Commedia (Buti)/Paradiso/Canto XXVIII
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(Commento di Francesco Da Buti) (XIV secolo)
Canto ventottesimo
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C A N T O XXVIII.
1Possa che contra a la vita presente1
Dei miseri mortali aperse ’l vero
Quella, che ’mparadisa la mia mente;2
4Come in ispecchio fiamma di doppiero
Vede colui che se n’alluma dietro,
Prima che l’ abbia in vista o in pensiero,
7E sè rivolge, per veder se ’l vetro
Li dice ’l vero, e vede che s’accorda3
Con esso, come nota con suo metro;
10Così la mia memoria si ricorda
Ch’io feci, riguardando ne’ belli occhi,4
Unde a pigliarmi fece Amor la corda.
13E com’ io mi rivolsi, e furon tocchi
Li miei da ciò che pare in quel volume,
Quandunche nel suo giro ben s’adocchi,
16Un punto viddi che raggiava lume
Acuto sì, che ’l viso ch’elli affoca,
Chiuder conviensi per lo forte acume.
19E quale stella par quinci più poca,
Parrebbe Luna locata con esso,
Come stella con stella si colloca.
22Forse cotanto, quanto pare, appresso
Alo cinger la luce, che ’l dipigne,
Quando ’l vapor, che ’l porta, più è spesso,
25Distante intorno al punto un cerchio d’igne
Si girava sì ratto, ch’ avrea vinto
Quel moto che più tosto il mondo cigne;
28E questo era d’un altro circuncinto,
E quel dal terzo, e ’l terzo poi dal quarto,
Dal quinto il quarto, e poi dal sesto il quinto.
31Sopra seguiva il settimo sì sparto
Già di larghezza, che ’l messo di Iuno5
Intero a contenerlo serebbe arto.
34Così l’ ottavo, e ’l nono; e ciascheduno
Più tardo si movea, secondo ch’ era
In numero distante più dall’uno.
37E quello avea la fiamma più sincera,
Cui men distava la favilla pura,
Credo però, che più di lei s’invera.
40La donna mia, che me vedea in cura
Forte sospeso, disse: Da quel punto
Depende ’l Cielo, e tutta la Natura.
43Mira quel cerchio, che li è più coniunto,6
E sappi che ’l suo muover è sì tosto
Per l’affocato amor, ond’elli è punto.
46Et io a lei: Se ’l mondo fusse posto
Coll’ ordine ch’ io veggio in quelle rote,
Sazio m’arebbe ciò che m’è proposto;
49Ma nel mondo sensibile si puote
Veder le volte tanto più divine,7
Quant’elle son dal centro più remote.
52Unde, se ’l mio disio dè aver fine
In questo miro et angelico tempio,
Che à solo amore e luce per confine,8
55Udir conviemmi ancor come l’esemplo
E l’ esemplare non vanno d’ un modo
Chè io per me indarno ciò contemplo.
58Se li tuoi diti non sono a tal nodo
Sofficienti, non è meraviglia:
Tanto per non tentare è fatto sodo.
61Così la donna mia; poi disse: Piglia
Ciò ch’io ti dicerò, se vuoi saziarti,9
Et intorno da esso t’ assottiglia.
64Li cerchi corporal son ampi et arti,10
Secondo ’l più e ’l men della virtù le,
Che si distende per tutte lor parti.
67Maggior bontà vuol far maggior salute,
Maggior salute maggior corpo cape,
S’elli à le parti equalmente compiute.11
70Dunque costui, che tutto quanto rape
L’ altro universo seco, corrisponde
Al cerchio, che più ama e che più sape.12
73Per che, se tu a la virtù circonde
La tua misura, e non a la parvenza
Delle sustanzie che t’appaion tonde,
75Tu vederai mirabil consequenza
Di maggio a più e di minore a meno,
In ciascun Cielo a sua Intelligenza.
79Come rimane splendido e sereno
L emisperio dell’ aire, quando soffia
Borea da quella guancia onde è più leno,
82Per che si purga e risolve la roffia,
Che pria turbava, sì che ’l Ciel ne ride,
Colle bellezze d’ ogni sua parroffia;
85Così fec’ io, poi che mi provide
La donna mia del suo risponder chiaro,
E come stella in Cielo il ver si vide.
88E poi che le parole sue restaro,
Non altremente ferro disfavilla,13
Che bolle, come i cerchi sfavillaro.
91Lo incendio suo seguiva ogni scintilla;14
Et eran tante, che ’l numero loro,
Più che ’l doppiar delli scacchi, s’immilla.
94Io sentia osannar di coro in coro
Al punto fìsso, che li tiene all’ubi,15
E terrà sempre, nel qual sempre foro.16
97E quella, che sentia i pensier dubi17
Nella mia mente, disse: I cerchi primi
Mostrati t’ ànno i Serali e i Cherubi.18
100Così veloci segueno i suoi vimi,
Per similliarsi al punto quanto ponno;
E posson quanto a veder son soblimi.
103Quelli altri Amori che ’ntorno li vonno,19
Si chiaman Troni del divino aspetto,
Perchè ’1 primo ternaro terminonno.20
106E dei saper che tutti ànno diletto
Quanto la sua veduta si profonda
Nel Vero, in che si queta ogni intelletto.
109Quinci si può veder come si fonda21
L’esser beato nell’atto che vede,
Non in quel ch’ama, che possa segonda;
112E del vedere è misura mercede,
Che grazia parturisce e buona vollia:
Così di grado in grado si procede.
115L’altro ternaro, che così germollia
In questa primavera sempiterna,
Che il notturno Ariete non dispollia,22
118Perpetualmente Osanna isverna23
Con tre melode, che suonano in tree
Ordini di letizia, onde s’interna.
121In essa gerarcia son le tre Dee,24
Prima Dominazioni, e poi Virtudi;
L’ordine terzo di Potestadi ee.25
124Possa ne’ du penultimi tripudi
Principati et Arcangeli si girano;
L’ultimo è tutto d’Angelici ludi.
127Questi ordini di su tutti s’ammirano,
E di giù vincon, sicchè ’n verso Iddio
Tutti tirati sono e tutti tirano.
130E Dionisio con tanto disio
A contemplar questi ordini si mise,
Che li nomò e distinse, com’io.
133Ma Gregorio da lui poi si divise;
Onde sì tosto, come l’ occhio aperse
In questo Ciel, di sè medesmo rise.
136E se tanto secreto ver profferse
Mortale in terra, non vollio ch’ammiri:
Chè chi ’l vidde quassù liel discoperse
139Con altro assai del ver di questi giri.
- ↑ v. 1. C. A. Poscia che contro alla
- ↑ v. 3. C. A. che in paradiso à la
- ↑ v. 8. C. A. Ne dice il vero, e vede ch’ el si
- ↑ v. 11. C. A. Che feci io,
- ↑ v. 32. C. A. Giuno
- ↑ v. 43. che più li è congiunto
- ↑ v. 50. C. A. le cose
- ↑ v. 54. C. M. Che solo amore e luce à per
- ↑ v. 62. C. A. Quel che io ti dirò,
- ↑ v. 64. C. A. cerchi corporai
- ↑ v. 69. C. A. S’ella à le
- ↑ v. 72. Sape, naturale desinenza dall’infinito sapere. E.
- ↑ v. 89. C. M. C. A. altrimenti
- ↑ v. 91. C. A. Lo incendio lor
- ↑ v. 95. Ubi; dove, come prope ed altre cotali voci, che in sul nascere di
nostra lingua furono derivate dalla latina. E. - ↑ v. 96. C. M. C. A. ne’ quai
- ↑ v. 97. C. A. che vedeva
- ↑ v. 99. C. A. T’ànno mostrato Serafi e
- ↑ v. 103. Vonno, terza plurale del presente indicativo, con l’aggiunta d’una n, essendosi da principio finite in ono le terze plurali di questo tempo. E.
- ↑ v. 105. Terminonno, dalla terza del singolare in ò, raddoppiato l’n di no, per cagione dell’accento. E.
