Cimbelino/Atto quinto
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ATTO QUINTO
SCENA I.
Una landa che divide gli accampamenti britanni dai romani.
Entra Postumo con una pezzuola insanguinata.
Post. Sì, io ti serberò, sanguinoso drappo, perchè io fui che ebbi desiderio di averti tinto di questo colore. Quanti di voi, o sposi, seguendo il mio esempio, quanti di voi ucciderebbero, per lievi falli, consorti più virtuose di voi medesimi. Oh Pisanio! un buon servo non compie tutti gli ordini del suo signore; e soltanto obbedisce a quelli che la ragione dettò. Se m’aveste, o Dei, punito delle mie colpe, vissuto non sarei tanto da poter comandare questo delitto! allora avreste conservata la nobile Imogène fino all’istante del suo pentimento; e colpito avreste me, me sciagurato! ben più di lei meritevole della vostra vendetta. Oimè! tali vi hanno che togliete dal mondo per lievissime colpe, e consentite che altri vivano accumulando ogni dì più sul loro capo delitto a delitto? A costoro i misfatti fruttano abbondevolmente, e guidanli impuni alle ricchezze e al potere. Imogène adesso è tornata in grembo a voi: siano dunque compiuti i vostri voleri; e fate che io mi vi possa paziente sottomettere. — Sono stato trascinato in questo campo in mezzo alla nobiltà italiana, per invadere gli Stati della mia principessa. Brettagna, non basta che io t’abbia fatta uccidere la tua sovrana? ma rassicurati; non ti aprirò altre piaghe. Udite dunque pazienti, o benefìci Dei, il mio nuovo disegno. Vuo’ spogliarmi di questi abiti italiani, vestirmi a guisa di colono britanno, e così trasfigurato combattere contro il partito che ho seguito fin qui; e morire per te, cara Imogène, per te, la cui rimembranza fa della mia vita una continua agonia. Travestito, sconosciuto, oggetto di compassione, anzichè d’odio, affronterò ogni più grande pericolo, e mostra farò di valore, più che le rozze mie vesti non possano promettere. Afforzatemi, o Numi, di tutta la magnanimità de’ miei avi! (esce)
SCENA II.
La stessa.
Entrano da un lato Lucio, Jachimo e l’esercito romano; dall’altro i soldati britanni, a cui Postumo tien dietro in abito da gregario: dopo brevi evoluzioni suona la carica e si impegna la mischia: Jachimo e Postumo combattono insieme: il primo è disarmato dal secondo, che quindi s’allontana.
Jach. Il peso del delitto che s’aggirava sulla mia coscienza, mi toglie le forze e il coraggio. Ho calunniato la sovrana di questa isola; e pare che l’aria stessa ch’io respiro, la prenda a vendicare, e tolga a me ogni vigore. Se così non fosse, avrebbe mai potuto quello zotico superarmi nella mia professione? l’onore e il titolo di cavaliere, allorchè vengono sostenuti come io li sostengo, altro non sono che argomenti d’infamia. Brettagna! se i tuoi nobili sono più valenti di quell’ignobile schiavo, come egli lo è dei nostri capitani, noi saremo appena uomini, mentre i figli tuoi saranno altrettanti Dei. (esce)
(la battaglia continua; i Britanni sono vôlti in fuga; Cimbelino è preso; se non che Belario, Guiderio ed Arvirago si avventano a liberarlo)
Bel. Fermatevi, fermatevi! la situazione più vantaggiosa è la nostra: abbiam riparati i fianchi: chi ne sforza a fuggire, se non una vergognosa paura?
Guid. e Arv. Fermatevi, fermatevi! combattiamo! (rientra Postumo, e seconda i Britanni; Cimbelino è riscattato; e allora ognuno s’allontana. Dopo rientra Jachimo insieme con Lucio ed Imogène)
Luc. Fuggi, fanciullo; lascia il campo: poniti in salvo! la confusione è sì grande, che la guerra sembra aver una benda sugli occhi! gli amici uccidono, senza vedere, gli amici.
Jach. Quel nuovo rinforzo...
Luc. Le speranze di questa grande giornata sono omai perdute: o siamo pronti alla riscossa, o mettiamoci in fuga. (escono)
SCENA III.
Un’altra parte del campo.
Entrano Postumo e un Lord.
Lord. Vieni tu dal luogo ove fu sostenuto l’impeto nemico?
Post. Sì; ma voi sembrate venire da quello per cui siamo fuggiti.
Lord. Ben dici.
Post. Non ve ne so dar biasimo, signore; perocchè tutto era ito, se il Cielo non avesse combattuto per noi. Lo stesso re abbandonato dalle sue due ali; l’esercito rotto e già in fuga; il nemico fiero di sua vittoria, e che aggiungeva l’insulto alla carnificina; tutto insomma facea credere esser questo il giorno del nostro esterminio, il giorno supremo dell’antichissima patria.
Lord. E come la fortuna si è per tal modo cambiata?
Post. Un generoso vecchiardo, seguito da due giovinetti, i di cui volti mostravano maggiore freschezza di quelli cui pudore, o la tema dell’estiva arsura tiene velati, si scaglia in una gola angusta e profonda, scavata fra quelle enormi giogaie, verso cui fuggiva il nostro esercito; ed affrancatosi nello stretto, con un ardore che eternamente lo rende benemerito del suo paese grida a’ soldati: «I cervi, non gli uomini, muoiono fuggendo, sciagurati! la notte d’inferno v’inghiotta, codardi che volgeste le spalle! fermatevi! o diverremo per voi nuovi Romani, che vi daranno delle spade in sul capo; e vi uccideremo a guisa di stupidi armenti, perchè, come essi vergognosamente fuggendo, lo meritate! volgetevi, e sarete salvi! fermatevi, in nome degli Dei, fermatevi!». Quei tre generosi, che tutto occupavano l’angusto luogo, corrispondevano a tre migliaia d’armati; e con quel grido fermatevi! assecondati dai vantaggi della loro posizione, e più ancora, dal potentissimo fascino dello straordinario loro ardire, valevole, non che altro, a cambiar le conocchie in lande, imporporarono del fuoco del valore tutti quei pallidi volti. I Britanni, scossi dalla vergogna, dal coraggio, dall’esempio, che nelle battaglie è l’arbitro della vittoria, cominciano a misurare cogli occhi lo spazio che la paura ha fatto loro percorrere, e ruggire a guisa di leoni piagati dai cacciatori: ed ecco tosto il vincitore desistere dall’inseguirne; e in breve arretrarsi, e fra poco essere sbaragliato, e darsi precipitosamente alla fuga. Imbelli e disperse colombe appaiono allora coloro che prima sembravano aquile che si avventassero sopra la preda: a modo di schiavi essi ricalcano le orme che avevano stampate in sembianza di vincitori; e la strage, che poco prima avea disertate le nostre file, sanguinosa discorre fra le legioni romane.
