicchè non si può circuire se non co lo intelletto, considerando la sua infinita bontà, e per questo amandolo e fruendolo; e così è l’Agnolo beato, e l’anima umana. Seguita.
C. XXIX — v. 55-69. In questi cinque ternari Io nostro autore finge come Beatrice, seguitando lo suo parlare, dichiarò a Dante la cagione della ruina delli Angnoli reprobi, e la confermazione delli Anguoli buoni, dicendo cosi: Principio del cader; cioè della caduta delli Angnoli reprobi ne fu principio la superbia del Lucifero; e però dice: fu ’l maladetto Superbir di colui; cioè del Lucifero, che disse: Disponam sedem meam ab Aquilone, et ero similis Altissimo-, Che tu; cioè lo quale Lucifero tu, Dante, vedesti Da tutti i pesi del mondo costretto: imperò ch’elli lo vidde nel centro della terra, al quale caddeno tutti li pesi, fitto nel sasso forato, siccome fu detto nel xxxiii canto de la prima cantica. Quelli; cioè Angnoli, che; cioè li quali Angnoli, vedi; cioè tu, Dante, qui; cioè in questo luogo, cioè in paradiso, furon modesti; cioè temperati et umili: imperò che modestia è specie de l’umilità, A riconoscer 21 sè; cioè creati, da la bontate; cioè divina, Che; cioè la quale, li avea fatti a tanto intender; cioè a così grande intelligenzia, come avea dato loro, presti; cioè solliciti et apparecchiati, Per che; cioè imperò che, le viste 22 lor; cioè dei detti Angnoli, fur esaltate; cioè furno innalzate da Dio. Con grazia illuminante; cioè colla grazia sua, che li illuminò, e col lor merto; imperò che accettorno la grazia che li illuminò, et in questo stette lo loro merito, et in questo sta lo merito de l’omo, ch’elli accetti la grazia che lo illumina e seguitala, et in questo sta lo merito unde viene più la grazia cooperante e confermante e consumante; e però adiunge; e col lor merto; cioè e col loro merito, cioè de’ detti Angnoli, che accettorno la grazia illuminante d’iIddio, e seguitornola, Sì ch’ànno; cioè per la qual cosa elli ànno, ferma e piena voluntate: imperò che sono confermati in grazia. E non vollio; cioè io Beatrice, che dubbi; cioè dubbiti tu, Dante, ma sia certo; cioè tu, Dante, Che ’l ricever la grazia; cioè illuminante, è meritorio; cioè acquista merito, Segondo che l’affetto; cioè la voluntà e lo desiderio, li è aperto; cioè al ricevere la grazia illuminante: e questo è stato uno corrollario: imperò che è stato una conclusione descendente delle premisse, poi che Beatrice ebbe dimostrato Io suo proposito. Omai; cioè oggimai, dintorno a questo consistono: consistorio è luogo, dove li cardinali stanno ad audienzia et a consiliare insieme col santo padre; e così qui lo pone per lo luogo, dove stanno insieme li Angeli intorno a Dio, Puoi contemplar assai; cioè tu, Dante, se le parole Mie; cioè se le parole di me Beatrice, son ricolte; cioè da te Dante, come io l’òne dette, senz’altro aiutorio; cioè che non ti fi’ bisogno aiuto alcuno: per te medesimo potrai assai contemplare e vedere. E qui finisce la prima lezione del cauto xxix, et incominciasi la seconda.
Ma perchè ’n terra ec. Questa è la seconda lezione del canto xxix, nella quale lo nostro autore finge come Beatrice, disgrediendo 23 da la materia, riprende li predicatori che esceno fuora della santa Scrittura quando predicano, e vanno per mostrarsi Filosofi et Astrologi per le cose impertinenti 24; e possa anco ritorna a la materia delli Angeli. E dividesi questa lezione in parti sei: imperò che prima finge che Beatrice riprenda coloro che danno a la natura angelica memoria, che propriamente è della umana spezie, et equivocando si può dire delli Angeli; nella seconda parte finge come Beatrice riprende coloro che storceno la santa Scrittura e fa invettiva contra loro, et incominciasi quine: Sicchè laggiù ec.; nella terza parte finge come Beatrice, descendendo a le cose particulari, quivi esemplificando dimostra questo errore essere comune, et incominciasi quine: Per apparer ec.; nella quarta parte finge come Beatrice, seguitando dimostra che esemplo diede Cristo a li Apostoli, ai predicatori, et incominciasi quine: Non disse Cristo ec.; nella quinta parte finge che Beatrice, seguendo lo suo parlare, dimostri la pena ch’ellino di questo peccato sosterranno, e come Beatrice ritornò al proposito, et incominciasi quine: Ma tal uccel ec.; nella sesta et ultima l’autore finge come Beatrice, tornata al proposito, dimostrò la grande moltitudine delli Angeli e la loro beatitudine, et incominciasi quine: Questa Natura ec. Divisa la lezione, ora è da vedere lo testo coll’esposizione letterale, allegorica e morale.