- ↑ v. 109. C. A. onde si
- ↑ v. 117. C. A. Che notturno
- ↑ v. 118. C. A. sterna
- ↑ v. 121. C. A. gerarchia son l’altre idee;
- ↑ v. 123. Ee, voce originaria ed intera, perchè, dettosi nella seconda persona tu ei, ne veniva ce nella terza. E.
C O M M E N T O
Possa che contra a la vita presente ec. In questo canto xxviii lo nostro autore finge come Beatrice li mostrasse lo punto della Divinità, e le tre gerarcie 1, e li ordini delli Angeli che sono intorno ad esso. E dividesi in due parti principali: imperò che prima finge come Beatrice dimostra lo punto della Divinità, e li ordini delli Angeli e le gerarcie che intorno a lui sono; nella seconda finge che Beatrice, avendoli dichiarato alcuni suoi dubbi, elli rimase certo, et incominciasi quine: Come rimane ec. La prima, che sarà la prima lezione, si divide tutta in cinque parti: imperò che prima finge come, poi che Beatrice ebbe posto la invettiva contra il vivere mondano, elli ragguardando ne’ suoi occhi vidde rilucere come in ispecchio lo punto della Divinità, et incominciasi quine: Possa che contra ec.; nella seconda finge come, rivolto a drieto per quello che avea veduto negli occhi di Beatrice, vidde lo punto della Divinità, et incominciasi quine: E com’io mi rivolsi, ec.; nella terzia parte finge come intorno a quello punto vidde girare le tre girarcie 2 degli Angeli distinti con nove ordini, et incominciasi quine: Forse cotanto, ec.; nella quarta parte finge come Beatrice li dichiarò che è quel punto e quelli cerchi che ’l giravano intorno ch’elli vedeva, e com’elli intorno a quella dichiaragione mosse dubbio, et incominciasi quine: La donna mia, ec.; nella quinta parte finge come Beatrice solvè lo suo dubbio, et incominciasi quine: Se li tuoi diti ec.: Divisa la lezione, ora è da vedere lo testo co l’esposizioni letterali, allegoriche e morali.
C. XXVIII — v. 1-12. In questi quattro ternari lo nostro autore finge come, poi che Beatrice ebbe finito la sua invettiva, elli ragguardando ne’ suoi occhi vidde in essi rilucere come lume in ìspecchio lo punto della Divinità, dicendo così: Possa che contra a la vita presente Dei miseri mortali; cioè de’ miseri omini, che viveno nel mondo carnalmente, aperse ’l vero; cioè manifestò la verità, come appare di sopra ne la invettiva, Quella che ’mparadisa; cioè Beatrice, che mette e leva in paradiso, la mia mente; cioè la mente di me Dante: imparadisare è mettere in paradiso; questo è verbo formato dall’autore allegoricamente, che la santa Scrittura è quella che mette in paradiso la sua mente, e di ciascuno che quella studia con divoto cuore, Come in ispecchio; ecco che arreca una bella similitudine, dicendo: Come nello specchio che l’uomo à dinanzi a sè fiamma di doppiero; cioè di torchio lume acceso, Vede colui; cioè alcuno omo, che, cioè lo quale, se n’alluma dietro; cioè s’illumina d’esso di rieto dalle spalle, cioè che l’à acceso di rieto da sè, Prima che l’abbia; cioè innanti che abbia lo detto torchio, in vista; cioè in apparenzia, cioè che ’l vegga, cioè lo torchio acceso, o in pensiero; cioè o in pensamento l’abbia lo detto torchio acceso, E sè rivolge; cioè quello omo, che questo vede, per veder se ’l vetro; cioè dello specchio, Li dice ’l vero; cioè se quello, che li rappresenta lo specchio, è vero, e vede che s’accorda Con esso; cioè lo torchio, che è acceso di rieto a lui, con quello che li rappresenta lo specchio, come nota con suo metro; cioè come s’accorda la nota del canto colla sua parola ch’ella segna, o co la sua misura: la nota è lo segno, e lo metro è la cosa segnata, come nelli occhi di Beatrice era lo segno, e di rieto a Dante era la cosa segnata. Ecco che adatta la similitudine: Cosi la mia memoria; cioè di me Dante, si ricorda Ch’io feci; cioè come fa colui, del quale è detto di sopra, riguardando ne’belli occhi; cioè di Beatrice, li quali significano lo intelletto litterale e l’allegorico, o vero morale; o vero significano la ragione e lo intelletto di coloro che la trovorno e scrissella 3, sicchè in essa si vede Iddio rappresentato quine, come segno di quello vero Iddio che è in vita eterna, Unde; cioè de’ quali occhi di Beatrice, Amor fece la corda a pigliarmi; cioè a pigliare e legare me Dante: imperò che de’ suoi belli occhi m’inamorai, quando prima la viddi; e questo è stato posto di sopra. Seguita.
C. XXVIII — v. 13-21. In questi tre ternari lo nostro autore finge come, quando si rivolse a vedere lo lume che rilucere avea veduto nelli occhi di Beatrice, vidde uno lume acutissimo come uno punto; e questo finge che fusse la Divinità, dicendo cosi: E com’io; cioè altresì tosto, come io Dante, mi rivolsi; cioè rivolsi me al detto lume, e furori tocchi Li miei; cioè occhi, da ciò che pare in quel volume; cioè da ciò che si vede in quella Deità, che è immensa Quandunche; cioè 4 quando, nel suo giro; cioè del detto lume, ben s’adocchi; cioè ben si ragguardi, cioè quando li miei occhi ebbono veduto ciò che si può vedere de la Deità, che è lume infinito e bene senza misura, non viddi se non uno punto, perchè non fui capace di più, nè nessuno intelletto può essere capace se non di poghissima 5 parte; e però dice: Un punto 6 viddi; cioè io Dante, che; cioè lo quale punto, raggiava; cioè come raggi gittava, lume Acuto sì, che ’l viso; cioè sì eccessivo e per sì fatto modo, che la vista, ch’elli affoca; cioè nella quale gitta li suoi raggi, Chiuder conviensi; cioè conviene che li occhi, ne li quali gitta li suoi raggi, si chiudano, per lo forte acume; cioè per la forte chiarezza et eccessiva del detto lume; e niente di meno, benchè sia d’infinita eccellenzia, in qualità apparente era come minima stella et anco via meno, e però dice: E quale stella par quinci; cioè qualunqua stella pare da questo luogo, cioè del mondo e de la terra, dove era Dante quando questo scrisse, più poca; cioè qualunqua stella pare a noi omini minore, quando ragguardiamo in cielo, Parrebbe Luna; cioè parrebbe che fusse una Luna in grandezza, locata con esso; cioè se li fusse posta a lato: tanto è poco quello punto, Come stella con stella si colloca; fa la similitudine dicendo: Se una minima stella si ponesse lato al detto punto, come nell’ottava spera ne veggiamo assai, l’una a lato a l’altra, essa stella parrebbe una Luna a rispetto di quel punto. Questa fizione del punto fa qui l’autore, a mostrare la simplicità 7 de la divina Essenzia, a la quale attribuisce lume tanto eccessivo, a dimostrare la infinita sua potenzia e sapienzia e bontà, la quale è tanta che per nessuno si può comprendere 8. Seguita.