Lord. Prodigioso evento! un vecchiardo, e due fanciulli!
Post. Oh, non vi prenda tanto stupore! benchè già mi sembriate uomo più facile a meravigliarvi delle grandi azioni, che a compierle.
Lord. Addio, buon uomo. (esce)
Post. E costui è un nobile? oh illustre dappocaggine! essere sul campo di battaglia, e chiederne a me le novelle! Quanti di costoro avrebbero oggi rinunciato ai loro titoli per salvare le sciocche lor teste! quanti credevano trovar salvezza nella velocità delle gambe, che nondimeno sono periti! ed io, oppresso da tanti mali, che quasi come un fascino mi rendevano invulnerabile, io non ho potuto trovar la morte dove la udiva gemere, nè scontrarmi nel braccio di lei dove essa più crudelmente feriva! È veramente strano che questo orribile mostro si annidi entro le coppe del piacere, entro i letti di piuma, fra le dolci parole; e che ivi trovi maggiori agenti del suo furore, che non fra noi armati per servirlo. Ebbene! saprò trovarlo io: adesso non sono più Britanno; torno Romano, e mi lego al partito che prima seguiva. Non voglio combattere più, vo’ esser preda del primo malandrino che oserà arrestarmi. La carnificina che qui hanno fatto i Romani fu grande; la vendetta dei Britanni deve esser grande del pari. Per me, la mia vita sarà il mio riscatto; io l’offro a chi la vuole, che più non posso sostenerla, e desidero finirla; e sia qual vuolsi il mezzo, purchè a te mi guidi, mia dolcissima Imogène. (entrano due capitani britanni e alcuni soldati)
1° Cap. Lodi sieno a Giove! Lucio è prigioniero. Si crede che quel vecchio e i due suoi figli fossero angeli a noi spediti dal Cielo.
2° Cap. E tale era ancora quel quarto sì male in arnese, il quale affrontava con tanto coraggio il nemico.
1° Cap. Corre voce di ciò; ma alcuno di loro non può trovarsi. — Fermatevi! chi è là?
Post. Un Romano... che non vedreste or qui avvilito, se dai suoi fratelli fosse stato secondato.
2° Cap. Arrestatelo! un abborrito Romano!... non uno, non uno solo di loro deve tornare a Roma per annunziarvi a quali augelli i figli di quella città abbiano servito di pasto. Egli si annunzia distinto guerriero; guidatelo dal re. (entrano Cimbelino con seguito; Belario, Arvirago, Pisanio, e prigionieri romani. I capitani presentano Postumo al re, che ordina che venga consegnato a un carceriere; dopo di che tutti partono)
SCENA IV.
Una prigione.
Entra Postumo con due carcerieri.
1° Carc. Adesso non correrete rischio d’essere rapito: questi ceppi vi assicurano il posto: pascete adunque, e abbiatevi buon pascolo.
2° Carc. E stomaco migliore per smaltirlo. (i carcerieri escono)
Post. Io t’accolgo con gioia, schiavitù! tu, spero, mi aprirai la via alla libertà! Anche in questa prigione io sono più felice di colui che, essendo tormentato dai dolori, preferisce di gemere fra i patimenti, anzichè guarirne colla morte! sola costei ha le chiavi de’ miei ferri... Ma tu, mia coscienza, tu porti ferri ben più gravi di quelli che mi cingono le braccia. Accordatemi, benefici Numi, il pentimento; consentite ch’io rompa i legami che m’inceppano l’anima; e sarò libero per sempre... Ma basterà il mio pentimento?... Sì; con esso i figli placano i genitori; e gli Dei sono più clementi degli uomini. In nessun altro luogo potrei pentirmi meglio, che in questo; qui, curvato sotto il peso delle catene ch’io stesso ho cercate. A saldare il mio debito, mi spoglio della mia libertà, ch’è il maggiore mio bene: non vogliate, o Dei, da me più di quello ch’io possiedo! so che voi siete più pietosi degli uomini; e per la vita della mia diletta Imogène io vi offro la mia. Questa, è vero, non è di tanto prezzo; ma un dono è pure che da voi mi deriva, una immagine è della celeste esistenza. Abbiate, o Potenze del cielo, misericordia a’ miei mali; annullate il mio debito; frangete questi ferri che mi agghiacciano! Oh Imogène! io vo’ parlarti in silenzio. (si addormenta; si ode una musica solenne; entra, come apparizione, Sicilio Leonato, padre di Postumo, vecchio, in abiti da guerriero, guidando un’antica matrona, sua moglie, madre di Postumo; alcuni momenti dopo compariscono i due giovani Leonati, fratelli di Postumo, mostrando le mortali ferite riportate in battaglia; tutti s’aggirano intorno a Postumo, mentre egli dorme)
Sic. «Cessa, o Signore del folgore; placa il tuo sdegno contro i deboli mortali: garrisci piuttosto con Marte; o sgrida l’altera Giunone che conta i tuoi adulterii, e ne fa vendetta».
«L’infelice mio figlio non ha fors’egli operato sempre il bene? Oimè! io non l’ho mai veduto, chè la morte mi colse mentr’egli era ancora in seno a sua madre, aspettando il termine prefisso dalla natura».
«Giove, se veramente tu sei, come gli uomini dicono, il padre degli orfani, tu dovevi esser padre a lui, per difenderlo dai mali, onde contristata è la terra».
Mad. «Lucina non volle essermi cortese del suo aiuto: essa mi tolse di vita in mezzo ai dolori del parto; e il dolce mio Postumo con arte strappato dalle mie viscere, ha mandato il primo vagito dell’esistenza in mezzo a’ suoi nemici. Oh caro oggetto di altissima pietà!».
Sic. «La provvida Natura lo ha talmente modellato sul tipo de’ suoi maggiori, che, degnissimo erede del generoso Sicilio, egli ha saputo meritare le lodi dell’universo».
1° Frat. «E quando fu cresciuto negli anni, e quando divenne uomo, qual altro in tutta Brettagna poteva stargli a fronte? qual altro essergli rivale presso Imogène, che sapeva sì giustamente apprezzare la di lui virtù?».
Mad. «Vittima del suo amore, ei fu bandito, cacciato dall’illustre seggio dei Leonati, tolto alle braccia della sua diletta sposa, della tenera Imogène».