C. XXIX — v. 70-81. In questi quattro ternari lo nostro autore finge che Beatrice, continuando lo suo parlare narrando della natura delli Angeli, dichiara come si debbia intendere che li Angeli abbiano le potenzie che à l’anima umana, cioè memoria, intelletto e Voluntà, dicendo così: Ma perchè ’n terra; cioè giù nel mondo, per le vostre scuole; cioè per le scuole de la santa Teologia 25, Sì leggie; cioè da’ maestri della santa Teologia, che l’angelica natura E tal; cioè è sì fatta, che ’ntende, e si ricorda, e vuole; cioè àe intelligenzia, memoria e voluntà, Ancor dirò; cioè io Beatrice, perchè; cioè acciò che, tu; cioè Dante, veggi 26 pura La verità che; cioè la quale, laggiù; cioè nel mondo, si confonde; cioè si fa non intelligibile, Equivocando; cioè pigliando lo vocabulo sotto varie significazioni: quando lo vocabulo è uno e le significazioni siano varie, allora è equivocazione, in sì fatta lettura; cioè chente si fa per le vostre scuole. Queste sustanzie; cioè angeliche, poi che fur ioconde; cioè beate e liete, De la faccia d’Iddio; cioè della visione d’Iddio beatifica: che la faccia d’Iddio non è altro, che la sua visione, non volser viso; cioè non volseno e non cessorno la loro intelligenzia: imperò che lo viso delli Angeli è lo intendere delli Angeli, Da essa; cioè da essa faccia d’Iddio, cioè da la visione sua: imperò che se li Angeli non avessono sempre la visione beatifica, non sarebbono beati; e però sempre l’ànno, e questo è con lo intelletto: imperò che Iddio, in quanto Iddio, non si può vedere altramente, nè li Angeli possano altramente vedere che con lo intelletto, da cui; cioè dalla quale faccia, cioè d’Iddio: e la faccia d’Iddio è lo intendere d’Iddio, e dal suo intendere nulla s’appiatta. Iddio ogni cosa intende, e questo è lo suo vedere; intendere è comprendere l’essere vero della cosa e sapere, et Iddio ogni cosa sa; e però dice nulla si nasconde; cioè niuna cosa s’appiatta. Però non ànno; cioè li Angeli, vedere interciso; cioè intendere variato e tramezzato da alcuna cosa, come ànno li omini: imperò che nuovo obietto non muta lo loro intendere, come fa ne li omini: imperò che in Dio si vede ogni cosa, sicchè nulla vedeno di nuovo et intendeno, e però dice: Da nuovo obietto; cioè da cosa nuovamente a lo intelletto presentata, e però non bisogna Rimemorar; cioè raccordarsi, per concetto diviso; e qui tocca che cosa è memorare, che non è altro che reducere nella fantasia le spezie visibili, che ’l senso del viso, o vero dell’audito, concepe; e nelli Angeli non è senso di viso nè d’audito, e però non è in essi ricordare al modo che è nelli omini; e però, benchè si parli per li vocabuli nostri, altremente si debbe intendere delli Angeli e di noi. Et a vedere questo, debbiamo sapere che ne l’omo lo intendere è per le spezie che traggono lo intelletto umano; le quali spezie non sono di suo medesimo genere, e nelli Angeli è intelletto solo di spezie di suo genere, unde non intendono dividendo e componendo come l’omo, nè ancora per discorso ragionando, come li omini: imperò che lo intendere loro è simplice e puro et uno, quando