C. XXVIII — v. 22-39. In questi sei ternari lo nostro autore finge che vedesse intorno al punto, detto di sopra, in cerchio girarsi le tre girarcie delli Angeli, et in ciascuna girarcia tre ordini, dicendo così: Forse; e conviene che si pigli l’intelletto nel quarto e quinto versetto: Si girava Distante; cioè dilungi, intorno al punto; che è la Divinità, del quale è detto di sopra, un cerchio d’igne 9; e questo è lo primo ordine de la prima girarcia, che si chiamano Serafini; e dice cerchio di fuoco: imperò che stavano intorno in cerchio, e tutti ardevano come fuoco: imperò che sono più ardenti in carità d’Iddio e del prossimo, che gli altri, cotanto appresso; cioè tanto prossimano al detto punto, che è la Divinità, quanto pare; cioè appresso il vapore, Alo 10 cinger la luce; cioè la luce della Luna, che ’l dipigne; cioè la quale luce lo dipinge e cagionalo: imperò che li raggi della Luna cagionano lo cerchio, che è intorno a la Luna, Quando ’l vapor, che ’l porta; cioè quando lo vapore che porta quel cerchio: imperò che di vapori si genera; nei quali vapori li raggi della Luna si rifletteno, e tanto appare più lo cerchio, quanto lo vapore è più 11 spesso; lo quale vapore lo detto cerchio à in sè; e però dice: più è spesso; e dice è più spesso: imperò che quanto è più spesso lo vapore, tanto più appresso si fa lo cerchio intorno a la Luna; et ora si debbe pigliare colà dove si dice: sì ratto; cioè sì veloce girava |o detto cerchio, intorno al punto della Divinità, ch’avrea vinto; cioè lo detto moto, che facea lo detto cerchio intorno al punto de la Divinità, arebbe vinto in prestezza, Quel moto; cioè quello movimento, che; cioè lo quale moto, più tosto il mondo cigne; questo ene lo moto de la nona spera, lo quale in 24 ore gira una revoluzione, e li altri contenuti dentro da esso, benchè tirati da esso facciano lo simile, secondo lo loro moto violento, secondo lo moto naturale loro, che è contrario al sopradetto, è in più anni o più dì, come è stato dichiarato più volte di sopra. E questo; cioè primo ordine de la prima girarcia, che si chiama Serafini, era d’un altro; cioè ordine, circuncinto; cioè da’Cherubini, E quel; cioè secondo ordine, dal terzo; cioè ordine, che si chiama Troni, era circuncinto, s’intende; e così è finita la prima girarcia, e ’l terzo; cioè ordine, poi; era circuncinto, s’intende, dal quarto; cioè ordine, Dominazioni, che è lo primo de la seconda girarcia, il quarto; cioè ordine era circuncinto, Dal quinto; cioè ordine, che si chiama Virtudi, e poi il quinto; cioè ordine era circuncinto, dal sesto; cioè ordine, che si chiama Podestadi; e qui finisce la seconda girarcia. Sopra; cioè li detti cerchi, seguiva il settimo; cioè cerchio, che è lo primo ordine de la terza girarcia, che si chiama Principati, sì sparto: imperò che cingea tutti li altri, Già di larghezza; cioè 12 era sì ampio dagli altri, e sì largo, che ’l messo di Iuno; cioè Iris; l’arco baleno che si genera nelle nugole per opposizione del Sole, del quale è stato detto di sopra Intero; cioè se fusse tutto tondo: imperò che a noi non appare, se non mezzo, serebbe arto; cioè stretto, a contenerlo; cioè a contenere dentro da sè quello settimo cerchio delli Angeli, che si chiama Principato. Così; cioè sparto seguiva, l’ottavo; cioè lo settimo, e ’l nono: cioè cerchio, seguiva l’ottavo sparto, come detto è: l’ottavo era l’ordine delli Arcangeli, e lo nono era l’ordine delli Angeli, e questa è la terza gerarcia, e ciascheduno; cioè de’ detti ordini, Più tardo si movea; cioè che gli altri, sicchè quello, che era più presso al punto, si movea più ratto che ’l secondo, e così successivamente; sicchè l’ultimo si movea più tardo di tutti, secondo ch’era In numero distante più dall’uno; cioè secondo che era più dilungi dall’uno, cioè dal primo ordine che era più presso al punto della Divinità, che era stabile e fermo. E quello avea la fiamma più sincera; cioè aveva la fiamma più pura de’ detti nove ordini, Cui; cioè dal quale, men distava; cioè meno era dilunge, la favilla pura 13; cioè lo punto della Divinità, che era una pura luce; et assegna la cagione: Credo però; cioè credo che questa sia la cagione, che più di lei; cioè della pura favilla, s’invera 14; cioè s’empie di verità. Iddio è verità, vita e via; e però chi più a lui s’accosta, più àe e più apprende de la sua verità.
Poi che qui è fatto menzione delle gerarcie delli Angeli; che non è altro a dire gerarcia 15 se none principato divino; et in ciascuna de le tre gerarcie sono tre ordini, che sono in tutto nove, dobbiamo vedere perchè li Angeli sono divisi in tre gerarcie, siccome Dionisio pone nel libro della Celeste Gerarcia; e perchè ciascuna si divide in tre ordini; e di questo si può rendere tale ragione. Iddio, che è sommo bene, volendo comunicare il suo bene a la creatura, produsse creature simili a sè, e questa fu la creatura angelica intellettuale, e la creatura che àe intelletto, àe ragione e voluntà, et in questo è simile a Dio. Produsse ancora, per mostrare la sua potenzia, sapienzia e bontà, creature dissimili a sè, e questa fu la creatura corporale come sono li cieli. E, per mostrare ancora meglio la sua potenzia, sapienzia e bontà, produsse la creatura mista di corpo e d’anima intellettiva, e questo fu l’omo, lo quale quanto a l’anima è compagno degli Angeli et è simile a loro, e quanto al corpo è di natura corporea. E produsse ancora la quarta cosa che fusse in parte simile a l’omo, et in parte differente, e questa è la creatura animale, che à anima sinsitiva come l’uomo; ma non ragionevile, et à corpo; sicchè è creatura corporea tanto, creatura corporea animata sensibile tanto, creatura corporea animata sensibile e ragionevile tanto, e creatura corporea ragionevile intellettiva. Et a questa tale creatura incorporea ragionevile et intellettiva lo suo creatore diede cognizione universale e particulare per proprietà e per eccesso; cioè per sì fatto modo che non l’ebbe sì perfettamente l’uomo; e per proprietà: imperò che è proprio all’uomo, et a la creatura corporea ragionevile cognizione universale e particulare per participazione: imperò che in ciò participa cogli Angeli, e per eccesso diede la particulare, sicchè in ciò avanza la creatura corporea sensitiva; et a la creatura corporea sensitiva cognizione particulare per proprietà e tanto per participazione. E la cognizione universale e particulare, che è ne li Angeli, si divide in tre modi: imperò che tale cognizione universale di verità o ella è immediatamente da Dio, e questa è ne la prima gerarcia, secondo che procede dal principio universale; o ella è come effetto produtto da la prima cagione, per mezzo de la seconda cagione, e già moltiplicato, e questo si conviene a la seconda girarcia; o ella cognizione universale e particulare, secondo che s’applica a le cose singulari, siccome esse dipendono da singulare e da proprie cagioni, e tale modo si conviene a la terza girarcia. E perchè in ciascuna di queste tre cognizioni sono tre gradi; sommo, mezzano et infimo, però sono tre ordini. L’operazione delle creature intellettuali è per intelletto, e per consequente per voluntà: imperò che, come intendeno la voluntà d’Iddio; così vogliano: e come vogliano; così operano, et in questo operare sono li detti tre gradi. E, per avere notizia più espressa de li Angeli, debbiamo considerare l’operazioni loro e li offici essere distinti in questo modo. La prima girarcia à cognizione universale e particulare da la prima cagione senza mezzo per proprietà e per eccesso: imperò che questo è proprio a la prima girarcia; et in questo eccedono li Angeli de la prima gerarcia quelli della seconda; e quelli della seconda ànno per proprietà e participazione questo medesimo, che è detto, come effetto produtto dalla cagione por mezzo della seconda, e già moltiplicato, e per eccesso per rispetto della terza, e questo si dice