Sic. «Perchè permettere che un Jachimo, un vile italiano, gli travolgesse la mente e il cuore col veleno della gelosia? che un mio figlio divenisse ludibrio di tal scellerato?».
2° Frat. «Furono gl’ingiusti Destini che abbandonar ne fecero le nostre pacifiche dimore, dove solo han ricetto i generosi che seppero, combattendo, morir per la patria».
1° Frat. «E Postumo mostrò l’istesso valore per sostenere la gloria di Cimbelino; ma Giove, reggitore degli Dei, volle che le ricompense, dovute a’ servigi di lui, si cangiassero in pene e dolori».
Sic. «Apri, o Benefico, le cristalline porte del cielo, e getta su di noi uno sguardo: cessa d’esercitare l’ingiusto tuo cruccio sopra una schiatta di eroi».
Mad. «Poichè il figlio nostro è un prode, poni, o Giove, un termine alle sue sciagure».
Sic. «Inchina dall’alto de’ tuoi marmorei palagi lo sguardo alla terra, e porgine soccorso, o le squallide nostre ombre, altamente ululando, si appelleranno al Concilio degli altri Dei del tuo ingiusto potere».
2° Frat. «Porgine soccorso, sommo Giove; o noi rigetteremo i tuoi decreti, e ci sottrarremo alla tua giustizia». (Giove discende in mezzo ai tuoni e ai lampi, seduto sopra un’aquila; giunto a terra, scaglia una saetta, e tutti gli spiriti cadono in ginocchio dinanzi a lui)
Giove. Non più, spiriti imbelli d’abisso, non più! cessate una volta d’offenderne co’ vostri lamenti! tacete! Oh vane e stupide ombre! voi dunque osate accusare il Dio del tuono, la di cui folgore sgomenta, lo sapete, la ribellantesi terra? Abbandonate, aerei spiriti d’Eliso, questi luoghi; tornate a gustare il riposo sui letti di fiori delle vostre sempre verdi pianure; nè de’ mali vi calga che affliggono l’umanità; cura questa a voi straniera, e riserbata a noi soli. Io punisco colui che più mi è caro; io non aggiorno i miei benefizi che per accrescerne il pregio davanti agli occhi di lui. Calmatevi dunque: la nostra potenza rialzerà il prostrato vostro figliuolo: la benefica stella, da noi prediletta, ha presieduto alla sua nascita; ed è a’ piè de’ nostri altari che egli ha giurato fede alla sua sposa: alzatevi, e scomparite! Ei diverrà lo sposo e il possessore dell’illustre Imogène; e i suoi infortunii gli addoppieranno la grandezza della felicità. Ponete sul seno di lui questo libro, ove sono segnati i nostri decreti e i suoi destini: scomparite! cessate di querelarvi e di dar corso alla vostra impazienza, se risvegliar non volete tutta la mia collera! — Dirizza, aquila, il volo al mio palagio di adamante.
(scompare)
Sic. «Egli è disceso colla folgore in pugno, il suo alito diffondeva intorno odore di zolfo; la celeste aquila si abbassava, come se inteso avesse di posarsi sopra di noi; l’ascensione del Nume riempiva l’aere d’una fragranza più soave di quella delle nostre fiorite pianure, ed il regale suo volatore agitava gl’immortali vanni, e chiudeva mollemente il rostro, quasi accennando che il suo Dio era pago».
Tutti. «A te siano grazie, potentissimo Giove!».
Sic. «Ecco: le porte del celeste suo palagio si chiudono; egli è entrato sotto le raggianti sue vôlte: ritiriamoci; e se vogliamo esser lieti, adempiamo a’ sovrani suoi ordini».
(tutti gli spiriti svaniscono)
Post. (svegliandosi) Sonno, tu mi hai reso un padre: mi hai creata una madre e due fratelli: ma, oh vani prestigi! essi già sono dileguati, svanirono nati appena; e questo è lo stato in cui mi desto. — Infelici coloro che riposano sul favore dei Grandi! Essi sognano com’io ho sognato; e, svegliandosi, nulla ritrovano, come a me è avvenuto. — Ma oimè! taluni vi hanno, che senza pensare alla fortuna, e senza meritarla, veggonsi nondimeno pieni de’ suoi favori; e questo è quello che adesso mi accade, mercè il dolcissimo sogno, senza ch’io ne sappia la ragione. Quali genii abitano mai questi luoghi?.... Che veggo? un libro! ah! non essere anche tu, come nel mondo si vede, una bella scorza per un turpe midollo; non somigliare ai nostri cortigiani; non deludere le speranze che il tuo esteriore fa concepire. (legge)
«Quando il nato d’un leone, a se medesimo sconosciuto, sarà trovato senza che lo si cerchi, e ricevuto fra le braccia di cosa formata di molle aere; quando i rami d’un augusto cedro, recisi e morti già da molti anni, rinasceranno per riunirsi all’antico tronco, e d’una vita novella comincieranno a germogliare, allora i mali di Postumo avranno fine, e la Brettagna felicemente fiorirà nella pace e nell’abbondanza».
O questo è un altro sogno, oppure io non ho letto che vane parole, quali la lingua della follia le proferisce senza che il cervello v’abbia parte. O è l’una o l’altra di queste cose: o nulla è, e dissennati vocaboli son questi che alla ragione non è dato indovinare. Ma stia pure questo caos nella sua incomprensibilità: la mia vita gli rassomiglia, e ne conserverò il movimento per questa sola somiglianza. (rientrano i carcerieri)
Carc. Venite, signore: siete voi disposto a morire?
Post. Da gran tempo mi sono apparecchiato a ciò.
Carc. Forca! ecco la parola d’ordine, messere: s’essa non vi spaventa, siete un valentuomo.
Post. Se posso piacevolmente intrattenere la vista degli spettatori, avrò pagato il mio conto.
Carc. È un conto un po’ caro, bel giovine, mitigato però dalla certezza che non avrete più debiti da soddisfare, più contingenti da dare a’ tavernieri, gente che se da principio vi procura allegrezza, vi contrista poi di lì a poco; e presso i quali se entrate famelico, uscite briaco e vacillante; crucciato d’aver troppo speso, e d’averne ricevuto in compenso troppa merce; colla borsa ed il cervello egualmente vuoti: sebbene il cervello troppo grave a forza di esser leggiero, e la borsa troppo leggiera a forza d’avernela disgravata. Oh! in avvenire non vi saranno più simili contraddizioni per voi! la carità d’un obolo di corda vi libererà da mille debiti in un punto: questo è l’ultimo vostro scotto; e con esso saldate il passato d’avvenire: la vostra testa vi servirà di penna, di quaderno e di tavola; e la quietanza è già apparecchiata.