lo nostro è composito, e steso e diviso; e niente di meno intelletto si chiama l’umano e l’angelico, benchè l’uno sia molto differente dall’altro. Ancora nelli Angeli non è intelletto agente e possibile 27, come è ne l’omo: imperò che ne l’omo è lo intelletto possibile, in quanto può passare da uno termino ad uno altro, et in quanto passa è agente in quel passare et in quello intendere; e nelli Angeli non è agente nè possibile; ma è uno intelletto fermo e costante; e però equivoce s’intende intendere nelli omini e nelli Angeli: imperò che in essi lo intelletto non passa da uno termino ad uno altro; ma sempre sta in uno, sicchè non è possibile nè agente: però che non intendeno altro che Iddio, e sempre intendeno lui, perchè sono confermati ingrazia; e così appare che altramente è lo intendere nelli Angeli, et altramente nelli omini. Similmente è voluntà altramente ne li Angeli, et altramente ne li omini, e voluntà si chiama l’una come l’altra; e per distinguere questa voluntà, debbiamo sapere che tutte le cose procedono da la voluntà d’Iddio, et inclinano per appetito naturale in buono fine; ma diversamente, secondo che le cose sono diverse: imperò che alcune cose inclinano solo per alcuna abitudine naturale senza altro cognoscimento, siccome le piante e li corpi inanimati che inclinano a conservazione di sè medesimo 28 nell’essere, e questa inclinazione è chiamata appetito naturale. Alcune cose inclinano in bene con alcuno cognoscimento; ma non è però tanto, che intendano quello termine come bene; ma ànno cognoscimento d’esso in singulari, e questi sono li animali sensitivi che corucciansi, dilettansi, dogliansi, e questa inclinazione in bene è chiamata appetito sensitivo, che si diletta in questi beni particulari. Alcune cose sono che inclinano nel bene con buono cognoscimento e sì perfetto, che cognosceno quello termine per ragione essere buono, e questa inclinazione è chiamata voluntà et è nelli omini che, ragionando, intendono; ma li Angeli non intendono ragionando, nè per decorso, nè componendo, nè dividendo, come detto è; adunqua questa voluntà non è in essi. Ma siccome ellino intendono più eccessivamente che li omini; così si debbe intendere che in essi sia una inclinazione in bene, la quale sia in eccellenzia maggiore che quella delli omini, e niente di meno voluntà è chiamata l’una e l’altra, benchè altra sia l’una, et altra sia l’altra. Li omini volgliano ora una cosa, ora una altra; li Angeli sempre vogliano una medesima cosa, secondo che intendeno: imperò che sono confermati in grazia; e così si debbe dire della memoria: imperò che la memoria ne li omini è potenzia divina fondata in organo corporale, e delli Angeli non si può dire: imperò che non ànno corpo. Ancora la memoria ne l’omo è delle cose passate; alli Angeli ogni cosa è presente, sicchè peraltro modo si debbe intendere memoria ne l’omo. e peraltro modo più eccellente nelli Angeli, benchè ad uno medesimo modo si chiami; sicchè equivocazione è ne’ vocabuli, che sono simili in voce et altro significano; dunque bene finge l’autore che Beatrice parli, come detto è. Seguita.