proprio de la seconda; e quelli della terza ànno per proprietà e per participazione quello medesimo, che detto è, secondo che s’applica a le cose singulari, siccome esse dipendeno da singulare o da propria cagione; et in ciascuna girarcia è chi tiene in primo grado per proprietà quello che detto è, e per eccesso per rispetto del secondo grado. E così chi tiene quello, che detto è, in secondo grado per proprietà e participazione, e per eccesso per rispetto del terzo grado, e così chi tiene quello, che detto è, in terzo grado per proprietà e participazione, e per eccesso a rispetto di quelli della seconda girarcia, e così sono tre ordini. E per questo quello, che è nel superiore per proprietà et eccesso, è nel secondo per participazione, per rispetto del primo, e per eccesso, per rispetto del terzo; e così tutte le perfezioni spirituali sono in tutti li Angeli comunemente; ma più sono abondanti nelli superiori, che nell’inferiori, è così li offici delli inferiori sono nelli inferiori per proprietà, e ne’ superiori per eccesso. Et acciò che si vegga meglio, vegnamo a la particularità. La proprietà de’ Serafini si è per eccesso in ardore di carità, et assimigliali santo Dionisio al fuoco per tre cagioni. La prima si è che, come lo fuoco per suo proprio moto va in sue mai non declina; così questi tendono lo suo amore in Dio e mai da quello non declinano. La seconda cagione è che, siccome nel fuoco è virtù attiva e penetrabile; così l’ardore di questi è attivo e penetrabile nel divino amore. La terza cagione si è, come nel fuoco è luce e chiarità; così l’ardore di questi è lucido e chiaro e rimosso da ogni tenebra. Li Cherubini ànno per propietà uno eccesso in scienzia, e così sono interpetrati pienezza di scienzia quanto a quattro cose; la prima: però che ànno perfetta visione d’Iddio; la seconda, che ricevono pienamente lo lume divino; la terza, che contemplano nella bellezza dell’ordine di tutte le cose; le quali cose et ordine è derivato da Dio; la quarta, che la loro scienzia copiosamente danno a li altri Angeli degli altri ordini. La proprietà de’ Troni si è che immediate cognosceno la cagione delle eperazioni divine; e benchè tale cognoscere sia ne’ superiori ordini, in quelli è per eccesso; ma in essi è per proprio modo; e sono questi Troni per Dionisio assimigliati a sedie per quattro similitudini. La prima si è che, come la sedia è levata da terra; così lo cognoscimento d’essi si leva a cognoscere le ragioni dell’operazioni d’Iddio. La seconda è che, come ferma sta la sedia; così questi sono fermi nella divinità, et essa 16 fede è in essi. La terza è che, come la sedia riceve lo sedente, e con quella può essere portato; così li Troni riceveno Iddio, e per alcuno modo lo portano a li ordini più bassi. La quarta si è che, come la sedia è sempre atta per ricevere lo sedente; così questi Troni sono sempre apparecchiati a ricevere Iddio. La proprietà delle Dominazioni è una libertà, la quale è una rigida et inflessibile signoria e governamento che non s’inchina a nessuno atto servile. La propietà dell’ordine delle Virtù si è participare della virtù divina umilmente. La proprietà dell’ordine delle Potestadi si è alcuna ordinazione circa lo reggimento delle divine cose, e circa l’azione delle divine cose et inferiori. La proprietà dell’ordine de’ Principati si è ordinare quello che debbono fare li sudditi, e però lo suo nome significa duce et ordine savio. La propietà delli Arcangeli si è essere principi delli Angeli. La propietà de li Angeli si è annunziare all’uomo le cose divine. E veduta l’ordinazione dell’ordine delli Angeli, ora è da vedere alcuna cosa della loro beatitudine divina, la quale è per natura data loro nella visione divina, e per grazia infusa in loro da Dio, nell’ amore che ànno a Dio: siccome l’uno avanzò l’altro in natura et in grazia; così fu dato a l’uno più alto grado e più presso a Dio, che a l’altro. Seguita.
C. XXVIII — v. 40-57. In questi sei ternari lo nostro autore finge come Beatrice, vedendo lui stare sospesogli cominciò a dichiarare le cose che aveva vedute; e com’elli mosse a lui dubbio ch’elli aveva per quello che aveva veduto; e quello, che ella rispuose, seguitrà poi. Dice prima così: La donna mia; cioè Beatrice, che me vedea in cura; cioè la quale vedeva me in sollicitudine di sapere, Forte sospeso; cioè fortemente dubbioso, disse; cioè a me Dante. Da quel punto; cioè lo quale tu vedi, Depende ’l Cielo: imperò che di niente l’à creato, e tutta la Natura; cioè la natura naturata: imperò che Iddio de nihilo cuncta creavit; e quel punto, come detto è, significava Iddio, dal quale ogni cosa è fatto. Mira; cioè tu, Dante, quel cerchio; cioè de’ Serafini, che li è più coniunto; cioè al punto detto di sopra, E sappi; cioè tu, Dante, che ’l suo muover; cioè del detto cerchio, è sì tosto; cioè è tanto festino e ratto, come tu vedi, Per l’affocato amor; cioè per l’ardente amore, ond’elli; cioè dal quale ardente amore esso primo ordine de la prima girarcia, che sono li Serafini, è punto; cioè è mosso. Et io; cioè Dante, a lei; cioè a Beatrice dissi: Se ’l mondo fusse posto; ecco che l’autore muove lo suo dubbio dicendo: Se’l mondo; cioè li cieli che sono nove, come questi sono nove ordini d’Angeli, fusse posto Coll’ordine ch’io; cioè lo quale io Dante, veggio in quelle rote; cioè delli ordini delli Augeli, Sazio m’arebbe; cioè me Dante arebbe saziato e contentato, ciò che m’è proposto; cioè tutto quello che tu, Beatrice, m’ài detto del punto e del primo cerchio. Ma nel mondo sensibile; cioè in questo, nel quale sono le cose che s’apprendeno coi sentimenti, cioè col vedere, toccare ec., a differenzia del mondo che è sopra cielo che è eterno, e non s’apprende se non co lo intelletto, e però si chiama mondo intelligibile, si puote Veder le volte; cioè li giri suoi e le revoluzioni sue, tanto più divine; cioè tanto più veloci; e dice divine, cioè più affocate da l’amore divino: imperò che già è detto che Iddio muove ogni cosa, et elli è immobile: imperò ch’elli muove come amato, sicchè le parti di ciascuno cielo desideranti di tornare a lui, siccome a la cosa amata da loro, tanto più s’affrettano quanto più ardeno dell’amore divino; e però più divine; cioè più veloci, perchè più amano Iddio, Quant’elle son dal centro più remote; cioè dal centro de la terra rimosse 17, e più presso a Dio: imperò che più veloce si muove la nona spera che l’ottava, e l’ottava che la settima, e così dell’altre spere, intendendo pur del moto loro violento non naturale. E però conchiude: Unde; cioè per la qual cosa, se ’l mio disio; cioè se ’l mio desiderio, dè aver fine; cioè debbe essere quietato, In questo miro; cioè in questo meraviglioso, et angelico templo; cioè casa ampia delli Angeli, Che; cioè lo quale tempio, à solo amore 18 e luce per confine; cioè è terminato da ogni parte da luce e da amore; e perchè quine la luce e l’amore è senza fine, quello tempio è senza termine, Udir conviemmi 19; cioè a me Dante conviene udire, ancor; cioè oltra quello, che òne udito, come L’esemplo; cioè lo mondo di giuso sensibile, che è fatto ad esemplare dello intelligibile, E l’esemplare; cioè lo mondo intelligibile, che è forma del mondo sensibile, non vanno d’un modo: imperò che nel mondo intelligibile lo più presso al centro va più ratto e ’l più dilungi più piano; e nel mondo sensibile è lo contrario: imperò che ’l più presso al centro de la terra va più piano, e lo più dilungi va più ratto: che è la cagione di questa contrarietà vorrei sapere da te Beatrice: Chè io; cioè imperò che io Dante, per me indarno; cioè invano, ciò contemplo; cioè la cagione di questa contrarietà considero: imperò che io nolla posso vedere, e però dichiaramelo tu, Beatrice. E questo finge l’autore: imperò che, secondo ragione naturale, questo non si può vedere; ma per ragione teologica sì, e però prega Beatrice che gliel dichiari.