Post. Io sono più lieto di morire, che tu nol sei di vivere.
Carc. Infatti chi dorme non sente il dolore di denti; ma un uomo che debba dormire del vostro sonno, credo cangierebbe posto volontieri coll’ufficiale che deve aiutarlo a porsi in letto: perocchè voi non conoscete, amico, il cammino che state per prendere.
Post. Lo conosco.
Carc. La vostra morte ha dunque gli occhi? ciò mi fa meraviglia, perchè nel suo ritratto non li ho mai visti.
Post. Ognuno può sicuramente correr la via che mi è aperta dinanzi, purchè non rivolga altrove il capo per non mirarla.
Carc. Baie coteste! non volgere altrove il capo per non vedere una via che accieca? ah! il patibolo son ben certo che guida alla cecità. (entra un messaggiere)
Mess. Leva questi ferri, e conduci dinanzi al re il tuo prigioniero.
Post. Tu mi arrechi liete novelle; mi chiami a libertà.
Carc. In sua vece s’appenda dunque me ad un gibetto.
Post. Allora saresti più libero, che essendo carceriere: per gli estinti non vi sono catene. (Postumo e il Messaggiere escono)
Carc. A meno che non si trovasse qualcuno che volesse disposare la forca onde ingenerare tanti piccoli patiboli, non ho mai veduto chi avesse per lei maggiore inclinazione. (esce)
SCENA V.
La tenda di Cimbelino.
Entrano Cimbelino, Belario, Guiderio, Arvirago, Pisanio, Lordi, Ufficiali e seguaci.
Cimb. Rimanete presso di me, voi che gli Dei han fatto salvatori del mio trono! Sommamente mi duole che non si possa trovare quell’oscuro soldato che ha combattuto così valorosamente. Coperto dei cenci della miseria, egli affrontava le dorate armature; sempre lo si vedea nelle prime file col petto ignudo, e impenetrabile ad ogni spada. Se la sua felicità può dipendere dai nostri beneficii, felice sarà colui che arrivi a trovarlo!
Bel. Non ho mai veduto più nobile audacia in un semplice soldato, nè più illustri fatti compiuti per mano di uno sconosciuto, da cui, al primo mirarlo, altro non si sarebbe aspettato, che il supplichevole sguardo della mendicità.
Cimb. Nè se ne ha alcuna novella?
Pis. È stato cercato fra i morti e fra i vivi, ma senza che si sia potuto rinvenire.
Cimb. Con mio dolore resto dunque l’erede dei premii dovuti al suo valore; ma a voi (verso Belario, Guiderio e Arvirago), anima, testa e cuore della Brettagna, a voi gli accorderò; a voi, per cui soli questa nazione, pubblicamente lo dichiaro, ancora esiste! Ecco il momento di domandarvi chi siete; ditelo apertamente.
Bel. Noi, signore, siamo nati in Cambria, di nobile famiglia: vantarci d’altro sarebbe non essere nè veritieri, nè modesti: a meno che non aggiungessi che siamo gente d’onore.
Cimb. Piegate, cavalieri, il ginocchio, e rialzatevi. D’ora in poi accompagnerete la nostra persona nelle battaglie, e vi rivestirò degli onori che alla vostra nascita si addicono. (entra Cornelio con alcune signore) La tristezza è dipinta sui loro volti...! oh perchè mesti? A vedervi si crederebbe che foste Romani, non vittoriosi Britanni.
Corn. Salve, gran re! duolmi dover avvelenare la vostra felicità coll’annunzio che la regina cessò di vivere.
Cimb. Chi altri che un medico poteva arrecare sì dolorosa novella? E come morì?
Corn. Orribilmente, signore: delirante senza freni; e come in vita era crudele verso gli altri, finì, come doveva, coll’essere crudele contro se stessa. Le confessioni che ha fatte io ve le ripeterò, se desiderate intenderle: queste sono le sue dame, che possono smentirmi s’io m’allontano dal vero; esse raccolsero piangendo i suoi ultimi sospiri.
Cimb. Parla, te ne prego.
Corn. Anzi tutto ella dichiarò di non avervi mai amato, di non aver ambito di voi che le grandezze ed il trono, mentre abborriva la vostra persona.
Cimb. Questo segreto non fu conosciuto che da lei sola; e se non lo avesse rivelato sendo vicina a morire, non avrei potuto crederlo nemmeno quando me ne avesse fatto ella stessa dichiarazione manifesta. E poi?
Corn. Vostra figlia, ch’ella ingannava con fallaci dimostrazioni d’amistà, era agli occhi di lei un mostro; e se non fosse fuggita, le avrebbe con un veleno procacciata la morte: anche questo ha confessato.
Cimb. Oh furia! oh empia! chi potrà leggere nel cuore di una donna?... Non disse altro?
Corn. Sì, Maestà; e più orribili cose. Confessò dunque, che per voi serbava un mortale liquore, che, inghiottito che lo aveste, vi avrebbe lentamente condotto al sepolcro. Durante questo vostro deperimento, ella si proponeva di esservi assidua al fianco; e co’ suoi pianti e le sue carezze soggiogarvi, onde in propizio momento adottaste suo figlio quale erede della corona. Ma venendole fallita l’opera, per l’inesplicabile assenza di Cloten; è entrata in disperazione; e, superando ogni vergogna, ha disvelati al cielo e agli uomini i suoi atroci disegni; ed è morta col solo rammarico di non averli condotti a termine.
Cimb. Avete voi tutte udite, o signore, queste dichiarazioni?
Le Signore. Le abbiamo udite, Maestà.
Cimb. I miei occhi non furono colpevoli, perch’essa era bella; nè tampoco le mie orecchie, ch’ella incessantemente allettava colle sue melate parole; nè il mio cuore finalmente, che tale la credeva, quale sembrava essere. In me sarebbe stata colpa il diffidare di lei; ma tu, figlia mia, tu puoi ben dire che la mia fiducia era demenza; e tu, infelice! ne provi adesso gli effetti dolorosi. Il Cielo provegga a tutti! (entrano Lucio, Jachimo, l’Augure, ed altri prigionieri romani; Postumo e Imogène li seguono) Adesso, Lucio, più non vieni a chiederne tributi, che aboliti furono per sempre dai generosi Britanni che hanno in questo dì combattuto: la nostra vittoria ci è costato, è vero, il sangue di molti prodi; ma la vostra vita basterà ad esorarli: pensateci.