C. XXXIX — v. 82-93. In questi quattro ternari lo nostro autore finge come Beatrice, continuando la sua orazione, conchiude poi che à dichiarato come si debbia intendere le tre potenzie dell’anima essere nelli Angeli, come li predicanti e li lettori nelle scuole de la santa Teologia errano, dicendo così: Sicchè; ecco che conchiude, laggiù; cioè nel mondo, non dormendo si sogna: suole l’omo dormendo songnare, et è qui sognare parere vedere quello che l’omo non vede; e perchè lo sognare non avviene se non dormendo, dice che molti Teologi nel mondo non dormendo sognano: imperò che pare loro vedere quello che non vedono, e questo è doppio errore, quando a l’uomo pare sapere la verità et elli non la sa, e questo è sognare non dormendo; e però adiunge: Credendo e non credendo dicer 29 vero; ecco in che modo si sogna non dormendo; cioè credendo dire il vero e non lo dire, e questo è bene sognare: imperò che li pare quello che non è, cioè quando l’omo sogna, e non credendo dicer vero; e questo è anco sognare non dormendo: imperò che dice quel che non è, non dormendo: imperò che cognosce che dice ’l vero, e qui è malizia; e però dice: Ma nell’uno; cioè in questo ultimo, cioè non credendo dicer vero, è più colpa e più vergogna; cioè che nell’altro: imperò che qui è malizia. Quando l’omo dice lo vero questo è onore e merito, quando dice lo falso è vergogna e colpa; ma quando l’omo crede dire lo vero e dice la bugia, è biasimo e colpa; ma credendo dire lo vero e non lo dica, allora è men biasmo e men colpa, e non credendo dire lo vero dica la bugia è più biasimo e più vergogna, perchè v’è la malizia, la quale non è ne l’altro. Voi; cioè cristiani, non andate giù; nel mondo, per un sentero 30; cioè per una via, Filosofando 31; cioè trattando de le cagioni della natura: imperò che, se tutti andasseno per una via, non sarebbono diverse l’opinioni. tanto vi trasporta; cioè voi uomini; ecco la cagione: L’amor dell’apparenza 32; cioè l’amore del parere sofficente, e’l suo pensero; cioè lo pensiero del parere quello, che l’omo non è. Et ancor questo; cioè che detto è, quassù; cioè in cielo, si comporta; cioè da Dio e da’suoi santi, Con men disdegno; cioè con 33 meno indegno, che quando è posposta La divina Scrittura; cioè è lassata da’ predicanti, e vanno per le fizioni poetice e per le ragioni filosofice, per dimostrarsi grandi artisti, e quando è torta; cioè quando è tirata a contrario intendimento, o ad altro che non ebbono li Dottori, nè che ebbe lo Spirito Santo, che la dettò per la bocca loro. Non vi si pensa; cioè laggiù nel mondo, quanto, sangue; cioè di Cristo, de’ santi martiri, gosta; cioè la santa Teologia, Seminarla nel mondo; com’ella fu seminata da’santi Apostoli e discepoli di Cristo, che per essa sostenneno morte o passione; e però dice la santa Scrittura: In omnem terram exivit sonus eorum, et in fines orbis terrae verba eorum. — , e quanto piace; cioè a Dio, Chi umilmente; cioè colui, lo quale con umiltà, s’accosta con essa: cioè colla santa Scrittura, e non si svia da quella, predicando o leggendo. E questa è stata invettiva contra li predicatori vani de la santa Teologia.
C. XXIX— v. 94-108. In questi cinque ternari lo nostro autore finge come Beatrice, seguitando la sua invettiva contra li predicanti, dimostra lo dannò che ne seguita, dicendo: Per apparer; cioè saputo, ciascun; cioè predicatore, s’ingegna e face Sue invenzion; cioè suoi trovati, e quelle; cioè invenzioni, son trascorse Dai predicanti; cioè da coloro, che predicano, e ’l Vangelio; cioè, che ànno scritto li Evangelisti dei fatti e della dottrina e vita di Cristo, si tace; cioè da’ predicatori. L’un; cioè alcuno de’ predicatori, dice che la Luna si ritorse Ne la passion di Cristo; cioè che la Luna nella passione di Cristo corse sei segni e venne sotto lo Sole in uno istante, e secondo lo suo corso naturale pena di’quattordici a passarli et un mezzo di’; e però dice che oscurò lo Sole, e lo suo