C. XXVIII. — v. 58-79. In questi sette ternari lo nostro autore finge come Beatrice rispuose al suo dubbio; ma prima disse la cagione, per che a lui era malagevile, cioè la negligenzia dello studio, dicendo cosi: Se li tuoi diti; cioè di te Dante, non sono a tal nodo Sofficienti; cioè bastevili a sciolgere tale nodo, cioè tale difficultà e malagevilezza di dubbio; e parla al suo modo usato, usando permutazione, ponendo li diti per lo ingegno, e lo nodo per la malagevilezza del dubbio, cioè: Se ’l tuo ingegno non è bastevile a sciolgere questo dubbio, non è meraviglia; et assegna la cagione, per che, cioè per la negligenzia de lo studiare e cercare la verità, dicendo: Tanto per non tentare; cioè 20 per non cercare di sciolgerlo, è fatto sodo: lo nodo della fune, quando sta grande tempo che non si sciolge, o che non s’allenti, tuttavia rassoda; e così lo dubbio delle cose intellettuali, quando non si cerca co lo studio de la scienzia a trovare la verità, diventa più forte l’un di’ che l’altro. Così la donna mia; cioè così disse Beatrice, come detto è, poi; cioè dopo le dette parole, disse; cioè Beatrice a me Dante: Piglia Ciò ch’io ti dicerò 21; cioè quello, che io Beatrice dirò a te Dante, a dichiaragione del tuo dubbio, se vuoi saziarti; cioè se vuoi saziare lo tuo desiderio, che è di sapere come risponde l’esemplo a l’esemplare, Et intorno da esso t’assottiglia; cioè tu, Dante, assottiglia lo ingegno tuo intorno a quello che io ti dirò. Li cerchi corporal; cioè de’cieli, che sono corpi, sono ampi: cioè grandi, et arti 22; cioè piccoli e stretti, Secondo ’l più e ’l meri della virtute; cioè secondo la quantità della virtù, ch’elli ànno; e però dice: Che; cioè la qual virtù, si distende per tutte lor parti: imperò che li corpi celesti ànno virtù, la quale influeno 23 giuso ne li elementi e nelle cose elementate; la quale virtù è messa in essi da Dio per mezzo delli Angeli. Maggior bontà; cioè quello cielo, che à maggior virtù, vuole fare maggiore influenzia e maggiore effetto ne li elementi e ne le cose elementate; e però dice: vuol far maggior salute; cioè che maggiore effetto di salute fa la grande virtù, che la piccola. Maggior salute maggior corpo cape; cioè maggior corpo contiene maggior salute: imperò che nelle cose corporali maggiore effetto fa lo corpo grande che lo piccolo, se non rimanesse già per mancamento delle sue parti; e però adiunge: S’elli à le parti equalmente compiute; cioè se lo grande corpo à le suoi 24 parti parimente compiute come lo piccolo, come si vede, per esemplo, maggior forza à uno grande uomo che uno piccolo; e se ’l piccolo avesse amendune le mani e lo grande non l’avesse, arebbe maggior forza lo piccolo, che il grande. E, dichiarato l’antecedente, conchiude: Dunque costui; cioè questo nono cielo, che; cioè lo quale, tutto quanto rape L’altro universo: imperò che 25, come elli si gira in ventiquattro ore; così fa girare ogni cielo contenuto dentro da sè in quello medesimo tempo, seco; cioè insieme con lui, corrisponde Al cerchio; cioè delli angeli Serafini, che è lo minore che più ratto e più presso gira intorno a Dio, che; cioè lo quale cerchio de’Serafini, più ama; cioè Iddio che li altri Angeli, e che più sape; cioè à maggiore scienzia d’Iddio e de le cose create che li altri Angeli; e questo à dato ad intendere l’autore per la prossimità e per la velocità, che significa l’ardente fervore che ànno inverso Iddio, e la subita conversione che ebbono a Dio come furno creati. Et ora dichiara che la similitudine si debbe intendere, secondo la virtù, e non secondo la quantità corporale; e però dice: Per che; cioè per la qual cosa, se tu; cioè Dante, circonde; cioè intornei et accerchi. La tua misura; cioè lo misurare che tu fai de’cerchi delli Angeli che sono intelligibili, e dei corpi celesti che sono sensibili, a la virtù; ch’elli ànno, e non a la parvenza; cioè e non a la quantità, Delle sustanzie; cioè intelligibili che sono li Angeli, e sensibili corporei che sono li cieli, che; cioè le quali, t’appaion tonde: imperò che li Angeli t’appaiono in cerchio intorno al punto, e de’cieli che t’appaiono tondi intorno al centro della terra, Tu; cioè Dante, vederai mirabil consequenza; cioè meravigliosa convenienza e correspondenzia, Di maggio; cioè di maggiore corpo, a più; cioè virtù, e di minore; cioè corpo, a meno; cioè virtù, In ciascun Cielo; che sono nove, a sua Intelligenza; cioè al suo cerchio delli Angeli, che sono intelligenzie; cioè: Tu vedrai che la nona spera risponde a la virtù de’Serafini, e l’ottava a la virtù de’Cherubini, e Saturno ai Troni, et Iove a le Dominazioni, e Marte a le Virtuti, e lo Sole a le Potestati, e Venus ai Principati, e Mercurio a li Arcangeli, e la Luna a li Angeli. E qui finisce la prima lezione di questo canto xxviii, et incominciasi la seconda.
Come rimane ec. Questa è la seconda lezione del canto vigesimo ottavo, ne la quale finge l’autore com’elli rimase chiaro dopo la dichiaragione fatta da Beatrice; e com’ella dichiarò ancora li ordini delli Angeli e le gerarcie, nominandoli, e toccò alcuna diversità che di ciò è tra’ Dottori. E dividesi in parti cinque: imperò che prima finge come, avuta la risposta di Beatrice, elli rimase chiaro e libero dal dubbio che prima avea; nella seconda finge com’elli cognobbe la moltitudine innumerabile dei detti Angeli per lo sfavillare, e come l’uditte cantare le lode d’Iddio, et incominciasi quine: E poi che le parole sue ec.; nella terza parte finge come Beatrice li nominò li ordini dei detti Angeli, li quali erano ordinati a cerchio a cerchio intorno al punto della Divinità, cioè quelli della prima gerarcia, et incominciasi quine: E quella che sentia ec.; nella quarta parte l’autore finge come Beatrice nominò quelli della seconda e terza gerarcia, et incominciasi quine: L’altro ternaro, ec.; nella quinta parte finge come Beatrice dichiarò a lui la differenzia, che fu tra’Dottori della santa Chiesa de’ detti ordini, et incominciasi quine: E Dionisio ec. Divisa la lezione, ora è da vedere l’esposizione del testo co l’allegorie, o vero moralità. E quanto alla lettera dice prima così: Come rimane splendido e sereno ec.
C. XXVIII — v. 79-87. In questi tre ternari lo nostro autore finge come Beatrice, dichiaratoli lo dubbio suo, elli rimase chiaro come l’aire, quando è spazzato da tramontana, dicendo così: Come rimane splendido e sereno l’emisperio dell’aire; ecco che fa una similitudine, cioè che, come l’aire rimane chiaro e splendido, quando soffia la tramontana; così dice che rimase elli, poi che Beatrice lo dichiarò del suo dubbio, dicendo che, Come L’emisperio; cioè nostro: che è emisperio è dichiarato di sopra, dell’aire rimane splendido e sereno, quando soffia Borea; questo è uno vento che viene da tramontana, da quella guancia; cioè da quella parte, onde; cioè dalla quale, è più leno; più delicato e più volto: imperò che li venti, come è stato dichiarato altro’, sono li principali quattro, sicchè da ogni parte del mondo ne viene uno, e da ogni lato è accompagnato da uno, sicchè da ogni parte sono tre, e però da settentrione ne vegnano tre; cioè Borea dal mezzo, Aquilo dalla parte di verso l’oriente, e Coro dalla parte di verso l’occidente; ma l’autore, poetando e fingendo, dice che uno vento sia, che si chiama Borea, lo settentrionale, et esca per tre bocche della terra; da quella del mezzo e da le due collaterali; e quella del mezzo finge che sia quella che lo produca meno tempestoso, e però nomina pur Borea, e dice da quella guancia; cioè da quella bocca: finge che lo vento esca come di bocca che soffi, e però pone qui guancia, perchè le guancie gonfiano quando l’uomo soffia, Per che; cioè per lo quale Borea, si purga e risolve la roffia; cioè la turbazione dell’aire: roffia è oscurità di vapori umidi, spissati e condensi insieme, Che; cioè la quale roffia, pria; cioè prima, turbava 26; cioè l’aire, sì che ’l Ciel ne ride; cioè per sì fatto modo, che io cielo sta chiaro, come sta i’omo quando ride, Colle bellezze d’ogni sua parroffia; cioè d’ogni sua parte e coadunazione, Così fec’io; ecco che adatta la similitudine, dicendo che così schiarò elli, e però dice: Così fec’io; cioè così schiarai io Dante poi che mi provide; cioè poi che providde me Dante, La donna mia; cioè Beatrice; ecco che dichiara di che, del suo risponder chiaro; cioè della chiara risposta, che mi fece, E come stella in Cielo; cioè si vede chiara: imperò che in cielo si vedeno, il ver; cioè la verità, che Beatrice m’avea dichiarato, si vide; cioè da me Dante del dubbio, che io avea della similitudine dei cerchi delli Angeli a la similitudine delle spere celesti. Seguita.