Luc. Pensa, signore, alle vicissitudini della guerra: per caso soltanto hai ottenuto la vittoria; ma s’ella avesse sorriso a noi, non avremmo, passato il bollore del sangue, minacciati di morte i nostri prigionieri. Pure, giacchè gli Dei così hanno disposto, nè altro riscatto ci resta, fuorchè la vita, sia fatto il loro volere. Ad un Romano basta saper morire da Romano: Augusto vive: e sia suo il pensiero di vendicarci. Per me, altro io non doveva dire che questo: ecco ora quello che mi resta ad esporre per altrui. Ti prego di accettare un riscatto per questo fanciullo (additando Imogène), che era a’ miei servigi, e che nacque Britanno: donzello non vive nè più amoroso nè più fedele; nè mai nudrice amò il proprio lattante, com’egli il suo signore. Le egregie sue doti valgano ad afforzare la mia dimanda, a cui non puoi rifiutarti. Egli non ha fatto alcun male ai Britanni, sebbene fosse ai servigi di un Romano: astienti dunque dal suo sangue, signore; pel resto, versane quanto pur vuoi.
Cimb. Certo io l’ho veduto costui: il suo viso mi è noto. — Giovinetto, la tua sola fisonomia t’ha fatto entrare nella mia grazia, e ti prendo al mio servigio. Non so qual motivo, qual tendenza sia che mi induca a dire: vivi, fanciullo, vivi! nè ringraziarne il tuo signore. Chiedi a Cimbelino quante grazie vorrai, e sta certo di ottenerle: sì quand’anche dovessi domandare la vita dei più illustri di questi prigionieri.
Imog. Ne ringrazio umilmente la Maestà Vostra.
Luc. Io non ti prego, buon giovinetto, di chiedere la mia vita, ma nullameno ben so che se’ per farlo.
Imog. No, no! oimè! altri pensieri mi premono: scorgo qui un oggetto, la cui sola vista m’è più crudele della morte. Quanto alla vostra vita, buon signore, pensate voi stesso al mezzo di ricomprarla.
Luc. Ei mi disprezza, m’abbandona, mi schernisce! Breve è la gioia di coloro che la fondano sulle affezioni della gioventù!... Ma da che procede la perplessità in cui lo veggo?...
Cimb. Che desideri, giovinetto? ad ogni istante io t’amo sempre più: pensa, e scegli la grazia che meglio ti piacerà. Conosci tu forse colui, sopra il quale s’affissano i tuoi sguardi? vuoi che egli viva? è forse tuo congiunto, tuo amico?
Imog. È Romano; nè m’è più congiunto di quello ch’io lo sia a Vostra Maestà, alla quale, per essere nato vassallo, sono assai più affine.
Cimb. Perchè dunque lo contempli con tanta attenzione?
Imog. Ve lo dirò in segreto, signore.
Cimb. Ed io ti porgerò ascolto. Qual è il tuo nome?
Imog. Fedele.
Cimb. Tu se’ il mio buon famiglio, il mio paggio; io vo’ essere il tuo signore: vieni meco, e parla liberamente.
(Cimbelino e Imogène parlano a parte)
Bel. Non è quel fanciullo ritornato da morte a vita?
Arv. Un granello di sabbia non può maggiormente somigliare ad un altro: sì, esso è quel fanciullo dalle guancie di rose, che noi abbiamo veduto estinto, e che si chiamava Fedele. Che credete?
Guid. Quell’estinto adesso lo vediamo qui vivo e sano.
Bel. Aspettate: due persone possono somigliarsi: s’ei fosse quegli che diciamo, sono certo che ci avrebbe già parlato.
Guid. Ma noi l’abbiamo veduto estinto.
Bel. Silenzio; e guardate.
Pis. (a parte) Quella è la mia signora. Ah! poichè vive, scorra pur rapido il tempo, e a suo grado m’arrechi o i beni o i mali.
(Cimbelino e Imogène si avanzano)
Cimb. Vieni; mettiti al mio fianco; muovi ad alta voce la tua dimanda. — Signore, (a Jachimo) inoltrate; rispondete a questo giovine, e fatelo con coscienza; o, lo giuro per l’onore della nostra corona, le più crudeli torture sapranno strappare il vero dal seno della menzogna. — Su, via parla.
Imog. Voglio che questo cavaliere dica da chi ebbe quell’anello.
Post. (a parte) Che importa a lui di ciò?
Cimb. Rispondete: quel diamante che vi brilla in dito, come è divenuto vostro?
Jach. Vorrai tu dunque mettermi sull’eculeo, onde strapparmi un segreto che, rivelato, porrà te pure sui carboni accesi?
Cimb. Che dici?
Jach. Godo che mi si voglia forzare a far palese una cosa che mi rodeva l’anima. Ebbene: io son divenuto possessore di questo anello con un’atroce perfidia. Esso apparteneva a Leonato Postumo, che tu hai bandito; e di cui, odilo e sempre te ne rimorda, non visse mai più nobile mortale sotto la vôlta dei cieli. Vuoi ch’io prosegua, Milord?
Cimb. Di’ quanto sai intorno a questa materia.
Jach. Tua figlia, quel raro tesoro, la cui rimembranza mi dilania, e agghiaccia gl’ingannatori miei spiriti... oh spietato affanno! perchè mi togli anche la lena?...
Cimb. Mia figlia? che vuoi tu dirmi? rinfrancati; favella. Amo che tu viva finchè agli Dei piacerà, anzichè vederti morire prima ch’io sia messo alla luce di tutto. Mia figlia, dicesti?...
Jach. Un giorno..... maledizione a quell’ora! in Roma..... abbominio alla casa che ne albergava! in un festino... a mensa..... oh! perchè non erano le nostre vivande avvelenate, almeno le mie?... il virtuoso Leonato... che dirò? egli ben meritava per la sua bontà di non iscontrarsi in ribaldi... seduto con noi, e malinconico, porgeva ascolto alle lodi che da noi si prodigavano alle nostre amanti italiane, estollendo la loro beltà in modo da non lasciargli più alcun encomio per la sua; e ben meglio a lui, che a noi, si addiceva parlar di bellezza. Spogliando le statue de’ loro più leggiadri attributi per adornarne le nostre belle, noi riunivamo in esse tutte le forme eleganti che l’avara natura si piace soltanto di abbozzare, e l’arte rende perfette; e vi aggiungevamo tutte le sensibili qualità che c’inspirano amore per una donna, e ce la fanno apparire un angelo disceso dal cielo.