raggio non potè venire giuso, e questo fa per parere astrologo, e s’interpuose; cioè la Luna tra noi e ’l Sole, Per che ’l lume del Sol; cioè per la qual cosa lo lume del Sole, cioè per la interposizione, giù non si porse; cioè non apparitte giuso a noi nel mondo. E seguita lo testo che si vuole concordare in questo modo, cioè: Et altri; cioè et alcuno altro predicatore dice, che la luce; cioè del Sole, si nascose; cioè s’appiattò allora, Da sè; cioè per sè medesimo; e 34 così fu vero; ma di questo vero deduceno la vera conclusione, dicendo però: Cioè è, e però tale eclissi; cioè tale oscurazione del Sole, rispuose a l’Ispani et a l’Indi; questi sono due popoli che l’uno; cioè l’Indo, è in Oriente; e l’altro, cioè lo Spano, è in Occidente, così s’intende, Come ai Iudei; cioè come rispuose a’ Iudei, così oscurò a l’Ispani et a l’Indi. Non à Firenze tanti Lapi e Bindi; perchè ne la città dell’autore, che si chiama Fiorenza, sono molti chiamati Lapo, e così molti chiamati Bindo, però finge che Beatrice, per confirmare lo detto suo, cioè che spesso avviene, però dice che Fiorenza non à tanti Lapi e tanti Bindi, Quante sì fatte favole; cioè cose sì finte, come sono le favole, le quali sono in molte spezie: imperò che o elle sono di cosa finta, o fittiziamente narrata, o elle sono di cosa vera fintamente narrata. Lascio al presente l’altre divisioni; al presente si bastano queste due: imperò che nell’una spezie sono queste: imperò che la cosa vera narrano fintamente. Vero è che lo Sole oscurò miraculosamente; e questi, per mostrarsi Astrologi, fingono che fusse eclissi naturale, benchè non potesse essere in quel tempo. per anno; cioè per lo circuito dell’anno, In pergamo; cioè 35 nel luogo, nel quale stanno li predicanti, si gridan quinci e quindi; cioè da una parte e da una altra per lo mondo, Sì che le pecorelle; cioè li auditori, cioè li fideli cristiani semplici come pecore, che vanno a udire la parola d’Iddio che è la pastura de’ cristiani, che non sanno; cioè che non sono sapute de la divina Scrittura, nè dell’altre scienzie, Tornan dal pasco; cioè da la pastura, cioè da la predica, che è pastura dell’anima,come le prata 36 sono pastura delle pecore, pasciute di vento: imperò che sono pasciute di belli parlari e di belle invenzioni, che dilettano li orecchi e non fanno pro a l’anima; e però dice di vento; cioè di cosa, che è vana come il vento. E non le scusa; cioè le dette pecore, non veder lo danno; cioè non scusa le persone semplici, che vanno a la predica, non accorgersi del danno suo, che perdono la buona dottrina et empiensi di falsa; e questo dice, perchè ignoranzia non scusa peccato. Et intorno a questo è da sapere che certa scienzia del peccato più aggrava che essere ignorante del peccato; e la ragione è questa. Nel peccato s’attendono due cose; l’una l’atto del peccato; l’altra la disordinazione dell’animo del peccante. E però se’l peccato sarà in quel peccante, che più sarà disordinato per malizia, peccherà più che colui che sarà ignorante che tale atto sia peccato: imperò che lo ignorante che quello atto sia peccato men falla, che colui che lo sa: imperò che, se lo sapesse, se ne guarderebbe, e colui che lo sa, non che se ne guardi; ma per malizia lo vuole et operalo. E però dice santo Tomaso d’Aquino: Quanto motus peccati et magis propius voluntati tantum peccalum gravius et ceteris paribus; ma niente di meno ignoranzia non scusa al tutto lo peccato, benchè sia minore lo peccato commesso per ignoranzia che lo commesso per malizia: imperò che nel foro divino non escusa l’omo ignorantia facti come scusa nel foro civile, et ignorantia iuris in nessuno foro scusa lo peccatore. Et ignorantia iuris non sapere la ragione civile, o divina, che ciascuno debbe sapere per osservarla, et ignorantia facti è delle cose contingenti, da le quali anco li savi si truovano ingannati. E niente di meno peccato non si scusa però al tutto, benchè si manchi la colpa. Seguita.