C. XXVIII— v. 88-96. in questi tre ternari lo nostro autore finge come, poi che Beatrice ebbe compiute lo suo parlare, elli vidde sfavillare e scintillare li cerchi angelici, et udì cantare lode a Dio, dicendo così: E poi che le parole sue; cioè di Beatrice, restaro; cioè furno finite, Non altremente 27; ecco che arreca la similitudine, ferro disfavilla; cioè gitta faville, Che; cioè lo quale ferro, bolle; cioè nel fuoco; imperò che, allora quando bolle, sfavilla, come i cerchi sfavillaro; cioè li cerchi delli Angeli gittarono faville. Lo incendio suo; cioè di ciascuno Angelo, seguiva ogni scintilla; cioè ogni favilla seguiva lo suo incendio, sicchè quante erano le faville, tanto erano l’incendi, cioè li Angeli. Et eran tante; cioè le dette faville, Che ’l numero loro; cioè delle dette faville, Più che ’l doppiar delli scacchi s’immilla; cioè cresce in più migliaia che non cresce lo numero de lo scacchieri, ponendo per ogni luogo di scacco uno numero duplicato per rispetto delle predette, cioè del’precedente; e dice scacchi; cioè luogo di scacchi che è lo scacchieri, che he sessantaquattro luoghi, cioè quadri de lo scacchieri dove si pognano li scacchi giocando, sicchè ponendo al primo quadro 1, al secondo 2, al terzo 4, al quattro 8, al quinto 16, al sesto 32, al settimo 64, e così poi oltra; del quale numero chi facesse ragione quanto è tutto insieme, troverebbe che 13 milliaia di migliaia di migliaia di migliaia di migliaia di migliaia di migliaia, 446 migliaia di migliaia di migliaia di migliaia di migliaia di migliaia, 1644 migliaia di migliaia di migliaia di migliaia di migliaia, 173 migliaia di migliaia di migliaia di migliaia, 1709 migliaia di migliaia di migliaia, e 551 migliaio, 617; ecco a quanto grande numero crescerebbe lo numero delli scacchi. Et ancora dice che maggiore era quello delli Angeli, e per questo vuole denotare che era numero incomprensibile. Io; cioè Dante, sentia osannar; cioè cantare osanna, di coro in coro; cioè di cerchio in cerchio d’Angeli, che era come lo coro de’ religiosi: che cosa significhi osanna è stato esposto di sopra, che è preghiera che si fa a Dio, non per loro che non bisogna; ma per li omini del mondo, Al punto fisso; cioè al punto fermo, che è Iddio, che li tiene; cioè lo quale punto della Divinità tiene loro, cioè li detti Angeli, all’ubi; cioè al luogo fermo: però che sono confermati in grazia, E terrà sempre; cioè Iddio li detti Angeli fermi nella sua grazia, nel qual; cioè luogo fermo, sempre foro: imperò che ab eterno furno così predestinati in mente divina.
C. XXVIII — v. 97-114. In questi sei ternari lo nostro autore finge come Beatrice, sentendo li suoi pensieri dubbiosi che erano nella sua mente, li dichiarò nominandoli li ordini de la prima girarcia, dimostrando come si cagionava la beatitudine ne’santi per quella delli Angeli, che tutta procede ad uno modo, dicendo così: E quella; cioè Beatrice, che sentia; cioè la quale Beatrice sentiva, i pensier dubi; cioè li pensieri dubbiosi, Nella mia mente; cioè li quali erano nella mente di me Dante, disse; cioè a me Dante. I cerchi primi; cioè quelli, che sono più presso al punto, Mostrati: t’anno; cioè mostrato ànno a te Dante, i Serafi; cioè i Serafini 28, che sono lo primo ordine, e i Cherubi; cioè li Cherubini, che sono lo secondo ordine. Cosi veloci; cioè come tu vedi, segueno i suoi vimi 29; cioè li suoi legami, che li tengono fermi e tirano al punto: questi vimi sono la cognizione divina e la grazia divina, che tiene loro fermi nella carità d’Iddio, Per similliarsi; cioè per assimigliare sè, al punto; cioè della Divinità, quanto ponno; cioè quantunque possono assimilarsi a lui. Iddio è sommo bene, et ogni cosa àe produtto per la sua bontà, e creato di nulla ogni cosa, ciascuna cosa rispondente nel grado suo a la bontà sua, e così conserva ogni cosa e governa dirizzando ogni cosa nel fine suo, e nessuna cosa può durare, se non da lui torna a lui; e però dice Boezio nel iii della Filosofica Consolazione: Nec manet ulli traditus ordo, Nisi quod fini iunxerit ortum, Stabilem quum fecerit orbem; e nel medesimo libro dice: Dumque ea, quae protulit in sui similitudine, retinere festinat, malum omne de reipublicae suae terminis per fatalis seriem necessitatis eliminat. — E posson; cioè assimilarsi al punto, quanto a veder son soblimi; cioè quanto sono alti a vedere e cognoscere Iddio, tanto sono ardenti in amore: imperò che l’amore nasce dal cognoscere: imperò che dice Seneca: Invisa diligere possumus, incognita nequaquam; e però quanto la creatura cognosce lo Creatore, tanto l’ama; e però seguita che quelli, che sono più presso al punto, sono quelli che più amano Iddio: imperò che più cognosceno lui. E, poi che Beatrice ebbe dichiarato Dante dei primi due ordini della prima girarcia, che erano più presso al punto, finge ch’ella lo dichiarasse del terzo ordine, dicendo: Quelli altri Amori; cioè spiriti angelici pieni della carità d’Iddio, che ’ntorno; cioè li quali intorno, li; cioè a loro, vonno; cioè vanno e giransi, Si chiaman Troni: imperò che Troni sono lo terzo ordine della prima girarcia: e perchè così si chiamino è stato detto di sopra, del divino aspetto; cioè fermezza e riposo del ragguardamento divino: imperò che in loro si ferma l’ardente amore de’ Serafini e la chiarezza de’Cherubini, Perchè ’l primo ternaro terminonno; cioè la prima girarcia, che è Serafini, Cherubini e Troni. E dei saper; cioè tu, Dante, questo, cioè che tutti ànno diletto, cioè li detti ordini delli Angeli et anco tutti li altri ànno tanto diletto et allegrezza, Quanto la sua veduta; cioè lo loro cognoscimento, che ànno d’Iddio, si profonda; cioè entra dentro nella Divinità; e però dice: Nel Vero; cioè in Dio. che è verità e vita e via, come disse Cristo: Ego sum vìa, et veritas et vita— , in che; cioè nel quale vero, si queta; cioè si riposa, ogni intelletto; cioè ogni intelligenzia et angelica et umana: lo intelletto angelico et umano mai non si quieta, se non in Dio; e però disse santo Augustino: Domine, fecisti nos ad te, et inquietum est cor nostrum, donec requiescamus in te: imperò che lo intelletto non può intendere cosa maggiore che Iddio; e però, quando adiunge a lui, si riposa in lui siccome in suo termino, e lui ama; et amandolo quanto può, sente tanta dolcezza e letizia di quanto è capace, e così si sazia, fruendo 30, lo spirito beato del sommo bene, che è Iddio; e però seguita: Quinci; cioè da questo, che detto è, si può veder; cioè da chi considera ciò, che è detto, come si fonda; siccome in suo principio, L’esser beato; delli Angeli e dell’anime umane, nell’atto che vede; cioè nella visione, Non in quel ch’ama, cioè e non nell’amore, che; cioè lo quale amore, possa segonda; cioè seguita; sicchè lo principio, in che sta la beatitudine dei beati, è lo intelletto che cagiona l’amore, e l’amore seguita dallo intelletto: imperò che tanto è l’amore inverso Iddio, quanto s’intende la bontà d’Iddio. E del vedere è misura mercede; ecco che dimostra quanto sia dato a li spiriti beati d’intendere Iddio, cioè quanto elli ànno meritato per la libertà dell’arbitrio, Che grazia parturisce cioè che viene dalla grazia d’Iddio: imperò che disse Cristo: Sine me nihil potestis facere — , e buona vollia; cioè buono volere che nasce nell’anima, spirante la grazia divina. Così di grado in grado; cioè dalla inspirazione della grazia al volere, dal volere al merito, dal merito a lo intendere, e dallo intendere a l’amare, e questo è fruere Iddio 31. Ecco come da Dio viene lo principio della beatitudine delli spiriti beati et in lui si termina; e però ben dice: ''Ego sum alpha et Ω; principium et finis— , si procede; cioè dalli spiriti beati a la similitudine. E debbesi intendere questo ordine cosi: La grazia preveniente eccita lo buono volere, la grazia cooperante aiuta questo buono volere e compie questo buono volere e confermalo: e tanto quanto è l’atto del volere in accettare questa grazia che ’l muove, tanto è lo merito, sicchè nella creatura è la grandezza del volere, e per consequente del merito, e secondo lo merito è lo intendere Iddio, e secondo lo intendere è l’amare, e secondo l’amare è fruere Iddio che è essere beato.