Cimb. Io sono sulle spine: vieni al fatto.
Jach. Non ci verrò che troppo presto, a meno che tu non ami entrar prontamente ne’ tuoi dolori. — Quel Postumo, da nobile e generoso amante, possessore degli affetti d’una figlia di re, prese la parola; e senza disprezzare le beltà che noi avevamo esaltate, ne delineò col tuono dolce e sereno della virtù il ritratto della sua fanciulla. Quel nobile ritratto fatto da lui svergognava i panegirici che intessuti avevamo alle nostre femminette, e novizii ed ignoranti ci faceva apparire nell’arte di ben favellare.
Cimb. Ora finisci.
Jach. La castità di vostra figlia... qui incomincia la catastrofe... egli la celebrava, come se Diana medesima accanto a lei non fosse stata che un’impudica. Io, miserabile! non volli prestargli fede; e misi una somma di denaro contro questo anello, ch’egli aveva in dito, che sarei riuscito ad ottenere un posto nel suo talamo, e che l’anello mi avrebbe pagato l’adulterio della sua donna. Egli buon cavaliere, che dell’onore della sua sposa si teneva sicuro, accetta la proposta, e depone il diamante, che avrebbe egualmente arrischiato se fosse anche stato staccato dalle ruote del carro d’Apollo, ed avesse costato quanto il raggiante intero carro di quel Dio. Tosto io volo in Brettagna per condurre a fine il disegno; e potrete rammentare, signore, d’avermi veduto a questa corte, dove vostra figlia ha dato al mio ardimento una solenne lezione. Perduta la speranza, ma non già spento il desiderio, il mio cervello congegnò, sotto questa nebbiosa atmosfera, uno dei più vili e ad un tempo de’ più astuti strattagemmi. Per conchiudere, io venni a capo del mio intento; e tornai in Italia con tali mendaci prove, che valsero a mettere alla disperazione il nobile Leonato, e a fargli credere che, squarciato il casto cinto della sua sposa, avessi colto il frutto della mia vittoria. Allora... parmi di vederlo...
Post. (avanzandosi) Sì; tu realmente lo vedi, demone traditore!.. Ma io, oh troppo credulo insensato! oh vile omicida! io merito nomi più obbrobriosi di quanti mai furono scellerati sulla terra. — Ah! datemi un laccio, un veleno, un pugnale! Non è qui giustizia per farmi morire? E tu, sovrano, chiama il manigoldo più esperto; infliggimi le più crudeli torture. — Tu vedi in me un mostro, al cui paragone appare bellissima ogni cosa più rea: io sono il più colpevole degli uomini: sono quel Postumo che ti ha fatto uccidere la figlia! Ah! ella era il tempio della virtù: la virtù stessa! Copritemi d’obbrobrio; flagellatemi, seppellitemi nel fango; incitate per le vie i rabidi cani ad assalirmi; e il nome degli iniqui sia di qui innanzi quello di Leonato Postumo, perchè tutti io gli ho sorpassati, di tutti ho cancellato i delitti! Oh Imogène! mia sposa, mia vita, mia regina! Oh Imogène, Imogène, Imogène.
Imog. Calmatevi, signore: udite, udite...
Post. Tu insulti al mio dolore, insolentissimo paggio? lungi da me! (la percuote; ella cade)
Pis. Soccorso, signori! soccorso! aiutate la mia e la vostra signora... Postumo, voi prima d’ora non avevate mai tolto la vita ad Imogène. Affrettatevi a sovvenire l’onorata donzella!
Cimb. Si muta il mondo innanzi a me?
Post. Ond’è mai ch’io divengo vacillante?
Pis. Rientrate in voi, mia dolce signora.
Cimb. Se è vero, io muoio di contento.
Pis. Aprite, aprite gli occhi, mia signora.
Imog. Oh! togliti dal mio cospetto! Tu, tu se’ che m’hai apprestato un veleno: lungi da me, uomo pericoloso! non respirare più l’aere che i principi respirano.
Cimb. La voce d’Imogène!...
Pis. Principessa, mi fulmini il Cielo se non è vero ch’io riputava salutare il liquore che vi ho dato; la regina me ne avea fatto dono.
Cimb. Quale altro mistero!
Imog. Egli mi ha avvelenata.
Corn. (a Pisanio) Oh Cielo! io aveva obbliata un’altra confessione della regina, che farà apparire chiara la tua onestà. — Se Pisanio, ella diceva, ha propinato alla sua signora la bevanda che sotto nome di cordiale io gli ho dato, ella sarà già a quest’ora dove vorrei che fossero tutti i malefici insetti delle nostre case.
Cimb. Che vuol dir questo, Cornelio?
Corn. La regina, signore, spesse volte mi fastidiva perchè le distillassi un qualche veleno, dichiarando volerne fare scientifici esperimenti sopra que’ vili animali a cui senza dolore si toglie la vita: io però, temendo che più malefìci non fossero i suoi disegni, avea composto per lei un liquore, che, bevuto, sospendeva per qualche ora gli uffici della vita, che rifacevansi poscia meglio di prima. (a Imogène) Avete voi forse assaggiato di quella bevanda?
Imog. Non può essere altrimenti, poichè venni creduta estinta.
Bel. (a Guiderio e Arvirago) Ecco, figli miei, ecco la causa del nostro errore.
Guid. Questi senza dubbio è Fedele.
Imog. (a Postumo) Perchè avete respinto da voi la vostra legittima sposa? immaginatevi adesso d’essere in cima ad una rupe, e scagliatemi di nuovo nel precipizio.
(gettandosi fra le sue braccia)
Post. Resta, anima mia, resta al mio collo qui appesa come un frutto finchè l’albero muoia!
Cimb. O mio cuore, mia figlia, nulla hai dunque da dire a me? rimango dunque io qui inutile spettatore?
Imog. La vostra benedizione, signore. (inginocchiandosi)
Bel. (a Guiderio e Arvirago) Più non vi faccio rimprovero di aver tanto amato questo fanciullo, grande motivo ne avevate.
Cimb. Le lagrime, onde io ti bagno, scendano come una sacra pioggia sopra il tuo capo! Imogène, tua madre è spenta!
Imog. Me ne duole, signore.
Cimb. Oh! era una donna crudele, e non è che suo malgrado se ci troviamo riuniti; ma anche suo figlio è dileguato, nè sappiamo dove sia ito.