C. XXIX — v. 109— 117. In questi tre ternari lo nostro autore finge come Beatrice, seguitando la sua invettiva contra li vani predicatori della parola d’Iddio, disse così a lui: Non disse Cristo; cioè lo nostro Salvatore e Maestro della legge evangelica, al suo primo convento; cioè ai suoi primi discepoli, che fu lo primo raunamento che Cristo facesse a seminare la sua dottrina. Andate, e predicate; voi miei discepoli, al mondo; cioè a la gente del mondo, giancie; cioè cose beffivili e derisorie, Ma diede lor; cioè ai suoi discepoli, verace fondamento; e questo fu la dottrina evangelica, sopra la quale ogni buono edificio si fa. El qual; cioè fondamento, tanto; cioè solamente, sonò nelle sue guancie; cioè nella bocca di Cristo, Sì; cioè per sì fatto modo, ch’a pugnar; cioè combattere, per accender la Fede; cioè di Cristo, fero scudi; cioè per difendere la fede, e lancie; per arguire contra li errori, De l’Evangelio: imperò che l’Evangelio era l’arme con che si difendevano, e l’arme con che li errori impugnavano, et altri argomenti non pigliavano. Ora; cioè al tempo presente, si va con motti; cioè da’predicatori ad insegnare la dottrina evangelica co li motti che sono detti iocosi, li quali perchè muovano 37 a gioco si chiamano motti, quasi movimenti, e con iscede; cioè detti beffevili, che strazieggiano e contrafanno le parole altrui: sceda è la prima scrittura, e sceda è la simulazione e contrafacimento, quando l’omo strazieggiando contrafà altrui A predicare; cioè a dire inanzi e publicare lo regno d’Iddio, e pur che ben si rida; cioè dal populo, che sta ad udire, per li motti e scedarie che dice lo predicatore, Gonfia ’l cappuccio; cioè gonfia lo capo del predicatore per vana gloria, che vede piacere lo suo dire, e più non si richiede; cioè non cerca più là, se non di piacere al populo.
C. XXIX— v. 118-129. In questi quattro ternari lo nostro autore finge come Beatrice, seguendo la sua invettiva contra li predicatori che pospognano la santa Scrittura a le faule 38, conchiude che si ritornasse a la lasciata materia, dicendo: Ma tal; cioè sì fatto, uccel; cioè il dimonio, nel becchetto; cioè del cappuccio ch’à ditto di sopra, che gonfia; cioè insuperbisce; e questo becchetto s’intende l’ultima e suprema parte della imaginazione umana che si leva in su per superbia, pensando et estimando da sè dire quello che dice, e reducendo quella gloria a sè e non a Dio, s’annida; cioè fa suo abitaculo, Che se ’l vulgo; cioè lo popolo simplice et ignorante, che va dirieto a tali predicanti, il vedesse; cioè quello uccello, vederebbe La perdonanza; cioè la indulgenzia, che promettono tali predicanti nelle loro prediche, di ch’ei; cioè della quale elli, cioè lo popolo, si confida; cioè d’avere la santa madre Ecclesia: imperò che, se colui la dà che è occupato dal dimonio, dèsi pensare che sia o nulla, o poca; e se è, è per la fede de’ riceventi, non per l’autorità, nè per la fede della annunziantela. Per cui; cioè per la qual fede di perdonanza, tanta stultizia in terra crebbe; cioè nel mondo tra li omini è cresciuta, Che senza prova; cioè senza approvamento, d’alcun testimonio; cioè d’alcuno privilegio vero, Ad ogni promission; cioè che facesse lo predicante, si correrebbe; cioè dal populo. Di questo; cioè di questa fede, che à lo popolo a la fede di tale indulgenzia, che sono publicate da questi predicatori, benchè non siano, ingrassa ’l porco santo Antonio; cioè ànno lo porco grasso da’ simplici uomini quelli che vanno accattando per santo Antonio, cioè per l’ospidale di santo Antonio, che è in Vienna. Et altri assai; cioè ingrassano lo porco per la detta cagione, che; cioè li quali, son peggio che porci; cioè sono più lussuriosi, che non è il porco, Pagando di moneta; cioè lo popolo, che dà loro le limosine di tale premio e sì fatto che è nulla, quanto da la parte loro; e però dice: senza conio; cioè falsa, come è la pecunia, che non à lo suo diritto conio che espressamente si vede che è falsa. Ma perchè sian 39 digressi assai ecco che Beatrice, Dante ritorna a la materia predetta, dicendo: Ma perchè noi, cioè tu et io siamo digressi assai; cioè partiti assai da la materia nostra e dal nostro proposito, per apostrofare contra li vani predicatori, ritorci; cioè tu, Dante, Li occhi; cioè tuoi, cioè la ragione e lo intelletto, oramai; cioè ingiummai, verso la dritta strada; cioè verso la via che ci mena a Dio, e seguita lo tuo viaggio, cioè l’altezza della materia, Si; cioè per sì fatto modo, che la via; cioè, secondo la lettera, lo sallimento; ma, secondo l’allegoria, lo modo di procedere nella materia, e’l tempo; che t’è conceduto a fare questo sallimento; et allegoricamente, che è conceduto a compiere questa opera, si raccorci; cioè si rabbrevi.