C. XXVIII — v. 115-129. In questi cinque ternari lo nostro autore finge come Beatrice, continuando lo suo parlare, manifesta l’altre due gerarchie, dicendo così: L’altro ternaro; cioè la seconda gerarcia, che 32 è di tre ordini, come la prima, che; cioè la quale, così germollia; cioè mette fuora e polla, come pollano li albori nella primavera, che ogni brocco mette fuora le sue frondi e rami e fiori, e così questi ordini sempre metteno fuora carità, scienzia et iustizia, In questa primavera sempiterna; cioè in questa beatitudine, dove è sempre abbondanzia delle dette tre virtù, Che; cioè la quale primavera, il notturno Ariete; cioè quando Ariete è nel nostro emisperio di notte, che è quando lo Sole è in Libra, ch’è segno nel principio del quale, quando lo Sole è, sono pareggiati li di’ colle notti, e cominciano a crescere le notti e mancare li di’, et allora cominciano a cadere le follie delli arbori; e però dice: non dispollia; cioè de le sue frondi, cioè de le dette virtù: imperò che li detti Angnoli in grazia non perdono mai le loro virtù: potrebbe anco dire lo testo disfollia; cioè leva le follie, et è quella medesima sentenzia; e dice: notturno Ariete, a differenzia del diurno Ariete, che, quando Ariete è nel nostro emisperio di di’, lo Sole è in lui, si pareggiano le notti co li di’ e cresceno poi li di’ e mancano le notti, et allora li arbori si vesteno di rami nuovi, frondi e fiori; ma quando Ariete è nel nostro emisperio di notte, allora lo Sole è in Libra, e viene lo contrario; e però dice: notturno Ariete, a denotare quando lo Sole è in Libra, Perpetualmente: però che mai non viene meno, Osanna; questo è prego che si fa a Dio, che è esposto di sopra che viene a dire; Fa salvo, et intendesi lo popolo tuo; lo quale prego fanno li Angeli per li omini che sono nel mondo, che per loro non fa bisogno di pregare, isverna; cioè canta, come svernano e cantano nella primavera li uccelli. Con tre melode; cioè con tre dolcezze di canti siccome tre sono li ordini de la detta girarcia, che; cioè le quali dolcezze, suonano in tree Ordini di letizia; cioè in tre ordini d’Angeli, che sono in letizia di beatitudine, onde; cioè dalli quali ordini s’interna; cioè si fa di tre la detta gerarcia. In essa gerarcia; questo vocabulo gerarcia viene a dire santo principato, e, come detto è, significa congiunzione di tre ordini, sicchè ora finge l’autore che Beatrice manifesti quali sono questi ordini di questa seconda gerarcia, dicendo: son le tre Dee; cioè li tre ordini nominati per nome feminino, e però dice Dee; cioè Iddie; Prima Dominazioni; questo è lo primo ordine di sopra, che si chiama Dominazioni, e poi Virtudi; questo è lo nome del secondo ordine, L’ordine terzo; cioè della seconda gerarcia, di Potestadi ee: Potestadi è nome del terzo ordine che è nella seconda gerarcia; e questi nomi sono stati sposti di sopra, e però non li replico. Possa ne’ du’ penultimi tripudi; cioè ne’ due sequenti ordini della terza gerarcia, che tripudiano; cioè fanno festa e ballo intorno a Dio: tripudio è ballo, e dicesi da la terra e percuotere: imperò che nel ballo la terra si percuote coi piedi; e penultimo viene a dire allato all’ultimo: imperò che poi seguitano li Angeli, che è l’ultimo ordine, Principati; questo è lo nome del primo ordine della terza girarcia, et Arcangeli; questo è lo nome del secondo ordine, e viene a dire principi delli Angeli, si girano; cioè si volgeno intorno a li altri giri delli altri ordini. L’ultimo; cioè ordine, è tutto d’Angelici ludi; cioè di angelichi 33 giuochi: imperò che nell’ultimo cerchio 34 si levano e fanno festa intorno a li altri giri. Questi ordini; cioè delli Angeli di tutte le dette tre gerarcie, di su; dei gradi, che sono sopra loro, tutti; cioè li detti ordini, s’ammirano; cioè si meravigliano, siccome di cosa maggiore e migliore di sè: imperò che ’l punto della Divinità avanza lo primo ordine et ogni altra cosa di sotto; e lo primo, lo secondo et ogni altra cosa di sotto; e lo secondo, lo terzo et ogni altra cosa di sotto; e lo terzo, lo quarto et ogni altra cosa di sotto, e così infine al nono. E di giù; cioè e le cose, che sono di sotto da sè, vincon; cioè avanzano in virtù et in potenzia, sicchè ’n verso Iddio; che è lo punto detto di sopra, Tutti tirati sono; siccome da sommo bene amato da loro, et anco l’inferiore ordine dal superiore, e tutti tirano; cioè li detti ordini: imperò che’l superiore tira l’inferiore, e l’ultimo ordine tira l’altre creature di sotto da sè, e ciascuno superiore tira in verso sè, cioè che tira l’inferiore con maggior forza e virtù che lo inferiore, et ogni cosa tirano in verso Iddio; ma lo inferiore non tira con tanta virtù, quanto lo superiore. Seguita.