Pis. Milord, adesso, che non ho più alcun timore, vi aprirò il vero. Il principe Cloten, dopo la fuga della mia signora, venne a me colla spada nuda in mano, e fremente di collera; e giurò che se non gli manifestava quale strada ella avesse tenuto, quella sarebbe stata la mia ultima ora. A caso io aveva una lettera di Postumo, in cui con vaghi artificii egli invitava Imogène a muovere incontro a lui sulle montagne di Milford. Letto quel foglio, e preso da un accesso di demenza, tosto egli indossa gli abiti del mio signore, che mi aveva costretto a dargli, e s’avvia con sinistre intenzioni verso Milford: quello che poscia avvenisse di lui lo ignoro.
Guid. Dirò io il fine della storia, perchè io fui che l’ho ucciso.
Cimb. Oh! gli Dei nol vogliano! non sia che al tuo valore, alle gloriose tue geste io debba dare un crudele guiderdone! te ne scongiuro, valoroso giovine, smentisci ciò che hai detto.
Guid. Dissi la verità.
Cimb. Ma hai ucciso un principe.
Guid. Un principe indegno! e gli oltraggi ch’egli mi ha prodigato me ne diedero prova. Con tali parole provocommi, che mi avrebbero fatto avventare contro Marte stesso, se di simili questi ne avesse fatto suonare al mio orecchio: io gli ho troncato il capo; e godo che non sia qui a narrarvi di me ciò ch’io vi racconto di lui.
Cimb. Il tuo destino mi addolora; ma la tua lingua ti ha condannato: e ti converrà subire la morte, a cui le nostre leggi ti condannano.
Imog. Io ho creduto che quell’informe tronco fosse il cadavere del mio sposo.
Cimb. Sia messo in ceppi il reo, e lo si tolga dal mio cospetto.
Bel. Signore, fermatevi: questo giovine vale più assai di quello ch’egli ha ucciso: egli ha sortito natali illustri quanto i vostri; e più servigi vi ha reso, che non ne aveste potuto sperare da un intiero armento di Cloten. (alle guardie) Scioglietegli le braccia: esse non sono fatte per portare catene.
Cimb. Perchè vorresti, soldato, annientare i tuoi servigi, di cui non fosti sinora compensato, sponendoti così al mio corruccio? Che hai tu detto? di natali illustri quanto i nostri?
Arv. Veramente ha detto troppo.
Cimb. Ei deve dunque morire. (accennando Guiderio)
Bel. Tutti tre morremo; ma io vi proverò che due di noi possono vantare la illustre origine che a questo giovane io ho attribuita. Figli miei, m’è d’uopo rivelare un mistero pericoloso per me, ma per voi utile.
Arv. Il vostro pericolo è anche il nostro.
Guid. La nostra buona fortuna dev’essere comune anche a voi.
Bel. Porgimi attenzione, gran re. Tu avesti già un suddito chiamato Belario.
Cimb. E a che questo? era un traditore, e fu bandito.
Bel. Ebbene, egli ti sta innanzi: riconoscilo in questo vecchio da te discacciato e che mai non ti tradì.
Cimb. Impossessatevi di lui e traetelo lungi; l’intero universo nol potrebbe salvare.
Bel. Pon freno alla tua collera, e comincia dal retribuirmi per averti nutrito i tuoi figli; ricevuta che abbia la mia ricompensa, staggisci allora tutti i miei beni.
Cimb. Nutriti i miei figli?
Bel. Troppo sono stato audace: eccomi a’ tuoi piedi: prima che io mi levi, renderò chiari i miei alunni; dopo, se il vuoi, condanna pure a morte l’antico vecchio. — I due giovani eroi che mi chiamano padre e credonsi miei figli, a me non appartengono; tu hai data loro la vita; tu gli hai informati col tuo sangue.
Cimb. Col mio sangue?
Bel. Sì, con quel sangue che tuo padre ti ha trasfuso. Io, chiamato oggi Morgan, io sono quel Belario che hai espulso: il mio delitto non fu allora che il solo tuo volere: i miei patimenti, le colpe ond’io era reo. Questi due amabili principi, che amabili e principi essi sono, custoditi gli ho per vent’anni; e ogni talento posseggono, ogni virtù, che io ho loro saputo istillare. Eurifila, loro nudrice, rapì a te questi fanciulli dopo il mio bando: ed a ciò fare io l’istigai; ed in premio la feci mia sposa. Il mio esilio fu la pena anticipata di un delitto che soltanto dopo ho commesso. Punito per esserti stato fedele, pensai a un tradimento per vendicarmi. Più la loro perdita doveva sembrarti grande e dolorosa, più io accarezzava il pensiero di rapirteli. Ma ecco i figli tuoi; io te li rendo, e resto privo dei due più teneri amici che a questo mondo m’avessi. Possano le benedizioni del Cielo piovere come rugiada sopra le virtuose ed illustri loro teste, poichè degni essi sono di splendere fra le stelle del cielo.
Cimb. Tu parli e piangi: il servigio che mi hai reso, è più incredibile che nol sia questo racconto. Io ho perduto i miei figli; ma se questi fossero, io non saprei desiderare due più valenti giovani.
Bel. Degnatevi ascoltarmi anche un poco. Questi ch’io chiamava Polidoro, o milord, è il tuo vero Guiderio; l’altro, il mio caro Cawdal, è Arvirago, il minore de’ tuoi figli: io li ho ricevuti avvolti entrambi in un ricco drappo ricamato dalla regina loro madre; e, ove tu il voglia, potrò mostrartelo.
Cimb. Guiderio aveva sul collo una stella color di sangue, segno maraviglioso.
Bel. Eccolo; e’ porta ancora quell’impronta della nascita: la provvida natura per tal guisa lo segnava, onde fosse oggi riconosciuto.
Cimb. Oh! io provo tutti i sentimenti di una madre a cui sieno ad un punto nati tre figli! No; madre non sentì mai, dopo i dolori del parto, gioia maggiore di quella che io provo. Siate felici, figli miei; e dopo essere stati cacciati sì lungi dalla vostra sfera, rientrate in essa per regnare. Imogène, tu perdi in tal modo un trono.
Imog. No, milord; guadagno invece due mondi. Fratelli, amati fratelli, noi dunque ci eravamo incontrati? dite che io sono stata quella che parlò più veracemente. Voi mi chiamavate fratello, mentre non ero che vostra sorella; io vi chiamava germani, e tali realmente mi eravate.
Cimb. Vi vedeste prima?...
Arv. Sì, mio buon signore.
Guid. E dal primo incontro ci eravamo amati; ed avevam continuato ad amarla fino alla creduta sua morte.
Corn. Che fu prodotta dalla pozione della regina.