C. XXIX — v.130-145. In questi cinque ternari et uno versetto lo nostro autore finge come Beatrice, ritornata a la materia di prima, lasciata la disgressione, dice: Questa Natura; cioè angelica, sì oltre; cioè in sì fatta grandezza di numero, s’ingrada; cioè si stende di grado in grado, In numero; cioè in quantità naturale, che mai non fu loquela; cioè mai non fu parlare d’uomo, Nè concetto; cioè pensamento, mortal; cioè d’omo, che è mortale, che; cioè lo quale concetto, tanto vada; quanto va lo numero delli Angeli. E se tu guardi; cioè tu, Dante, quel che si rivela Per Daniel; cioè quello, che si manifesta per lo profeta Daniel nel capit. iv, vedrai; cioè tu, Dante, che ’n suo’ milliaia; cioè in quelle milliaia, de le quali fa menzione, Determinato numero si cela; cioè s’appiatta lo numero determinato, ponendo lo numero indeterminato. La prima luce; cioè divina, che è luce eterna senza principio, che; cioè la quale, tutta la raia; cioè tutta la natura angelica illumina coi suoi raggi, Per tanti modi; cioè per modi innumerabili, come sono innumcrabili li Angnoli: imperò che in ciascuno percuote uno dei raggi de la divina luce, in essa; cioè natura angelica, si ricepe; cioè si riceve, cioè la detta luce divina, Quanti son li splendori; cioè angelici, a che; cioè ai quali, s’appaia; cioè s’aggiunge la divina luce; e dice s’appaia: imperò che a ciascuno s’accosta, secondo ch’elli n’è capace. Unde; cioè per la qual cosa, però che all’atto; cioè della materia angelica, che concepe; cioè lo quale atto riceve 40 nel suo concetto lo splendore della divina luce, Segue l’affetto; cioè lo desiderio, d’amar la dolcezza; cioè secondo che l’atto della mente angelica intende Iddio, cresce l’amore inverso la dolcezza che sente nello intendere Iddio, Diversamente in essa; cioè in essa natura angelica, ferve; cioè riscalda tale amore, e tepe; cioè e raffredda, cioè l’amore in verso Iddio nelli Angeli è secondo ch’elli intendono Iddio: se grandemente intendeno Iddio, grande è l’amore; e se poco, poco. Vedi; cioè tu, Dante, dice Beatrice, l’eccesso; cioè l’avanzamento, omai; cioè oggimai e la larghezza; cioè d’Iddio; e però dice: De l’eterno valor 41; cioè de l’eterna bontà e potenzia; cioè: Vedi quanto la divina luce avanza ogni altra luce, e vedi quanta è la sua larghezza che ad ogni Angnolo dà de la sua luce quanto elli n’è capevile; e questa luce qui figura lo intelletto, possa che tanti Speculi fatti s’à; cioè quanti sono li Angeli, ne’ quali riluce la luce e la grazia d’Iddio, come riluceno l’altre luci nelli specchi, in che; cioè ne’ quali specchi, si spezza; cioè divisamente si rappresenta, come una luce in diversi specchi; così Iddio in essi Angnoli, Uno manendo in sè; cioè rimanendo elli uno nella sua 42 essenzia, la sua bontà divisamente si rappresenta in innumerabile quantità d’Angeli, come d’avanti; cioè come di prima, cioè che, benchè divisamente si riceva la grazia d’Iddio nelli Angeli, la bontà sua e 43 lo intendere suo niente di meno elli è pure uno semplice, non diviso. E qui finisce lo canto xxix, et incominciasi lo canto xxx della terza cantica. Il valore dantesco è sinonimo del buono platonico. E.
Note
- ↑ Leggere vale qui esporre un testo, al modo che gli antichi nostri costumavano. E.
- ↑ C. M. vedere lo testo coll’esposizioni litterali, allegoriche
- ↑ C. M. Divinità,
- ↑ Vuoli, piegatura naturale da volere frappostovi l’u come in puose, truova e cotali. E.