C. XXVIII — v. 130-139. In questi tre ternari et uno versetto lo nostro autore finge come Beatrice li manifestò unde s’ebbe notizia di questi ordini delli Angeli e delle gerarcie; e come differenzia fu tra santo Dionisio e santo Gregorio nella nominazione e distinzione, et approvò lo detto di Dionisio e dannò quello di santo Gregorio molto onestamente, manifestando unde santo Dionisio l’ebbe, dicendo così: E Dionisio; questo fu santo Dionisio, lo quale, studiando ad Atene quando vidde nella passione di Cristo scurare lo Sole, che fu cosa contra natura: imperò che la Luna era in opposizione al Sole nella maggiore distanzia che possa essere, disse: Aut Deus naturae patitur, aut totius mundi machina destruetur; e poi a la predica di santo Paolo apostolo si convertitte a la fede e fu ammaestrato da lui di quelle cose, che vidde quando fu ratto infine al terzo cielo, come fu nel xxvi canto di questa cantica, sicchè allora imparò da santo Paolo le nominazioni delli ordini delli Angeli e le situazioni loro e le distinzioni delle gerarcie, con tanto disio; cioè con tanto desiderio, A contemplar questi ordini; cioè delli Angeli, si mise; cioè misse sè nel suo libro ch’elli fe 35 De Divinis nominibus, De Coelesti Hierarchia 36, Che li nomò; cioè che santo Dionisio nominò li detti Angeli, e distinse; cioè e divise in tre gerarcie, e ciascuna gerarcia in tre ordini, com’io; cioè come io òne nominato e diviso io Beatrice. Ma Gregorio; cioè ma santo Gregorio, da lui; cioè da santo Dionisio, poi si divise; cioè dicendo altramente, che santo Dionisio; e la differenzia fu nell’ordine che si chiama Principato: imperò che santo Dionisio lo puose nella terza gerarcia nel primo ordine; e santo Gregorio lo puose nella seconda gerarcia nel mezzo, quine dove santo Dionisio puose le Virtù, e le Virtù puose santo Gregorio nel primo ordine de la terza gerarcia dove santo Dionisio puose li Principati. E fingendo, pone come la sentenzia di santo Dionisio è vera, e non quella di santo Gregorio, fingendo che santo Gregorio dannasse la sua sentenzia, dicendo così: Onde sì tosto, come l’occhio; cioè dell’intelletto, aperse; cioè santo Gregorio, In questo Ciel; cioè nel quale noi siamo, cioè com’elli fu morto e fu in paradiso, di sè medesmo rise; cioè santo Gregorio accorgendosi che non avea ben ditto. Et ora dimostra come Beatrice avverò la sentenzia di santo Dionisio, dicendo: E se tanto secreto ver profferse Mortale in terra, non vollio ch’ammiri; cioè io Beatrice non vollio che tu, Dante, ti meravigli, se santo Dionisio, che era mortale in terra, non sallito ancora quassù, proferse nel suo libro preallegato sì grande verità secreta: imperò che le cose del cielo sono secreto a li omini, se già Iddio per sua grazia non le fa loro manifeste. Et assegna la cagione, per che non vuole che Dante si meravigli, dicendo: Che chi ’l vidde quassù; cioè imperò che colui che vidde lo vero secreto quasi sù in cielo, cioè santo Paolo apostolo, quando fu ratto infine al terzo cielo, liel discoperse; cioè liel manifestò cioè lo detto vero secreto, Con altro assai del ver di questi giri; cioè è non solamente la verità dei nomi e del sito delli Angeli; ma eziandio altre verità di quelle che sono nei giri de’ cieli. E qui si può muovere uno dubbio secondo lo testo; cioè: Se santo Paolo non fu ratto, se non infine al terzo cielo, come vidde li ordini delli Angeli? A che si può rispondere che Iddio in quello luogo per sua grazia li fece vedere quello et altre cose; unde elli dice di sè medesimo: Et vidi arcana Dei, quae non licet homini loqui, non che quive e non che a san Paolo; ma a ciascuno potrebbe Iddio in terra ne lo inferno fare vedere li suo’secreti del cielo. E qui finisce lo canto xxviii, et incominciasi lo canto xxix.
Note
- ↑ Gerarcie; gerarchie, fognato l’h siccome altrove, E.
- ↑ C. M. gerartie
- ↑ Scrissella, scrissenla, la scrisseno. E.
- ↑ C. M. cioè quandunqua, in qualunque tempo, nel suo
- ↑ Poghissima. Così pronunziasi tuttora in alcune provincie d’Italia verso il mezzogiorno e nel centro. E.
- ↑ Dante dipinse Dio come un punto di picciolezza infinita; ma d’uno splendore vivissimo; cotalchè ad esprimere la semplicità esclude affatto l’infinito matematico, e per indicarne la virtù gli attribuisce l’infinito dinamico. Tale è la sentenza del Gioberti, il quale accordasi col nostro Butese. E.
- ↑ C. M. simplicità et individualità della divina
- ↑ C. M. comprendere. Et à fatto questa finzione per osservare l’ ordine che à tenuto in fine a qui. Imperò che in ogni cielo è finto che si li sia rappresentato quello che è conveniente a la sua influenzia. E perchè questo cielo, nel quale finge che ora fusse, è lo primo mobile e conviene che lo suo moto si cagioni da uno principio immobile simplicissimo e con mezzo o senza mezzo: e Dio è questo principio, però finge che qui si li rappresentasse questo punto. Seguita.
- ↑ C. M. d’igne; cioè un cerchio di splendori affocati; e questo
- ↑ Alo, alone si è appellata quella meteora, che talora comparisce in forma d’anello o cerchio luminoso intorno al Sole, alla Luna ed altri corpi celesti. Tali corone alcuna fiata sono bianche, ma sovente ànno gli stessi colori dell’iride: ora appare sola una corona, e talvolta ne appaiono molte concentriche. E.
- ↑ C. M. più basso: lo quale
- ↑ C. M. cioè per la sua larghezza in tanto era ampio, che ’l messo
- ↑ La favilla pura, o luce perfetta, è la Mentalità assoluta, tipo della metessi creata; la fiamma più sincera è la metessi creata dell’ordine angelico, la quale tira la sua luce, cioè la sua mentalità finita, dalla Mentalità infinita; e perciò di lei s’invera, perchè l’intelligibile assoluto è il vero. E.
- ↑ C. M. s’invera: imperocchè quello cerchio, che è più presso alla pura luce, più s’invera; cioè s’empie
- ↑ C. M. gerartia .... gerarchia
- ↑ C. M. e ferma fede ànno in essa. La
- ↑ Dante era di credere che la disposizione degli spiriti sopracelesti dovesse rispondere a quella dei cieli, errore comune ai centripetisti i quali confondono il primo col secondo cielo. Beatrice però gli dimostra come nel cielo più antico, cioè in quello della creazione spirituale, le cose vanno a rovescio; e come in esso la perfezione digrada correndo dal centro alla circonferenza, e non per contrario. E.
- ↑ Il Poeta nostro pone la natura dell’empireo in amore e virtù, amore e luce; ecco la natura divina. L’amore e la luce nella metessi rispondono al reale e all’ideale nell’ente. Così il Filosofo subalpino. E.
- ↑ Conviemmi; convièmi, duplicata la consonante dell’affisso, perchè terminata con accento la parola, a cui si congiugne. Nel Barberino altresì abbiamo viè per viene «quando il viè a lattare. E.
- ↑ C. M. cioè tanto è fatto insolubile e malagevile, per non cercare
- ↑ Dicerò, conformazione primigenia dall’infinito dicere. E.
- ↑ Arto, giusta l’artus latino, che pure significa stretto. E.
- ↑ Influeno, da influere della seconda coniugazione, ed ora più usitato nella terza. E.
- ↑ Suoi. Dal singolare soo e soa provennero anticamente i plurali soi e soe; e, frammessovi l’u, doventarono suoo e suoa, donde poscia suoi e suoe; e suoa terminato in e, come arme, leggiere ec. uscì nel plurale feminile in suoi. E.
- ↑ C. M. universo; cioè lo quale cielo tutti gli altri cieli tira di rietro a sè: imperò che,
- ↑ Turbava, usato intransitivo assoluto. Tali bellezze di lingua non si apprendono per via di precetti; ma colla sollecitudine dello studio sui classici. E.
- ↑ Altremente, modo avverbiale, risultante da mente ed altre terminato in e nel feminile, come fine, leggiere ec. E.
- ↑ Serafi, Cherubi, imitazione dal latino Seraphim e Cherubim. E.
- ↑ Vimi, dal vimen latino; legame. E.
- ↑ Fruendo, fruere, più innanzi. Quanta grazia da certe voci tratte dai Latini, se con senno vengano adoperate! E.
- ↑ Fruendo, fruere. Quanta grazia da certe voci tratte dai Latini, se con senno vengono adoperate! E.
- ↑ C. M. che si chiama ternario, perchè à tre ordini d’Angeli, come
- ↑ Angelichi ed angelici al plurale; ma qui preferita la prima desinenza per cagione d’eufonia. E.
- ↑ C. M. cerchio si letiziano e fanno
- ↑ C. M. fe de’ nomi di Dio e dell’angelica gerarchia, che
- ↑ Questo libro di san Dionisio così è intitolato — Περὶ Θείων Ονομάτων, Περὶ Τῆς οὑρανίας Ιεραρχίας -. E.