Cimb. Oh prodigioso istinto! quando potrò io udire tutti questi particolari? la rapidità di tali racconti ha fatto ommettere mille circostanze, che, per ordine esposte, debbono essere di somma importanza. Dove eri tu? come traevi la vita, figlia mia? per quali circostanze hai seguito la fortuna di questo prigioniero romano? come ti fe’ allontanare da’ tuoi fratelli? come li hai trovati? perchè sei fuggita da me? dove ne andasti?... E voi, come vi siete condotti tutti a combattere? A queste e a mille altre inchieste che ora mi si affollano alla mente, dovete risposta; ma questo non è nè il tempo, nè il luogo da ciò. Ecco Postumo fra le braccia d’Imogène; ecco Imogène, che cogli occhi pieni di fuoco tutti ne affissa; e lo sposo e il padre e i fratelli e questo Romano, suo signore, blandisce con que’ suoi sguardi d’amore e di pietà! Non è alcuno fra noi, che oggi nella sua sorte non provi uno strano cambiamento! Usciamo di qui e rechiamoci al tempio a fare i nostri sagrificii. Tu, (a Belario) tu sei adesso mio fratello, e lo sarai sempre per me.
Imog. Sì, voi pure ci siete padre; e a voi pure debbo questo giorno di felicità!
Cimb. E qui saranno tutti felici tranne quei miseri prigionieri? No, dividano anch’essi la nostra gioia e sentano gli effetti della nostra letizia.
Imog. (a Lucio) Mio buon signore, io voglio servirvi ancora.
Luc. Siate felice!
Cimb. Ah! quel prode soldato, di cui si è perduta ogni traccia, e che con tanto ardore ha combattuto, perchè non è egli qui? come lo vorrei largamente premiare!
Post. Signore, io sono quel milite, che sotto lacere vestimenta accompagnava questi tre prodi: queste vestimenta assecondavano allora il mio disegno. Non sono io forse quello, Jachimo? parla: io ti aveva atterrato e ti potea togliere la vita.
Jach. (inginocchiandosi) Di nuovo, ecco, mi atterro; ma se allora fu il vigore del vostro braccio, adesso è il peso della mia coscienza che mi costringe a piegarmi. Toglietemi, ve ne scongiuro, toglietemi questa vita, che per tanti titoli vi debbo; ma prima ripigliate il vostro anello e questo smaniglio della più fedele principessa che mai giurasse amore.
Post. Non ti prostrare a’ miei piedi: il potere che vanto sopra di te, è quello di perdonarti; il rancore che io nutro teco è il piacere di obbliare ogni tua offesa. Vivi dunque, ma comportati meglio cogli altri uomini.
Cimb. Nobile sentenza! E nostro genero il primo ne darà dunque esempio di generosità? Perdono è la parola che a tutti io rivolgo.
Arv. (a Postumo) Voi nella pugna ne avete soccorsi come un fratello: godo che tale ci siate veramente.
Post. E a voi devoto, o principi. — Nobile romano ambasciatore, fate qui venire il vostro augure: chè, durante il mio sonno, ho creduto vedere il gran Giove portato dalla sua aquila ed altre splendide larve che vestivano le forme de’ miei congiunti. Allo svegliarmi poi ho trovato questo scritto sopra il mio seno. Il contenuto n’è così oscuro, che indarno io m’adopero a divinarne il senso. Poniamo alla prova la sua scienza nell’arte d’interpretare i sogni.
Luc. Filarmonio...
Aug. Mio buon signore.
Luc. Leggi e spiega questo scritto.
Aug. (legge) «Quando il nato d’un leone, a se medesimo sconosciuto, sarà trovato senza che lo si cerchi, e ricevuto fra le braccia di cosa formata di molle aere; quando i rami d’un augusto cedro, recisi e morti già da molti anni, rinasceranno per riunirsi all’antico tronco, e d’una vita novella comincieranno a germogliare; allora i mali di Postumo avranno fine, e la Brettagna felicemente fiorirà nella pace e nell’abbondanza. — Tu, Leonato, sei il figlio del leone di cui si parla, e le parole che compongono il tuo nome lo chiariscono assai: la cosa formata di molle aere, è la tua virtuosa figliuola, o signore (a Cimbelino); e questo deriva dal nostro mollis aer, da cui abbiamo tratto mulier, che qui viene appropriato alla fedelissima sposa. Tornando poi a te, Postumo, tu adesso giustifichi le parole dell’oracolo; avvegnachè, sconosciuto a te stesso e senza ricerche trovato, ti vedi fra le braccia di lei, molli e delicate come un zeffiretto.
Cimb. Ciò mi par saggio.
Aug. L’augusto cedro sei tu, Cimbelino; ed i recisi tuoi rami simboleggiano i figli tuoi, che trafugati da Belario e già da molti anni creduti morti, rinascono oggi e si riuniscono al coronato loro tronco, i cui germogli promettono alla Brettagna pace e abbondanza.
Cimb. Sia pure; e cominci fin d’ora la pace. — Lucio, benchè vincitori, noi ci sottomettiamo a Cesare ed all’imperio romano, promettendo pagare l’usato tributo. Fu la colpevole nostra regina, che da questo ne aveva dissuasi; ma la giustizia del Cielo non ha che troppo aggravato sopra lei ed i suoi il suo braccio vendicatore.
Aug. I cantori degli Dei celebrano in Olimpo questa pace. Compiuta è la profetica visione da me svelata a Lucio prima che si ingaggiasse la fiera battaglia, il campo della quale è ancora fumante. L’aquila romana, che io vidi spiegar suo volo nei cieli da Oriente ad Occidente, e a grado a grado togliersi al mio sguardo e perdersi infine entro un torrente di luce, annunziava che il nostro potentissimo imperatore avrebbe rinnovato alleanza col valoroso e illustre Cimbelino, che tutto irraggia l’Occidente collo splendore della sua gloria.
Cimb. Rendiamo dunque grazie agli Dei, e tra i vortici degli odorati incensi ascenda la nostra gratitudine al Cielo! Facciamo nota questa pace a tutti i nostri sudditi; poniamoci in via. Il britanno ed il romano vessillo sventolino insieme dinanzi a noi: percorriamo così la città di Lud, e andiamo al gran tempio di Giove a sancire il fortunato accordo e celebrarlo con nazionali spettacoli. Non più indugi; si vada: non mai fu guerra che finisse con riconciliazione più bella, prima ancora che deterse fossero dal sangue le mani che l'avevano trattata. (Escono al suono di marcia trionfale).
fine del dramma.