- ↑ Ogni ubi et ogni quando. Ecco il continuo comune nella sua medesimezza al tempo e allo spazio, secondo il Gioberti. E.
- ↑ C. M. e similmente non vi fu luogo, che è la seconda dubitazione, dicendo:
- ↑ Auge. Questa è ai vocabolaristi una pruova novella come siffatto nome sia di genere comune. E.
- ↑ C. M. e riceveno da simile forma suo essere; ma puovisi dare gradi secondo li abiti che procedeno
- ↑ Voluntà; voluttà, in senso di onesto diletto o desiderio di tale diletto, come nel Volgarizzamento del Libro di Cato «Poche cose convegnano alla voluntade», dove il latino à «Pauca voluptati debentur. E.
- ↑ C. M. cose; e se tu domandi: Quando
- ↑ C. M. presente, e questo è il luogo; e se tu dimandi: Quando? Rispondo: fore
- ↑ C. M. senza forma, come li elementi, che benchè in sè abbiano forma, per rispetto delle cose elementate, si possono dire materia pura, cioè
- ↑ Elementi. Quattro si riteneva fossero gli elementi ai tempi del nostro Commentatore; Acqua, Fuoco, Aria e Terra. E.
- ↑ C. M. Dio nelle dette tre differenze in atto e in essere
- ↑ C. M. fue concorrente
- ↑ Alchimia; Chimica. E.
- ↑ C. M. Signore, cioè Dio, prima cagione formale et effettiva d’ogni cosa prodotta, Nell’
- ↑ Le sostanze, in che puro atto fu produtto; sono gli Angeli, gli spiriti puri, cioè la metessi schietta. La Pura potenzia è la mimesi pura. La potenzia con atto è la mimesi metessica. Ecco il triforme effetto uscito dell’arco tricorde della Trinità divina e creatrice; il quale triforme effetto Nell’esser suo. . . nello esordire ec. Ecco l’unità della forza e del cosmo nell’atto primo. Così annota il Gioberti. E.
- ↑ C. M. la materia
- ↑ Ribella, come leggiera, fina e simili. E.
- ↑ Ricognoscere sè; mostrarsi, porgersi grato. Truovasi nella Vita di santa Maria Maddalena «Gl’imperadori, volendosi riconoscere della sua bontade, sì gli donarono la terza parte di Gerusalem». E.
- ↑ Vista; nel linguaggio dantesco è la metessi intelligente. E.
- ↑ Disgrediendo: uscendo, facendo digressione. E.
- ↑ Impertinenti; non appartenenti, strane alla materia. E.
- ↑ C. M. Teologia, dove voi cristiani andale ad udire la dottrina evangelica, Si leggie;
- ↑ Veggi, vegghi, vedi sono pure terminazioni dell’uso. E.
- ↑ Intelletto possibile. Vedi Purg. C. xxx. v. 65. E.
- ↑ Medesimo invariato, siccome appo dei Latini. E.
- ↑ Dicer, secondo il latino. E.
- ↑ Sentero, fognato l’i, come in pensero ec. E.
- ↑ La Filosofia vera debbe avere dinanzi a sè una prospettiva misteriosa, a cui sola si può accostare. Non è da esagerare la forza della ragione e della filosofia o scienza. E.
- ↑ L’amor dell’ apparenza; ecco la falsa filosofia, la quale si fonda sopra il sensibile; e la verace, sull’intelligibile. E.
- ↑ C. M. con minore indegnazione, che
- ↑ C. M. per sè medesimo, senza altra interposizione; e così
- ↑ C. M. cioè in sul permio, dove stanno li predicatori a predicare, si gridan
- ↑ Prata, plurale come frutta, gesta, legna e simili. E.
- ↑ C. M. muoveno gli animi a letizia si chiamano
- ↑ C. M. faule, aggiunse la pena, che ne seguiterà loro, dicendo:
- ↑ Sian, siano, prima persona plurale, senza affisso oggi non sarebbero più da usare. E.
- ↑ C. M. riceve et accetta nel
- ↑ Il valore dantesco è sinonimo del buono platonico. E.
- ↑ C. M. nella sua natura et essenzia
- ↑ C. M. e la intelligenzia sua;